Lungo la rotta balcanica: dal dramma dei migranti a un impegno associativo. Intervista ad Anna Clementi.

 

"Lungo la rotta balcanica – Along the Balkan Route" è un'associazione attiva dal 2015 nata dal desiderio di porsi delle domande sui contesti di provenienza e di viaggio di coloro – tanti, sempre più – che percorrono i Paesi lungo la rotta balcanica per fuggire da guerre, fame, violenze dai loro territori e per giungere in Italia.

L'idea di una specifica associazione nasce a seguito dell'apertura di questa via di accesso da parte dell'Unione Europea e dell'afflusso in Europa di centinaia di migliaia di persone attraverso un corridoio legalizzato dalla Grecia e dall'Austria.

Pochi mesi fa, i Punti Pace Pax Christi Bisceglie e Corato hanno promosso un incontro di presentazione del lavoro di questa realtà associativa e delle relative drammatiche questioni di fondo che la ispirano. Abbiamo colto l'occasione per porre alcune domande ad Anna Clementi, presidente dell'associazione che si occupa di sensibilizzare sui problemi relativi alla rotta balcanica, anche grazie all'esperienza sul campo.

Per iniziare, che cosa s'intende con "rotta balcanica"?

Parliamo di una rotta di migrazione utilizzata già negli anni Novanta dagli abitanti dei Balcani stessi (ex-Jugoslavia) per arrivare in Europa. Dal 2015 è considerata la principale via di ingresso in Europa, dove sempre più persone vogliono spostarsi, per diverse ragioni geopolitiche: le pressioni da parte della Turchia, la situazione drammatica e le tensioni in Afghanistan, il numero in aumento di profughi siriani. Quando Angela Merkel propose di sospendere il Regolamento di Dublino per accogliere richiedenti asilo siriani, i vari Stati dei Balcani – in accordo con quelli europei – decidosero di aprire un corridoio umanitario, un canale legalizzato che portasse le persone dalla Grecia al cuore dell'Europa. Una rivoluzione non solo in termini di numeri (circa 1 milione di persone arrivate in Europa in pochi mesi), ma anche perché fino a quel momento l'immigrazione avveniva solo per vie illegali. Questo la rende una rivoluzione anche per quanto riguarda i costi, tanto economici quanto umani, perché viaggiare con i trafficanti era estremamente lungo, costoso e pericoloso. La rotta passa tramite la Grecia: da Atene le persone vengono portate in bus al confine con la Macedonia; il confine viene attraversato a piedi, poi nel Sud della Macedonia si prendono nuovamente i mezzi pubblici per raggiungere il Nord; da qui si prosegue a piedi, si attraversano confini e Paesi…. Inizialmente la rotta passava attraverso l'Ungheria, poi già nel settembre 2015, è iniziata la costruzione del muro di Orbán. Da quel momento in poi, le persone passano dalla Croazia e dalla Slovenia.

Chi sono queste persone?

Si tratta perlopiù di afghani, siriani, iracheni, pakistani, marocchini, tunisini. Per assurdo, per arrivare in Europa il Mediterraneo è la scelta più pericolosa, negli ultimi anni sempre di più. Per questo, molte persone decidono di intraprendere la cosiddetta rotta via terra, per avere maggiori possibilità di sopravvivere. Tanti arrivano anche in Italia: sono principalmente pakistani e afghani che decidono di presentare domanda di asilo. In particolare, Trieste e Udine sono due realtà che già dal 2015 accolgono il maggior numero di persone, soprattutto di queste due comunità.

Qual è la situazione attuale della rotta?

Pian piano, la rotta è stata sempre più chiusa. A novembre 2015 vennero fatti passare dalla Grecia verso la Macedonia solo gli iracheni, i siriani e gli afghani: tutte le altre nazionalità restarono bloccate nel Nord della Grecia, in quel che poi divenne il campo di Idomeni. Da quel momento le persone iniziano a essere "centellinate" sempre di più, fino a quando nel marzo 2016 Unione Europea e Turchia strinsero un accordo che previde la chiusura definitiva delle frontiere, in particolare di Grecia e Macedonia, poi a catena di tutti gli altri Paesi. Da cinque anni circa la rotta balcanica (intesa come corridoio umanitario legalizzato) è tornata nelle mani dei trafficanti, e le persone cercano autonomamente di attraversare i confini in maniera (cosiddetta) illegale. Oltretutto, sono costrette a vivere in tende o in alloggi di fortuna, come gli edifici abbandonati. I campi in Grecia sono totalmente improvvisati, sono ex basi militari o ex aeroporti che dal 2016 a oggi si trovano ancora in uno stato impietoso. Eppure le persone ci vivono da ben quattro anni. Ci sono bambini nati e cresciuti in un campo che continuano a vivere in queste condizioni. È una situazione che mediaticamente viene trattata come una "emergenza umanitaria", ma non lo è.

Non lo è, in che senso?

Bisogna conoscere i fatti e avere una visione d'insieme: è una situazione in stallo dal 2016, quindi i tempi per definirla "emergenza" sono finiti da un pezzo. Ogni tanto i media si ricordano della Bosnia, pubblicano immagini strazianti, invitano a mandare beni e soccorsi; poi però finisce tutto lì, fagocitati da altre notizie. Non limitiamoci a curare le ferite senza capire chi le provoca.

Che cosa ha significato il covid-19 per i richiedenti asilo? È stato utilizzato dai governi per promuovere l'ennesima ghettizzazione di queste persone?

Le fasce più deboli sono da sempre più escluse dai diritti, anche sanitari: la situazione non è migliorata con il covid-19. Prendiamo per esempio la Grecia. A marzo 2020, la Grecia ha adottato subito misure severissime, anche se i casi erano ancora pochi, agendo in maniera preventiva. Il problema principale sono le cinque isole dell'Egeo dove sono collocati i cosiddetti "hotspot" (cioè quei campi dove le persone attendono che la domanda di asilo venga esaminata), perché molte persone vi restano prigioniere per oltre un anno, senza alcun tipo di protezione. Ci sono organizzazioni non governative che provano a fornire assistenza, come Medici Senza Frontiere, che però stanno all'esterno, perché entrare significherebbe legittimare l'esistenza di un campo-prigione. A un certo punto sono state distribuite delle mascherine, ma parliamo di un campo che non ha nemmeno bagni sufficienti e dove addirittura c'è una doccia ogni cento abitanti. Spesso chi riesce ad avere una doccia privata la mette poi a pagamento per gli altri. Si tratta di situazioni estreme: di 40.000 persone bloccate in questi hotspot, almeno la metà è composta da minori, minori stranieri non accompagnati, ma soprattutto famiglie con bambini. Persone rinchiuse senza possibilità di uscire, bloccate per strada dalla polizia. Tutti i servizi sono stati collocati all'interno, tra cui il bancomat, perché le persone ricevono circa 90 euro al mese: non tanto per una questione di sopravvivenza, quanto per evitare che si facciano scioperi della fame, o altre forme di rivendicazione politica. A giugno la Grecia ha riaperto le frontiere, le scuole, gli aeroporti internazionali e per mesi non è stato fatto alcun test covid-19, anche se si sapeva che qualche caso registrato di sicuro c'era, anche solo statisticamente. A settembre, quando il governo greco ha deciso di chiudere totalmente il campo di Lesbo per trasformarlo in una sorta di prigione, sono iniziati i test covid-19: hanno trovato i primi positivi e, conseguentemente, c'è stata grande protesta perché tante persone si sono rifiutate di andare in quarantena in un contesto del genere. Anche Medici Senza Frontiere chiedeva di far uscire le persone per consentire loro l'accesso a diritti sanitari, ma è stato impedito. È poi avvenuto l'incendio del campo di Lesbo, che ha improvvisamente attratto l'attenzione dei media per qualche giorno. A marzo la Grecia è stata di nuovo in lockdown e nei campi le condizioni in cui le persone sono confinate sono terribili, private dei più elementari diritti e senza più nemmeno che questo faccia notizia. E oggi la situazione non può essere che peggiore…

 

 

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Bosnia ed Erzegovina, la mancata accoglienza

Questo il titolo del Dossier, online dal mese di luglio 2021 nel sito dell'associazione, a cura della rete "RiVolti ai Balcani", composta da oltre 35 realtà, tra cui Lungo la rotta balcanica e singole persone impegnate nella difesa dei diritti delle persone. Il Dossier denuncia e informa sulla non gestione, da parte del governo bosniaco, del fenomeno migratorio. In particolare, il documento approfondisce la situazione del cantone Una Sana, a partire dal maggio 2018, crocevia di persone, migranti e richiedenti asilo, che percorrono la rotta balcanica per raggiungere l'Unione europea. Migliaia di persone si ritrovano così a vivere in condizioni disumane in un ambiente ostile e pericoloso. Anche a causa di scelte politiche gravissime dell'Unione Europea. Il dossier è scaricabile gratuitamente al seguente link: https://lungolarottabalcanica.wordpress.com/2021/07/15/e-online-il-dossier-bosnia-ed-erzegovina-la-mancata-accoglienza/