Eritrea: ancora un Rapporto di fuoco dell'ONU sui diritti umani. Ma la comunità internazionale resta inerte.

 

"Non voler vedere per non dover agire". Questo viene da pensare leggendo il nuovo Rapporto delle Nazioni Unite sulla violazione dei diritti umani in Eritrea. Un voltarsi dall'altra parte che chiama in causa la comunità internazionale e in particolare le cancellerie occidentali.

A scorrerlo, quel rapporto, pagina dopo pagina, sorge spontaneo tornare indietro al giugno del 2015 e del 2016. Erano gli anni in cui la fuga dei giovani eritrei si presentava come un flusso inarrestabile: almeno 5 mila al mese secondo l'Unhcr. In Italia i richiedenti asilo in fuga da Asmara, pur venendo da un Paese di appena 5 milioni di abitanti, erano almeno il 20 per cento del totale: 34.329 su 170.100 nel 2014 (pari al 20,18 per cento) e ben 38.612 su 153.842 (il 25,09 per cento) dodici mesi dopo. Nel giugno 2015, quando la Commissione ONU ha presentato un Rapporto nato da una meticolosa inchiesta durata un intero anno, migliaia di questi esuli si sono dati appuntamento a Ginevra, a sostegno della denuncia contro il regime contenuta in quel documento. Erano molti di più del pur numeroso gruppo di "fedeli" al governo di Asmara, accorsi per protestare.

In dittatura

È stato un momento memorabile. Quell'inchiesta ha evidenziato, forse per la prima volta in maniera così precisa e sistematica, che in Eritrea i diritti umani vengono costantemente violati e calpestati. Non per niente le Nazioni Unite hanno subito deciso di prorogare l'indagine per altri dodici mesi e nel giugno successivo (2016), a Ginevra, l'appuntamento si è ripetuto. Sempre con migliaia di esuli a sostenere le conclusioni dei commissari, che hanno ribadito il giudizio di condanna precedente, sottolineando che il regime di Asmara ha eletto a sistema di governo la violenza e il terrore, contro ogni forma di dissenso. Di più: è emerso che c'erano elementi sufficienti per portare i leader della dittatura di fronte a una Corte di giustizia internazionale.

L'elenco dei "capi d'accusa" è lunghissimo. E terribile in ogni singola voce. Ne emerge il quadro di un Paese dove la dittatura è tutto e le persone contano meno di niente. Militarizzazione totale, con un servizio di leva obbligatorio che, durando a tempo pressoché indeterminato, ruba letteralmente la vita di ciascuno: uomini e donne, giovani e meno giovani, ridotti spesso a lavoratori schiavi per il servizio nazionale, alle dipendenze dello Stato. Persecuzioni e carcere per tutti gli oppositori o per chiunque osi anche solo accennare a una protesta. E condizioni di detenzione inumane, non di rado in prigioni sotterranee e in regime di incommunicado, senza cioè la possibilità di alcun contatto con l'esterno, neanche con i familiari più stretti, tenuti all'oscuro persino di dove si trovi il carcere. In una parola, fatti sparire. Molti sono reclusi in questo stato dal 2001: dall'epoca del golpe che ha insediato definitivamente la dittatura, e non si sa nemmeno se siano ancora in vita. In tutto, secondo la diaspora, non meno di 10 mila prigionieri, sparsi in circa 300 galere. E ancora: torture diffuse; arresti arbitrari senza alcuna accusa specifica; un sistema giudiziario asservito al regime, basato su corti militari che hanno in pratica esautorato e sostituito la magistratura indipendente. Cancellata la Costituzione democratica del 1997, mai entrata in vigore. Soffocata ogni forma di libertà: politica, religiosa, di opinione, di parola, di stampa. Persino di movimento all'interno del Paese.

Negli anni successivi, con cadenza regolare, sono stati presentati altri rapporti. Tutti hanno confermato questo quadro terribile: di volta in volta, nessun progresso per la tutela dei diritti più elementari e rifiuto totale di collaborazione da parte del governo di Asmara, che anzi non ha esitato a tacciare come fake news i rilievi e le contestazioni dei commissari.

Cosa cambia?

Anche a leggere il Rapporto 2021, il settimo dopo l'appuntamento del 2015, si deve concludere che nulla è cambiato, se non in peggio. Lo dimostra, ad esempio, la chiusura o la nazionalizzazione di altre scuole religiose – come quella islamica di Assab o, segnalano tutti insieme i vescovi, nove cattoliche, sempre ad Assab (2), ad Addi Frnnè, Ala La'elay, May Harasat, Tekelabi, Ghinda, Embatkalla, Afabet – sulla scia di provvedimenti analoghi che nel recente passato hanno riguardato non solo le scuole ma importanti centri medici, punto di riferimento vitale per migliaia di persone, le più fragili. In più, negli ultimi mesi, si sono aggiunti altri due fattori. Il primo è la guerra in Tigrai, dove sono attribuiti proprio alle truppe eritree gran parte dei crimini emersi: stragi indiscriminate di uomini e donne inermi; stupri di gruppo sistematici; distruzione programmata di ospedali, chiese, moschee, monasteri, biblioteche, infrastrutture civili; saccheggio di tutte le risorse, i raccolti, il bestiame, le riserve di cibo, in modo da ridurre la popolazione alla fame, quasi una carestia indotta. E poi, secondo punto, la persecuzione di migliaia di profughi eritrei rifugiati in Tigrai, soprattutto nei campi di Shimelba e Hitsats, spesso costretti manu militari a rientrare in patria e poi svaniti nel nulla.

Sembra un incubo. Sette anni dal 2015 e non è cambiato nulla, se non il fatto che ora sono di meno i ragazzi che riescono a scappare: dall'inizio dell'anno, in Italia, risultano il 5,3 per cento del totale dei richiedenti asilo. È proprio qui il punto: in questa continuità, senza alcun cambiamento. I rapporti delle Nazioni Unite denunciano senza mezzi termini che l'Eritrea è sotto il giogo di una dittatura feroce come poche. Nessuno, dopo questa serie di denunce, può dire di non saperlo. Ma le cancellerie delle democrazie occidentali e, in generale, la comunità internazionale sembrano girarsi dall'altra parte, senza mostrare nemmeno un minimo di indignazione. Pare quasi che si sia sviluppata una sorta di assuefazione a tanto terrore e a tanta violenza. Pochi governi o nessuno, nei loro rapporti con Asmara, ne chiedono conto, né cercano in qualche modo di intervenire, magari ponendo precise, invalicabili condizioni nel contesto delle relazioni che è ovvio che ciascuno Stato mantenga  con tutti gli altri, anche con le dittature. Eppure si profilano dei crimini contro l'umanità. Anzi, da qualche anno, ignorando i rapporti dell'ONU, sembra essersi fatto strada quasi uno sdoganamento della dittatura, tirandola progressivamente fuori da quel limbo di "stato paria" in cui era precipitata.

Determinante, su questa strada, è stato l'alibi della pace firmata nel giugno 2018 che ha posto fine alla disastrosa guerra ventennale contro l'Etiopia. Si è cominciato a sostenere, ignorando ogni evidenza, che, grazie alla pace, il problema Eritrea si era risolto o comunque avviato a una rapida soluzione. Diversi politici italiani, di ogni colore, non hanno esitato a dichiarare che Asmara avrebbe imboccato "la via della democrazia". La realtà, però, è quella descritta, per l'ennesima volta, dal Rapporto pubblicato dall'ONU qualche settimana fa.

Colpisce in particolare il capitolo del Tigrai, per il ruolo svolto dai coscritti di Asmara nei mesi di guerra e di occupazione: sembra dimostrare che la violenza insegnata ed esercitata dalla dittatura è entrata nei cuori di molti giovani eritrei, facendone una "pratica quotidiana" largamente accettata. Un "sistema normale" per coloro che, per molti versi, possono definirsi i "figli del regime": ragazzi che nella loro vita non hanno conosciuto nient'altro. Si direbbe quasi una "mutazione antropologica", dovuta a oltre vent'anni di dittatura. Ed è questo, forse, il crimine più grande. Come ci si può, allora, voltare dall'altra parte e restare inerti? È questa la domanda che pone il nuovo Rapporto dell'ONU, insieme a tutti quelli che lo hanno preceduto. 

 

 

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Mussie Zerai è un sacerdote eritreo da anni in Italia, per tanti "l'angelo dei profughi". È stato tra i candidati al Premio Nobel per la Pace 2015 per il suo impegno in difesa dei diritti dei richiedenti asilo e dei migranti in fuga da guerre, dittature, terrorismo, persecuzioni, fame e miseria. Ha lui stesso un passato da profugo: nato in Eritrea, ad Asmara, è espatriato in Italia nel 1992, appena diciassettenne, come rifugiato politico. Nel 2006 ha fondato l'agenzia non profit "Habeshia", dal nome della zona tra Eritrea ed Etiopia da cui provengono i profughi. Ha studiato Filosofia a Piacenza e poi Teologia e Morale sociale presso l'Università Pontificia Urbaniana.

 

 

 

 

 


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