La pace è stata la sua vocazione, la sua passione e la sua strada. Don Tonino Bello ora è venerabile. Intervista esclusiva al card. Marcello Semeraro.
Don Tonino era un vero operatore di pace. Ora che il futuro dell'Est europeo, e forse dell'intera Europa, è messo in discussione da un'aggressione armata, vengono in mente le sue parole forti e chiare in occasione delle guerre del Golfo contro il riarmo. Vengono in mente le sue vere prese di posizione a favore della nonviolenza e il suo puntare sempre al dialogo, sulla forza del diritto internazionale e dell'Onu.
Don Tonino era un pastore al servizio di una Chiesa povera. Ha camminato con la gente, accanto ai poveri e ai diseredati. Ha percorso, instancabile, la strada in salita della costruzione di una pace legata alla giustizia e alla salvaguardia del creato. Don Tonino ora è venerabile, con decreto del 25 novembre 2021. Abbiamo incontrato il cardinale Marcello Semeraro, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, in esclusiva per Mosaico di pace.
Eminenza, nei suoi anni di docenza a Molfetta nell'Istituto Teologico Pugliese don Tonino era Vescovo di quella diocesi. C'è chi lo ha semplicemente visto come pastore buono ed esemplare, mentre altri ne individuano anche l'originalità del pensiero, ampio, creativo, versatile. Si potrebbe, secondo Lei, definire una "teologia di don Tonino Bello" (visti i contenuti trinitari, ecclesiologici, eucaristici performativi presenti nei suoi scritti e discorsi)?
Don Tonino giunse a Molfetta quando ero già allievo da un bel po' di anni e lo conobbi nel 1971-72, l'anno in cui io, subito dopo l'ordinazione, rimasi a Lecce, vicerettore nel seminario diocesano. Egli, rettore dei seminaristi ugentini, veniva spesso a trovarli e lì l'ho incontrato. Dopo Aldo Garcia venne a Molfetta come Vescovo, dove io insegnavo al seminario regionale. Lasciò subito l'impronta dell'accoglienza delle povertà umane e delle diversità. Il suo episcopio diventò casa aperta ai poveri. Cosa che destò anche sospetti, insieme a entusiasmi per un volto di Chiesa povera e serva.
Per me è un po' eccessivo parlare di una teologia di don Tonino. Al tempo stesso riconosco la sua capacità di cogliere dei fulgori e i "lampi" del Vaticano II: laicato, Chiesa e mondo, povertà, dialogo. Oltre alle intuizioni, il suo linguaggio era affascinante e travolgente. Annunciava il Vangelo della gioia con "gioia contagiosa". Concetti propriamente originali non ve ne erano, ma è stato interprete autentico e creativo del Concilio, dell'ecclesiologia di comunione. La sua è stata "ecclesiologia di esperienza" (1 Gv 1,1-4), esperienza storica di Chiesa viva incentrata sul Verbo incarnato, il Verbo della Vita. La teologia e il magistero di don Tonino nascono dall'esperienza e dalla sua spiritualità profondissima.
Nel documento che riconosce le virtù eroiche di don Tonino Bello si ricorda il suo impegno attivo per la giustizia e la pace nella sensibilizzazione a favore dell'obiezione fiscale contro le spese militari e la militarizzazione del Sud. Questo riconoscimento attuale coincide con quello che fu invece a suo tempo motivo di 'richiamo' da parte della CEI, che esortava don Tonino «alla prudenza pastorale e alla salvaguardia della comunione tra vescovi». Come è stata possibile questa "conversione"?
Non si è convertito don Tonino quanto piuttosto gli altri. A capo della CEI ci sono state figure non in sintonia con la linea del vescovo Bello, ma la storia degli effetti ha dato ragione a don Tonino. Parlo della storia di "anticipazioni" profetiche di don Tonino a cui sono seguiti degli "effetti".
Durante la crisi dei Balcani il vescovo Bello, con un'azione di pace formata da 500 persone (tra cui don Tonio Dell'Olio oggi redattore della rivista fondata da don Tonino stesso), si rese testimone di pace marciando su una Sarajevo dilaniata dai bombardamenti. A suo avviso, se ne può ricavare un modello per oggi? La Chiesa, che riconosce in questo gesto profetico indice di santità, può farlo proprio?
La fase conclusiva della vita don Tonino ha provocato reazioni "emotive" da parte di altri vescovi e politici e laici. Ma la sua fatica apostolica lo ha condotto a compiere scelte audaci, nonostante l'avanzare della sua malattia. Oggi c'è un entusiasmo forte da parte di chi vede in don Tonino un faro, un testimone verace e profetico, ma a me piace distinguere "la fama di santità" voluta dalla Chiesa cattolica rispetto alla "pubblicità". Nella fama di santità si riconosce, oltre all'uomo, l'azione di Dio. Il Papa con la sua visita ad Alessano fa della Chiesa lo stile di vita di don Tonino, le sue scelte e la sua storia intera.
"Santo, ma non santino" ha detto tempo fa padre Alex Zanotelli riferendosi al suo amico don Tonino. Eminenza, come si può evitare che la dichiarazione di santità del vescovo Bello lo riduca a una oleografica rappresentazione spirituale e moraleggiante? Questo potrebbe senz'altro chiudere i credenti in una comoda nicchia deresponsabilizzante.
L'agiografia ha abbandonato lo stile panegiristico, che porta a derive sia oleografiche che coreografiche. La santità è una risposta ad una chiamata. Occorrono intelligenza e discernimento per riconoscere la santità che viene da Dio. Occorre ricordare la sua umanità che non si presta a spiritualismi; occorre ricordare la sua ostinata scelta alternativa a logiche di privilegio (nella malattia scelse di recarsi a un ospedale qualunque della Puglia, anziché al Gemelli dove io gli consigliai di andare). Non è un santino, è un Santo. In Congregazione prima dell'esame degli Scritti, abbiamo fatto l'esame delle virtù teologali e umane. Don Tonino ha vissuto le virtù in modo eroico, non alla maniera di Ercole, ma in modo tale da incoraggiare il popolo di Dio.
Richiami da Roma, moniti intra Ecclesiam don Tonino ne ha subiti tanti. Non crede che per lui si sia verificato ciò che l'evangelista Luca dice con durezza circa "i costruttori di sepolcri dei profeti, assassinati dai loro padri" (cf. Lc 11,47)?
Conosco quello a cui si riferisce. A Roma giungevano testimonianze de auditu, cioè indirette. Man mano che don Tonino acquisiva visibilità e consensi, ciò suscitava scandalo, incomprensioni e fraintendimenti da parte del clero. Un esempio ad hoc quello della scelta di consegnare l'Eucaristia celebrata a Messa a don Ignazio De Gioia, partente per l'America Latina. Uno scandalo liturgico. E invece, accanto alle norme fatte dagli uomini, vi era in profondità la conoscenza di don Tonino della prassi apostolica (il frammento eucaristico donato ai diaconi in missione, come segno di comunione con il vescovo). Spesso i suoi gesti profetici hanno subito uno sguardo malevolo.
Don Tonino è venerabile. La prossima tappa, la beatificazione, richiede un miracolo. Le chiediamo pertanto "che cosa s'intende per miracolo": un segno tangibile di un sovvertimento delle leggi fisiche di natura o un "segno" carico di grazia, come è avvenuto per Giovanni XXIII, canonizzato senza miracolo e conclamato santo dai padri conciliari subito dopo la sua morte come "atto del Concilio"?
Una poesia di De Amicis dice: "Non sempre il tempo la beltà cancella". Il problema è superare la prova del tempo. Giovanni XXIII è stato canonizzato senza miracolo, ma prima della beatificazione c'è voluto il miracolo.
Giorni fa venne qui in Congregazione papa Francesco che mi ha detto: "Un miracolo ci vuole per forza, perché per me il miracolo è il dito di Dio". Quanto all'interpretazione del miracolo ricordo ciò che insegnavo in teologia e cioè che il miracolo è un evento tangibile non solo che è eccedente la natura, ma un segno escatologico, cioè che dice l'azione trasformante di Dio, la sua opera, "il suo dito" per ripetere le parole del Santo Padre. I miracoli sono "segni".