Qualifica Autore: Già Vicedirettore Famiglia Cristiana e corrispondente da Mosca

Le radici della guerra Russia-Ucraina risalgono a diversi anni fa. E i protagonisti dell'escalation bellica sono tanti. Ricostruiamo alcuni importanti passaggi storici.

 

È difficile capire la crisi che ha portato alla feroce invasione russa in Ucraina, con tutte le sue implicazioni, se non si accetta il fatto che questa è una crisi regionale dentro una crisi molto più ampia, globale. E che i morti di Khar'kiv e Mariupol', del Donbass e dell'esercito russo sono le vittime di uno scontro che non è cominciato il 24 febbraio scorso ma che dura da circa tre decenni.

La storia

La crisi regionale, quella tra Ucraina e Russia, si è svolta per intero sotto i nostri occhi. Nel novembre del 2013 cominciarono infatti a Kiev le manifestazioni di protesta che tra febbraio e marzo del 2014 portarono alla cacciata del presidente Viktor Yanukovich e a un radicale cambio di orientamento nella politica ucraina: da filo-russo a filo-occidentale. La scintilla era stata prodotta proprio dalla decisione, presa da Yanukovich, di annullare i molti passi fin lì fatti dai governi precedenti (in particolare dal presidente Viktor Yushcenko) per aderire all'Unione Europea. Non a caso il movimento prese il nome di EuroMaidan, perché si proponeva di sciogliere il vincolo con la Russia (Euro) e perché l'epicentro della protesta era nella centralissima Piazza Indipendenza (maidan vuol dire appunto "piazza"). Come sempre, situazioni di questo genere vengono lette in bianco e nero, buoni di qua e cattivi di là. Yanukovich fuggì in elicottero in Russia il 23 febbraio: era un politico smaliziato e corrotto, prono nei confronti di Mosca, ma era stato eletto regolarmente e democraticamente nel 2010, i suoi poteri erano legittimi. Sull'altro lato della barricata: gli ucraini hanno definito quei giorni "Rivoluzione della dignità" ma con pari ragioni i russi chiamano il rovesciamento violento del potere colpo di Stato. Fu l'una e l'altra, ci furono chiara volontà popolare e oscure manovre politiche (soprattutto Usa) poco chiare.

Resta il fatto che a poche ore dagli eventi di Kiev, Vladimir Putin decise di reagire. Occupò la Crimea, nel 1954 per decisione di Nikita Khrushcev integrata nel territorio dell'allora Repubblica sovietica ucraina, e la riannesse alla Russia. Poi fomentò (o appoggiò, a seconda delle interpretazioni) la rivolta autonomista della regione a maggioranza russofona del Donbass, contribuendo così alla nascita delle due Repubbliche di Donetsk e di Lugansk.

Era l'Ucraina nella UE, a preoccuparlo? Non si direbbe, la Russia putiniana fa da decenni ottimi affari con i Paesi dell'Unione.

Era forse la nuova democrazia ucraina, e il timore di un contagio democratico in Russia a metterlo in guardia? Difficile crederlo, la Russia ha rapporti con dittature e Paesi democratici, proprio come l'Occidente, che differenza poteva fare una democrazia in più o in meno? Tanto più che di democrazie, anche molto connotate in senso anti-russo, ai suoi confini ce n'erano già molte, dai Baltici alla Polonia. Quindi?

Il vero incubo del Cremlino era di vedere le portaerei Usa attraccate a Sebastopoli e i missili della Nato appunto nel Donbass. Aveva ragione di pensarlo? In teoria, e dal punto di vista militare, sì. Eventuali armamenti Nato così vicini al confine avrebbero reso il territorio russo indifendibile. Un missile moderno avrebbe impiegato pochi minuti di volo a raggiungere una delle grandi città russe. E se fosse stato un missile atomico… Però la Nato ha sempre negato di avere intenzioni ostili, anzi, di avere piani per disporre armi in Ucraina. E l'Ucraina non è mai stata nemmeno vicina a diventare un membro effettivo dell'Alleanza Atlantica. D'altro canto, qual è il Paese membro della Nato che non ospita armi Nato?

Noi italiani, con una cinquantina di bombe atomiche nei confini, lo sappiamo bene…

Insomma: non sapremo mai se la Russia avesse buone scuse per agire come ha agito. Però sappiamo che quel suo incubo, giustificato o no, aveva radici lontane, che ci portano alla crisi globale che contiene quella regionale.

Quando l'Urss sprofondò, i nuovi governanti russi elaborarono la teoria del cosiddetto "estero vicino". In sostanza, affermavano che la Russia aveva il diritto/dovere di esercitare un'influenza (forse un controllo?) sui Paesi usciti dall'Urss e diventati indipendenti. Non poca cosa, perché dal disfacimento dell'impero sovietico erano nate 15 nuove nazioni. Non possiamo, qui, ricostruire tutti i passaggi di quella pretesa russa. Diciamo che a Est, nell'Asia Centrale, essa si è più o meno realizzata, come il recente intervento dei peacekeeper russi in Kazakstan dimostra. A Ovest, invece, per Mosca è stato un disastro, una valanga partita ufficialmente il 23 marzo del 1999 quando il premier Evgenyj Primakov scoprì che gli Usa avevano iniziato a bombardare la Serbia mentre era in volo verso Washington proprio per consultazioni sulla Jugoslavia con il presidente Bill Clinton. Era la dimostrazione plastica del fatto che gli americani non sentivano alcun bisogno di tenere in conto il parere o la volontà politica dei russi. Che c'era un'unica superpotenza sul pianeta, ben decisa a far valere il proprio status.

Allora la Russia, nel marasma della fine dell'epoca di Boris Eltsin, non aveva la forza di opporsi. E non l'ebbe per diversi anni ancora. Ma intanto stava arrivando sulla scena (la nomina a Primo Ministro è dell'agosto 1999) un certo Vladimir Putin. La sua prima preoccupazione fu di ricostituire la coesione del Paese e ridare forza al potere centrale. La seconda, garantire che le risorse naturali, gas e petrolio per primi, tornassero a disposizione dello Stato e, soprattutto, rispondessero alle strategie del Cremlino. E quando l'opera fu compiuta, o almeno ben avviata, il nuovo leader mandò a dire che l'epoca della Russia irrilevante era finita. Successe nel febbraio del 2007, alla Conferenza internazionale sulla sicurezza di Monaco di Baviera. Putin fece un discorso durissimo, in cui disse due cose: la Russia non accetterà mai un mondo unipolare, sotto il dominio politico degli Usa; il mondo unipolare non è moralmente accettabile, non è politicamente gestibile e, soprattutto, non è militarmente sostenibile. Alla luce di quanto successo dopo, una profezia quasi sinistra.

Guerre

Da allora, infatti, Usa e Russia di fatto combattono quella "terza guerra mondiale a pezzetti" di cui ha parlato papa Francesco. Nel 2008 ci fu la guerra tra Russia e Georgia, un'anticipazione perfetta, sia pure su scala ridotta, dell'attuale guerra tra Russia e Ucraina. Alla fine dell'Urss, un'area della Georgia popolata in maggioranza da russofoni e russofili, l'Ossetia del Sud, cominciò a dirsi preoccupata per la politica nazionalista del Governo centrale e a chiedere prima l'autonomia e poi l'indipendenza. Seguirono anni di polemiche, scontri (con centinaia di morti), provocazioni reciproche. Quando tutto questo riprese, nel 2014, Mosca mandò i suoi carri armati a rimettere ordine e, ovviamente, a difendere l'Ossetia filorussa. I tank di Putin arrivarono a 10 chilometri dalla capitale Tbilisi, prima di ritirarsi. Una lezione violenta che il Cremlino voleva esemplare.

Alla guerra in Georgia sono seguiti scontri infiniti. Per esempio, la minacciosa disdetta da una parte e dall'altra di tutti i trattati sul disarmo e il controllo degli armamenti. Certi traffici mai ben chiariti in Afghanistan. Nel 2014, come sappiamo, la prima crisi ucraina con la Crimea e il Donbass. Nel 2015 l'intervento armato della Russia in Siria, per sostenere Bashar al-Assad e contrastare i piani Usa. Poi la Libia, la penetrazione russa in Africa, di nuovo l'Ucraina con otto anni di guerriglia nel Donbass e infine questa invasione. Per non parlare delle sanzioni americane, degli hacker russi, dell'espulsione dei diplomatici, degli assassini mirati…

Come sempre fanno le potenze, Russia e Usa si combattono soprattutto in casa d'altri. Ma non di meno si combattono. E da questo punto di vista l'Ucraina di oggi non è diversa, per fare un esempio, dalla Siria di ieri. Adesso molti dicono che il sogno di Putin è ricostruire l'Urss. Sarebbe una grande sciocchezza e il primo a saperlo è proprio Putin, che ha detto: "Chi non ha nostalgia dell'Urss è senza cuore, chi vuole ricostruirla è senza cervello". Un'altra sua frase che viene spesso citata è quella che dice: "La fine dell'Urss è stata la più grande tragedia geopolitica del Novecento". Tutti hanno guardato al termine "Urss" senza capire che per Putin la tragedia sta nella frammentazione, nella fine dell'unità imperiale che la Russia ha incarnato per secoli, anche in epoca sovietica: che cos'era Stalin se non un nuovo Ivan il Terribile? E i Paesi del Patto di Varsavia che cos'erano se non la riedizione dei vecchi vassalli e valvassori dello Zar?

È l'idea dell'impero quella che rassicura la Russia. Della vastità, delle migliaia di chilometri che i grandi invasori occidentali (perché dal Seicento a oggi, la Russia è stata invasa sempre da Occidente), da Napoleone all'impero austro-ungarico e Hitler, dovettero percorrere per raggiungere il cuore del grande Paese, per ritrovarsi poi sfiniti e confusi una volta avvistata la meta.

Questo cerca oggi anche Putin, nella folle e sanguinosa avventura che ha deciso di correre in Ucraina.

 

 


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