Cop 27: un esercizio in costruzione o l'ultima delle Cop?

 

Il 20 novembre, alla Cop 27 di Sharm el-Sheikh, tra lo stallo dei governi e le pressioni delle lobby e dopo un'impasse tesa e molte ore di negoziati, quasi 200 Paesi hanno raggiunto un accordo per istituire un fondo perdite e danni per assistere le nazioni più colpite dal cambiamento climatico – una richiesta considerata non negoziabile dai Paesi in via di sviluppo.

In effetti, i finanziamenti per il clima rimangono fondamentali per l'Africa e i Paesi più indigenti, se si pensa solo che il continente più povero contribuisce per il 4% alle emissioni globali ed è influenzato negativamente in misura maggiore dagli eventi legati al riscaldamento globale. Questo, però, è l'unico risultato davvero significativo dell'Assise protratta tra notevoli tensioni oltre la sua scadenza prevista; il solo obiettivo rilevante per cui la diplomazia multilaterale è ancora rimasta in funzione. Data la drammaticità del tempo che viene a mancare, acuito dagli effetti diretti sul clima delle guerre, questa novità rimane insufficiente per accelerare drasticamente la corsa delle rinnovabili, sostenute da efficienza ed elettrificazione, e, soprattutto, ridurre l'impiego di combustibili fossili per non oltrepassare il limite di 1,5°C, con l'imperativo di un repentino e radicale taglio delle emissioni di gas ad effetto serra.

In sostanza, Usa ed Europa per primi non hanno offerto una spinta sufficiente per piegare la resistenza dei Paesi produttori di gas, petrolio e carbone. Stiamo continuando "sulla strada verso l'inferno con il piede sull'acceleratore" – come ha detto Antonio Guterres, segretario generale dell'Onu.

Che le lobby dei fossili modifichino le loro politiche industriali con sostanziali cambiamenti verso le rinnovabili e non con irritanti greenwashing, ce lo si poteva aspettare, ma non al punto che la sensibilità della società civile venisse così delusa dalla compagine dei sostenitori del vecchio modello energetico, altamente energivoro e climalterante. 

Temo che, prese insieme, la Cop26 di Glasgow e la Cop27 di Sharm el-Sheikh siano la prova che l'assetto istituzionale uscito dagli Accordi di Parigi non funziona né potrà mai farlo senza una straordinaria presa di coscienza della società, che, mobilitandosi, costringa la politica a scrollarsi di dosso i relitti peggiori. A metà del 2021, sei mesi prima dell'incontro di Glasgow, i 193 governi chiamati a parteciparvi avevano presentato impegni di contenimento delle emissioni di gas climalteranti pari a meno della metà di quelli necessari a rispettare la soglia di 1,5°, con il risultato di superare 2,8°C. Pur essendo il risultato del fondo loss&damnage (perdite e danni legati al clima)un merito degli attivisti di tutto il mondo, oltre che un segnale politico necessario per ricostruire la fiducia infranta, la Cop27 avrebbe dovuto fornire un audace strumento finanziario ben superiore ai 100 miliardi di dollari ipotizzati (la spesa globale in armamenti arriva a 3100 miliardi di dollari!) per pagare le perdite e i danni alle comunità già colpite dal cambiamento climatico.

Nell'ambito del precedente vertice globale sul clima, svolto a Glasgow, le parti avevano concordato una tabella di marcia per cui i Paesi in via di sviluppo, che poco contribuiscono alla crisi climatica, avrebbero ottenuto un impegno dalle nazioni ricche a compensazione del loro danno. È la prima volta che viene riconosciuto unanimemente il "loss & damage," cioè il diritto al "risarcimento" ai Paesi resi fragili dal cambiamento, confermando che le Nazioni Unite sono l'unica sede internazionale in cui si riescono a firmare impegni sull'emergenza più incombente.

I negoziati

Secondo molti africani, i negoziati non sono stati abbastanza aggressivi nel trovare le soluzioni urgentemente necessarie sia su scala che per velocità: così hanno cercato di colmare le lacune dei rischi attuali associati al cambiamento climatico con un finanziamento per l'adattamento. Il costo per riparare questi danni è per la verità sbalorditivo e i Paesi che dovrebbero pagare sono quelli che hanno contribuito in primo luogo al cambiamento climatico.

L'Adaptation Gap Report dell'Unep del 2022, calcola che il continente debba pretendere tra i 7 e i 15 miliardi di dollari all'anno per migliorare l'adattamento ai cambiamenti climatici, oltre ai quasi 3 trilioni di dollari di investimento necessari per implementare le misure stabilite a livello locale per limitare le emissioni in linea con l'accordo sul clima di Parigi.

Purtroppo, le Conferenze delle parti non sono luoghi nei quali i governi possano modificare le politiche decise in patria, nei modi e nelle sedi previste dai loro ordinamenti e, a dispetto del Patto per il Clima, gli impegni annunciati dai governi sono rimasti lontanissimi dalla sufficienza – complessivamente, nella migliore delle ipotesi, una riduzione delle emissioni pari al 5% del volume. Al fine di restare sotto la soglia di +1,5°C ci sarebbe bisogno, più o meno, di un dimezzamento delle emissioni.

E i fossili?

Nel linguaggio degli Accordi di Parigi, si adotta la formula NDC- ‘Contributi decisi nazionalmente'- e attorno a questa loro caratterizzazione – ovvero alla loro natura "sovrana", decentrata, del tutto discrezionale – si è costituita l'intera governance varata nel 2015. Il risultato, detto in parole povere, è che ogni Paese si muove per conto proprio, se e quando vuole, senza neanche sapere quello che faranno gli altri.

La posizione sostenuta dall'Agenzia Internazionale per l'Energia, si limita a mettere sotto accusa i fossili "unabated", con il risultato, implicito di accreditare la possibilità che petrolio, carbone e gas si tramutino in amici dell'ambiente. Un equivoco preso al volo in Egitto, dove si dice che 600 lobbisti si aggirassero per la Cop27, facendo passare l'espediente di concentrarsi sul clima per non parlare di specifiche fonti di energia (gas, carbone, petrolio, uranio).

 Dopo aver lamentato queste lacune pregiudizievoli, che lasceranno i grandi utilizzatori della combustione dei fossili ancora sciolti da vincoli imperativi, concludo questa nota dedicando più di una osservazione al fondo di riparazione che, come una carbon tax implicita dovrebbe diventare operativo dal 2024.

Potremmo considerare questa soluzione un'opera di responsabilizzazione degli inquinatori a seguito di un successo dell'attivismo e della società civile ambientalista. Esiste e viene riconosciuto un altro mondo, che resiste e che richiede giustizia climatica oltre alla mitigazione.

Purtroppo, la riluttanza dell'Unione Europea e soprattutto degli Stati Uniti a mettere mano alla questione del "loss&damnage" superata soltanto in extremis, la dice lunga circa gli ostacoli destinati a sorgere sulla strada di scelte tanto più impegnative come quelle appena descritte. In fondo, crescita e Pil incominciano a collocarsi nell'archeologia del pensiero della specie umana, se vuole assicurarsi la riproduzione non solo di se stessa, ma dell'intera biosfera.

Interessante sotto questo punto di vista è un documento dei Gesuiti Africani che tratta esplicitamente del "loss&damnage" come conseguenza dei cambiamenti climatici che non possono essere evitati né mitigati. Si tratta, cioè, di danni considerati irreversibili per Paesi vulnerabili.

"Il discorso sui cambiamenti climatici nel Nord globale – si afferma nel documento – è focalizzato sulla mitigazione dei loro effetti. Questo approccio è figlio del privilegio, fatto su misura per quei Paesi che non stanno già sperimentando tutta la portata degli impatti climatici e che dispongono di ampie reti di previdenza sociale e di strumenti di protezione che li aiutano a far fronte agli eventi estremi. Il meccanismo del ‘loss&damnage' mira invece a inquadrare il problema dal punto di vista delle persone colpite".

E più avanti si dichiara: "non è colpita solo l'economia, ma l'eredità culturale, la coesione sociale, le abitudini quotidiane, il senso di identità e le relazioni umane". Cioè quei valori irrinunciabili, proprio nell'ottica dello sviluppo umano integrale, così cara all'elaborazione della Laudato Si' e ai movimenti politici e sociali che esigono una giustizia riparativa e universale.

 

 


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