Equilibri e interessi, attori e strategie nella guerra Russia-Ucraina. Quale stabilità in Europa e nel Mediterraneo? Intervista ad Alberto Negri.

 

Alberto Negri è uno dei maggiori conoscitori italiani delle guerre del Medioriente. Giornalista, è stato inviato di guerra per il Sole24ore in diversi conflitti armati. Lo abbiamo intervistato per commentare alcuni aspetti di questa complessa e drammatica vicenda ucraina. Ha un blog, con articoli utilissimi per approfondire questa guerra e non solo: www.remocontro.it.

Oltre all'aggressione russa e alle richieste di autodeterminazione di alcune aree, quali sono le ragioni di questo conflitto? È solo la guerra di un folle con smanie di espansionismo?

Innanzitutto è opportuno sgomberare il campo da interpretazioni e psicologismi su Putin, fatti da gente che non conosce la Russia. Le ragioni della guerra, in realtà, sono più profonde di quelle che ci hanno raccontato in questi mesi, sia la propaganda russa sia quella occidentale. Chi ha un minino di profondità storica – unica prerogativa per poter ragionare seriamente – sa perfettamente che già dal 1991, crollo dell'Unione Sovietica, c'erano stati segnali che inducevano ad affrontare la questione dello "spazio geopolitico" russo. La fine dell'Unione Sovietica è stata considerata da tutti una sorta di tragedia geopolitica. In realtà, si è trattato del crollo di un sistema sconfitto dalla Storia. L'errore è stato pensare che lo spazio politico della Russia fosse automaticamente definito o che si potesse circoscrivere con facilità. Parliamo del Paese più grande del mondo dal punto di vista geografico: parte dall'Europa e arriva sino a Vladivostok. È quasi un continente, non a caso spesso denominato "Eurasia". E i problemi della Russia sono pari a quelli di un paio di continenti. Ignorarli non era un modo per affrontarli, né lo era circoscriverli. Gli stessi esperti americani più di una volta avevano allertato gli Stati Uniti e l'Europa che un'espansione della Nato avrebbe creato dei problemi. Lo stesso Kissinger, a proposito dell'Ucraina nel 2014, sul Washington Post scriveva che non si doveva fare dell'Ucraina una testa di ponte occidentale contro Mosca, quanto piuttosto un ponte tra Mosca e l'Occidente. Queste parole, sagge, sono state purtroppo ignorate da un processo di espansione occidentale verso gli ex Paesi del Patto di Varsavia, l'alleanza che si contrapponeva alla Nato. Crollati l'Unione Sovietica e il Patto di Varsavia, rimaneva solo la Nato che progressivamente allargava la partnership alle ex Repubbliche dell'Unione Sovietica. Per lungo tempo questa estensione non è stata contrastata da Mosca, che non ha accettato però l'espansione verso uno spazio geopolitico ritenuto parte integrante della sua sfera di influenza – come l'Ucraina o la Georgia. Infatti, ci sono stati due interventi: in Georgia nel 2008 e in Crimea nel 2014.

Dunque, la guerra in Ucraina non è il frutto di una casualità né una decisione improvvisa di Putin, ma il risultato di più circostanze. La questione del Donbass era sul tavolo da otto anni; e anche noi – esponenti della stampa – avremmo dovuto essere più attenti nel seguire il processo diplomatico che riguardava l'Ucraina – soprattutto dopo il conflitto del 2014 che ha provocato 14.000 morti. Si siglarono gli accordi di Minsk nel 2014 e poi altri nel 2015, che prevedevano la protezione della minoranza russa, una sorta di autonomia del Donbass, sia di Donec'k sia di Luhans'k. Accordi che avrebbero potuto attenuare le tensioni interne ed esterne riconoscendo un ruolo politico alla minoranza russa che, di fatto, costituiva il 30 per cento dell'Ucraina. C'erano, dunque, altre strade per evitare il conflitto.

Inoltre, la decisione di Putin di aggredire l'Ucraina in maniera così sanguinosa probabilmente è stato un espediente per distogliere l'attenzione da tensioni interne. Tanto è vero che la decisione di invadere l'Ucraina è stata presa in una cerchia ristretta di oligarchi: è noto che la gran parte dei diplomatici russi non sapessero quali fossero i piani militari e che buona parte del Cremlino pensava che questa "Operazione speciale", come l'ha definita la propaganda di Mosca, fosse un'azione militare limitata alla regione autonoma del Donbass.

Tornando all'espansione della Nato, la richiesta della Finlandia e della Svezia di farne parte può condizionare ulteriormente gli equilibri internazionali?

L'adesione della Finlandia e della Svezia alla Nato ha natura diversa. L'opinione pubblica condiziona fortemente la richiesta della prima; in Svezia, ho l'impressione che ci siano delle voci dissonanti. Al di là di queste considerazioni e del fatto che il loro ingresso nella Nato aumenterebbe certamente la tensione tra le aree coinvolte, il vero problema è che la Nato sta riempiendo di armi l'Ucraina e che gli inglesi hanno dichiarato esplicitamente che gli ucraini possono colpire i russi nel loro territorio. Questo significa intervento diretto della Nato. Si può ancora chiamare guerra per procura? Certo, lo è, ma è una guerra che da un momento all'altro può diventare uno scontro diretto tra la Russia e l'Alleanza Atlantica.

Quale peso hanno le risorse energetiche in questo conflitto?

Non è un mistero per nessuno – anche se in Italia se ne sono accorti tardi – che noi dipendiamo per 29 miliardi di metri cubi di gas dalle forniture annue della Russia, pari al 45%. Bisognava fare i conti con questa situazione nel momento in cui esplodeva una guerra. Tutti contavano sul fatto che Putin non fermasse le forniture di gas in Europa. Noi facciamo fatica a trovare alternative. All'Italia è mancato uno dei principali fornitori energetici, la Libia: con quest'ultima abbiamo un gasdotto di 540 chilometri con una portata di 30 miliardi di metri cubi l'anno che solleverebbe moltissimo l'Italia dalla dipendenza russa, ma oggi ci fornisce solo 5 miliardi di metri cubi. Con la caduta di Gheddafi nel 2011 e la mancata stabilizzazione del Paese, l'Italia ha come perso interesse per la Libia. In compenso da lì sono arrivati centinaia di migliaia di profughi destabilizzanti per noi. Con "i nostri alleati", negli anni scorsi, avremmo dovuto chiedere il ritorno a pieno titolo della Libia nella comunità internazionale così questa sarebbe diventata un nostro grande fornitore di energia, insieme all'Algeria e ad altri Paesi.

Lei ha visto e documentato tante guerre, Iraq in primis: qual è la differenza con questa attuale? Quali diversità nella narrazione e nella percezione?

L'opinione pubblica si è sempre interessata in modo intermittente – anche i giornali e i media – di quello che accadeva sulla scena internazionale. L'Italia non ha mai investito in un'informazione sull'estero in maniera continua, così come non ha mai investito nella politica estera con intuibili conseguenze. La narrazione della guerra in Iraq è stata falsa: americani e inglesi avevano sostenuto che bisognava attaccare l'Iraq perché possedeva armi di distruzione di massa. Armi mai trovate. Questo ha condotto a un conflitto che ha sprofondato nel caos non solo l'Iraq ma l'intero Medioriente, con tutte le conseguenze ben note come la miseria, la violenza. E oltre alla guerra in Iraq, c'era l'Iran, secondo per le riserve di gas al mondo ma fuori dalla nostra attenzione perché sotto sanzione. Tutte queste situazioni hanno continuato a mantenersi nel tempo come se fossero una scenografia teatrale. Solo quando la guerra è entrata in Europa, con l'Ucraina, abbiamo cominciato a guardarci intorno e abbiamo scoperto che eravamo altamente impreparati.

Rispetto alla decisione di aumentare le spese militari, proprio in questo frangente temporale e politico, quali i sono i suoi commenti?

Io penso che, dal punto di vista dell'andamento generale del conflitto, l'aumento delle spese militari da parte dell'Italia non ha una grande influenza. Cosa diversa per la Germania che ha annunciato di voler investire 100 miliardi in armamenti, con un peso ben diverso, politico e militare, nel lungo periodo. La Germania sinora ha perseguito una politica di contenimento delle spese militari. La decisione di aumentarle in questo modo "spettacolare" la fa uscire dalla posizione in cui era dalla fine della Seconda guerra mondiale: il Paese sconfitto non doveva riarmarsi (e non doveva ospitare basi americane della Nato). Per l'Italia invece l'aumento delle spese militari ora è un problema. Verrà spalmato nel tempo e poi magari rallentato anche perché abbiamo problemi seri da un punto di vista economico come la questione energetica di cui abbiamo parlato. Credo che l'Italia sia un Paese indipendente ma non sovrano. Indipendente sulla carta, non sovrano però perché ospita 60 basi militari americane, basi Nato, 12mila soldati americani, una novantina di testate atomiche che non sono sotto il suo controllo… Mi pare evidente che il Paese è quasi sempre "sdraiato" sulle posizioni americane e tutti i Governi, più o meno, hanno seguito questo schema. I nostri politici hanno varato l'aumento delle spese militari per non irritare Washington e continuare ad avere un sostegno dagli Stati Uniti. Pseudo sostegno, però, perché di fatto si concretizza nel fare più o meno quello che viene chiesto dagli Usa. Ma gli Stati Uniti non hanno portato alcuna stabilità nel Mediterraneo.

 

 


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