Don Lorenzo Milani riletto oggi. La scuola, la cura dei nostri giovani perché superino ogni condizione di subalternità.
Fra qualche mese ricorderemo il centesimo anniversario della nascita di Lorenzo Milani, venuto al mondo a Firenze il 27 maggio 1923 e scomparso prematuramente il 26 giugno 1967.
Nell'ultima lettera ai suoi ragazzi – in particolare a Francuccio e Michele Gesualdi – don Lorenzo scrisse: "Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto". Credo che il torto più grande che potremmo fare come educatori – insegnanti, genitori, donne e uomini che hanno a cuore l'educazione – sarebbe quello di pensare di poter ripetere senza mediazioni, riflessioni e adattamenti ai diversi contesti e all'epoca diversa l'esperienza della scuola di Barbiana e del suo grande maestro.
Cerco di spiegarmi bene. Una certa vulgata come minimo strumentale e quasi sempre in malafede ha descritto, soprattutto in questo ultimo decennio, il lavoro di don Milani come se fosse improntato a un generalizzato e continuo appello alla promozione senza studio di alunni e di alunne (qualcuno ha ancora la facciatosta di assomigliarlo al cosiddetto "6 politico") o, peggio, al mantenimento di una presunta "purezza contadina" da preservare per i suoi ragazzi e ragazze, figli e figlie di famiglie contadine del Mugello, contro le insidie corruttrici della modernità. Fu tutto il contrario, se si volesse approfondire seriamente. A Barbiana si studiava dodici ore al giorno trecentosessantacinque giorni all'anno, trecentosessantasei negli anni bisestili. E l'educazione, soprattutto quella alla lingua italiana, dei ragazzi e delle ragazze aveva come scopo principale quello di emanciparli dalla subalternità che ha sempre l'ignoranza come concausa e di affidare loro il patrimonio di una autonomia di giudizio senza la quale sarebbero per sempre rimasti nella condizione di soggetti oppressi.
Quel testo indispensabile per ogni educatore che si dica tale rappresentato da Lettera a una professoressa dice esattamente questo: non vogliamo esser promossi "a prescindere", perché siamo persone serie che hanno fatto del rigore della propria preparazione un imperativo categorico, ma rifiutiamo la falsa coscienza che racconta che i diligenti possono sempre arrivare primi, perché le condizioni di partenza rispetto ai nostri compagni e alle nostre compagne provenienti da famiglie borghesi non sono le stesse e non c'è niente di più ingiusto che far parti uguali fra disuguali. E le parole che noi abbiamo imparato, scavando nei loro significati, sviscerandone etimologie e provenienze, approfondendo fino quasi alla purezza del diamante il senso profondo di ogni sostantivo, verbo, aggettivo sono la pala e il piccone e il coltello portato nel bosco e il raschietto per far pulizia concettuale che abbiamo messo nella nostra bisaccia per andar nel mondo e provare a trasformarlo.
Non è un caso se, a oltre mezzo secolo dalla morte di don Lorenzo, il suo insegnamento e il suo esempio – come quello di altri grandi educatori come Mario Lodi o Margherita Zoebeli – sia ancora più che presente e più che utile nelle riflessioni e nelle pratiche di chi voglia affrontare l'azione educativa come azione di liberazione. Ma non possiamo, dicevo, pensare di ripetere quell'esperienza in modo acritico e agiografico – che a don Milani non sarebbe proprio piaciuto – e senza porre attenzione almeno ad alcune questioni cruciali. Barbiana è stata, per forza di cose e con una scelta che Lorenzo Milani aveva già iniziato a sviluppare ancora quando era curato a san Donato di Calenzano, una scuola privata. Non certo nel senso di nicchia per élites, magari molto disponibili economicamente. Ma per reagire attivamente a una scuola pubblica che escludeva con una selezione feroce e spesso ferocemente classista ragazzi e ragazze provenienti da situazioni socioeconomiche precarie. (È la stessa scelta che appena qualche anno più tardi, proprio dopo aver conosciuto alcuni ragazzi di Barbiana, compirà don Roberto Sardelli con la sua Scuola 725 nelle baracche della periferia romana).
Ma don Milani stesso – lo scrisse insieme ai suoi ragazzi proprio in Lettera a una professoressa – non mancava di ribadire che "sortirne da soli è avarizia, mentre sortirne insieme è politica", ribadendo così che solo una scuola pubblica, democratica e con effettiva attenzione alle possibilità di crescita di ogni ragazzo e di ogni ragazza, senza eccezione alcuna, avrebbe avuto (e avrebbe ancora oggi) la possibilità di svolgere a pieno il suo compito.
Se ci pensiamo, infatti, lungi dall'essere utilizzo nemmeno concettuale di quell'orrendo e mal interpretato termine che è "meritocrazia", la scuola di don Milani rispondeva in maniera molto chiara alla domanda che chiunque di noi dovrebbe porsi prima di tutte le altre: a cosa servono scuola ed educazione?
Esistono varie risposte, tutte in teoria legittime e nella storia praticate in attivo. C'è chi risponderebbe che la scuola serve a formare le future classi dirigenti. C'è chi affermerebbe che compito della scuola è fornire competenze per il successivo inserimento nel mondo del lavoro. C'è chi – e don Milani era certamente fra questi – direbbe che la scuola è il luogo in cui ragazzi e ragazze, in condizioni di salute (secondo la definizione della Organizzazione Mondiale della Sanità: "stato di benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia"), acquisiscono saperi e struttura relazionale orientati alla capacità di analizzare criticamente l'esistente, al fine di trasformarlo in direzione del benessere di tutte e di tutti.
Non una scuola – e una società – dell'affermazione individuale, del successo del singolo, del soddisfacimento egotistico di qualsiasi pulsione e desiderio, ma una scuola – e una società – della condivisione e del mutuo sostegno. Non una scuola – e una società – che predica e pratica la competizione come strada del progresso, ma una scuola – e una società – che non intende lasciar indietro nessuno. È ancora possibile pensarla – e agire in pratica – così? Io credo che non solo sia possibile, ma che, soprattutto in questi tempi in cui l'esaltazione massima della logica della competizione rischia di tradursi nella sua più grande e più distruttiva manifestazione, cioè la guerra, sia indispensabile.
L'eredità che ci lascia don Lorenzo Milani non è quella di innalzare monumenti alla sua (pur) luminosa e irripetibile figura, né quella di costruire delle simil-Barbiana intese come nicchie di protezione dai mali del mondo. È quella, a parer mio, di stare nel mondo (magari ricordando l'insegnamento che sta in Mt 10-16 Ecco: io vi mando come pecore in mezzo a lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe) per cercare di farlo diverso, ciascuno di noi inventando, giorno per giorno, senza dimenticare i maestri e le maestre che abbiamo alle spalle, ma con lo sguardo saldo nel presente e ogni tanto sbirciando il futuro, nuovi pensieri e nuove azioni.