Nelle trame della storia e della politica: i crinali della guerra, i fallimenti dei negoziati. E le possibili prospettive.

 

Qual è il compito della politica e della diplomazia? Se lo è chiesto, in un intenso editoriale di metà luglio pubblicato su Avvenire, Mario Primicerio, ex sindaco di Firenze, e qualche decennio fa giovane funzionario cui toccò in sorte, quasi per caso, il dono incommensurabile di accompagnare l'allora sindaco di Firenze, Giorgio la Pira, nella sua missione di pace in un Vietnam dilaniato da anni di guerra. Qual è il compito della politica e della diplomazia?


La domanda rimbalza ciclicamente nelle sedi istituzionali, pertinente come non mai dopo oltre due anni di pandemia che hanno sconquassato la scena internazionale, e molte virali intermittenze della geopolitica. Allo shock pandemico, ancora irrisolto, fa oggi seguito il tempo di un furore bellico che – trascurato dalla diplomazia – covava sotto le braci dal 2014. Irrisolto anch'esso. Una repentina recrudescenza della guerra in Europa, innescata dall'invasione russa dell'Ucraina in violazione della legalità internazionale. Un risveglio dal torpore delle società europee, assuefatte all'idea che la guerra fosse problema di altri.

Gli organismi internazionali, che dovrebbero operare per allentare le tensioni e disinnescare i conflitti con gli strumenti della diplomazia, appaiono impotenti. Sono piuttosto in molti ad affermare l'impossibilità di un negoziato su quest'ultima vicenda bellica, finché resta l'inconciliabilità delle posizioni fra le parti in conflitto. Le eccezioni a questa posizione remissiva si contano sulle dita di una mano. I leader dei governi si recano in ordine sparso sugli scenari della vicenda bellica, in un narcisistico avvicendamento geopolitico che immortala al fianco della parte aggredita e somministra dosi ben calcolate di solidarietà, come se questa fosse la forma della diplomazia. Così la crisi bellica continua a montare. La assenza di una aspirazione della diplomazia consente che il fuoco si avviluppi nel dramma di un incendio di morte e devastazione, paradossalmente alimentato da coloro che dovrebbero fare ogni sforzo, possibile e impossibile, per estinguerlo. Nel loro stesso interesse.

Non riesco a comprendere se questo fermarsi a una presa d'atto diagnostica dello scontro sia una resa di fronte alle logiche sempre più assertive della guerra, ormai interiorizzate, nel solco delle opportunità geopolitiche ed economiche che le guerre sempre assicurano. E del resto mentre le spese militari con cifre da capogiro testimoniano l'impegno concorrenziale tra Stati per prepararsi allo sforzo bellico, la diplomazia sembra essersi inceppata in più parti del mondo, non solo nella tragedia tra Russia e Ucraina. Basti pensare alla polverosa occupazione di Israele in Palestina, abbandonata a sé stessa – dunque all'occupante – o alla tragedia che contrappone un intero popolo alla sua élite militar-imprenditoriale in Birmania. Mi chiedo: può essere invece che questa arrendevolezza della diplomazia, violenta nella sua arida rassegnazione allo status quo e nella sua assenza di creatività, sia figlia della cultura politica del nostro tempo? Una cultura impastata di presentismo, inetta alla costruzione di scenari, reticente a proiezioni sul futuro. Fissa sull'enfasi dell'attualità, la comunità internazionale considera immodificabile la posizione dei due contendenti, rinuncia alla ricerca di un possibile terreno di incontro. Salvo poi riservarsi colpi di scena incomprensibili, come l'espulsione dalle sedi formali della dinamica negoziale uno dei contendenti (come è avvenuto con la estromissione della Russia dal Consiglio d'Europa).

Con quali prospettive, visto che con il nemico occorre poi parlare?

Al termine della Seconda guerra mondiale, Jacques Maritain auspicava la formazione di "una comunità sovra-nazionale fondata non sui trattati, basati sulla autorità degli Stati, ma su una sorta di Costituzione del mondo". La potenza utopica di questa idea è ancora molto lontana dal trovare applicazione nella storia, eppure molti passi avanti sono stati compiuti nel cammino lungo settantacinque anni di Nazioni Unite.

Ma siamo terribilmente in ritardo sulla pace. Anzi, possiamo dire che i crinali di guerra si sono moltiplicati man mano che avanzava la globalizzazione, quella promessa di mercati e diritti umani per tutti che ha inaugurato, invece, il tempo dei monopoli globali, delle disuguaglianze, dell'esautoramento della funzione pubblica. Nel caos del turbocapitalismo globale, i conflitti non germinano a caso. Sono il punto di caduta di interessi strategici giganteschi che si incrociano e si sovrappongono: interessi commerciali, energetici, economici, geopolitici, tecnologici, culturali. C'è poi da dire che la deregolamentazione e la dominante visione d'impresa della globalizzazione – con la cultura di public management che ha pervaso le istituzioni a tutti i livelli – hanno effettivamente irretito la sfera politica modificandola a livello internazionale e ingabbiandola in una logica di competizione e di veti incrociati che neppure la guerra fredda aveva conosciuto. A titolo esemplificativo, ricordiamo l'uso che Donald Trump ha fatto dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) alle prese con la pandemia come terreno di scontro nei confronti della Cina, uscendo dall'agenzia e bloccando con il veto ogni iniziativa dell'Onu che coinvolgesse l'Oms fino alla fine del 2020. Precisamente questa paralisi della cooperazione e della solidarietà internazionale, essenziale in salute, ha scatenato la pandemizzazione di Covid-19, nel gioco incrociato tra sovranismi nazionali nella gestione del virus ("America first") e negazionismi sanitari (in Brasile e in Uganda).

I crinali del conflitto si sono fatti sempre più complessi. E non sempre sono campi di battaglia che grondano sangue e dolore, come li vediamo in Ucraina e negli altri scenari di guerra che dilaniano il mondo. Spesso si consumano nelle sale negoziali, dentro i codici della diplomazia. Ci sono meccanismi legalizzati di ingiustizia – come quello del WTO sui monopoli sulla proprietà intellettuale che regolano l'economia della conoscenza e i meccanismi di appropriazione della scienza – che definiscono un terreno di scontro aperto tra il nord tecnologicamente avanzato e il Sud del mondo che aspira a scalare lo stesso percorso. Come la guerra tradizionale, questo meccanismo miete vittime – oltre 15 milioni di persone hanno perso la vita a causa di Covid-19 secondo una recente stima dell'OMS; 12 milioni le persone sono morte di HIV/AIDS tra gli anni Novanta e Duemila in Africa, malgrado la disponibilità della terapia antiretrovirale, secondo l'attuale direttore del Centre for Disease Control (CDC) Africa, Dr Ahmed Ouma Ogwell.

Su questo fronte, come sugli altri decisivi dossier della dodicesima Conferenza ministeriale del WTO lo scorso giugno, la diplomazia multilaterale esce a pezzi, in un dialogo tra sordi che non è più in grado di intercettare le istanze di cambiamento della società e di escogitare creativamente mediazioni adeguate alle future crisi, che sono interconnesse. Il consenso forzato imposto da un manipolo di Paesi mette in serio pericolo la salute della democrazia intergovernativa e la salute stessa dell'umanità. Sì, perché incentivi alla pesca illegale e blocco della conoscenza medica che servirebbe a produrre rimedi contro Covid sono due facce della stessa medaglia. Le tattiche intimidatorie nei confronti dei Paesi del Sud globale orchestrate dalla leadership africana del WTO, denunciate dai delegati africani alle organizzazioni presenti, non promettono nulla di buono per gli scenari del futuro pandemico. In altri tempi, le delegazioni del Sud del mondo avrebbero abbandonato le stanze del negoziato, come fecero a Seattle, per unirsi alla domanda di diritti della società civile. Non è accaduto questa volta, per molti motivi. In ultima analisi, perché l'aria della globalizzazione oggi è molto più asfittica di quanto non fosse nel 1999, e la diplomazia è molto più retorica e recitativa. Questa superiorità dei pochi vincitori della globalizzazione è violenza. Va fermata. 

 

 


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