Come una provocazione, la storia sta bussando alle porte delle nostre coscienze per chiederci conto della guerra… e della pace. Sta alla porta e bussa. Come il Signore nell'Apocalisse: "Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me".

È un Dio della pace ma che viene strattonato e spinto con forza e, talvolta, fatto cadere. È un Dio che si pensa buono ma per tutte le stagioni, e viene piegato a difesa di un esercito e della violenza sacra di una sulle parti. Ed è lì, sull'uscio. E bussa. Certamente bussa alla porta della politica e dell'economia, dell'informazione e della diplomazia, ma bussa anche alla nostra porta, quella delle donne e degli uomini in cammino verso la nonviolenza, la stessa che i giornali definiscono galassia pacifista.

Quella che confessiamo essersi trasformata troppo spesso in arcipelago senza ponti. E quando la storia ci chiede di aprirgli la porta, sono in tanti a fare la ola, in troppi a creare confusione e tantissimi a incrociare le braccia quasi a dire: «E adesso vediamo cosa rispondete!». E noi a raccontare che è l'Onu riformata e democratizzata l'unica deputata a intervenire nel ruolo della polizia internazionale per contenere la violenza. E qualcuno, intellettualmente onesto, si trova che dica: "Avete ragione" ma poi aggiunge che oggi quell'Onu non c'è e non c'è nemmeno chi si sogni di proporre la fine del tabù del diritto di veto e che la forza di polizia internazionale equipaggiata ed esercitata a un ruolo di intervento rapido di peacekeeping autentico ed efficace, esiste solo nel nostro immaginario perché le grandi potenze non l'hanno mai finanziata e i segretari generali delle Nazioni Unite forse vengono scelti accuratamente tra coloro che mai si permetterebbero di proporre una simile "nefandezza" che rischierebbe di espellere la guerra dalla storia.

E allora noi a raccontare che l'invio delle armi non risolve ma aggrava e che non si spegne un fuoco con la benzina e che armi più armi non danno come somma la pace. E noi a sporgerci timidi dalla porta socchiusa dell'informazione per dire che l'alternativa sta nell'intervento nonviolento e nell'interposizione e che se fossimo in centinaia di migliaia a schierarci a scudo sui confini e a parlare alle persone oltre le divise forse daremmo corso a una nuova civiltà del conflitto e a una sua soluzione nonviolenta. Ma – parliamoci chiaro – oggi quella forza non c'è.

Non c'è perché a questo scopo non viene riservato nemmeno un'infinitesima percentuale della ricerca armiera, strategica e bellica per poter dare corpo ai passi di pace nonviolenta in un contesto di guerra. Non c'è perché non c'è stata finora nessuna volontà politica di fornirla di strumenti. Ma non c'è anche perché il variegato mondo della nonviolenza non ha perseguito con tenacia costante quell'obiettivo. Bisognava dare corpo al sogno di don Tonino Bello che era stato quello di Capitini e di Gandhi e di Cristo e di tanti altri sinceri e autentici nonviolenti che in maniera carsica hanno tentato di dare gambe alla soluzione nonviolenta dei conflitti. Non possiamo disperderci ancora e forse la storia che bussa alla nostra porta chiede che si spalanchino finalmente i portali per dare un corso nuovo, civile, democratico, rispettoso, nonviolento, diffuso e partecipato a un progetto che ponga in contatto tutti i nonviolenti d'Europa e del mondo e trasformare quelle sparute precarietà in formazione efficace, progettualità strategica, capacità di intervento, riconoscimento postcatacombale. La storia che continua a bussare chiede che rispondiamo con un'iniziativa di grande respiro che non ci veda inerti, afoni o incerti di fronte alla guerra. La nonviolenza è la risposta. Bisogna solo organizzarla.

 


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