Quando l'istruzione è merito. I rischi per la scuola pubblica nella postdemocrazia.
Non vorremmo perderci in troppi giri di parole: la meritocrazia e la scuola del merito sono semplicemente costrutti contrari ad ogni prospettiva di organizzazione sociale votata a realizzare una base minima, socialmente e politicamente condivisa, di giustizia sociale.
Essi esprimono in maniera plateale il fondamento aristocratico e oligarchico della nostra liberaldemocrazia, che ha ritenuto necessaria l'aggiunta del sostantivo "merito" per completare la missione di quello che un tempo fu il Ministero della Pubblica Istruzione.
I sostantivi servono a determinare la realtà, per cui è apparso a dir poco curioso che una delle priorità del Governo presieduto da Giorgia Meloni sia stata quella di provare a risolvere i tanti problemi della scuola pubblica, provvedendo, in realtà, a una ristrutturazione puramente di facciata, non già delle tante facciate che cadono a pezzi e impediscono materialmente la fruizione di spazi che dovrebbero essere garantiti per diritto costituzionale.
In verità, non deve sfuggire che questa trasformazione, questa risemantizzazione del reale, è tutt'altro che effimera. Essa è volta quasi a ufficializzare il traghettamento, avviato in modo ufficioso da circa un decennio, di ciò che resta della scuola pubblica verso logiche privatistiche e di mercato, che nulla hanno a che vedere con i paradigmi educativi che dovrebbero guidare le prassi socioculturali e pedagogiche nelle nostre scuole.
Del resto, da una prospettiva politica egualitaria e democratica, dentro la quale vorremmo collocarci, e non per partito preso ma per rispettare fino in fondo il dettato costituzionale che ha pensato a una scuola laica, pluralistica e antifascista, ci sembra altresì evidente che il valore dell'istruzione non abbia bisogno di essere rafforzato attraverso l'affiancamento di un termine dai contorni così fumosi e incerti, com'è quello di merito. Esso rimanda, per la sua valenza espressiva sfacciatamente liberista, a una logica e a una semantica estranee alle forme di collaborazione che si pretende di attivare attraverso quei processi educativi avviati quotidianamente nelle aule scolastiche e pensati, quindi, per persone in crescita.
Al di là delle molte analisi fatte intorno a questo argomento, semplicemente dovremmo chiederci: perché scegliere la parola merito e non, ad esempio, uguaglianza? Di fatto, Ministero di Istruzione e Uguaglianza avrebbe potuto indurre a pensare che l'istruzione sia la base per determinare una società più equa. Oppure, visto che la peculiarità della scuola italiana è il rispetto delle differenze (tutte!) perché il Governo non ha proposto di affiancare a istruzione la parola inclusione, troppo spesso abusata, ma poi disattesa nei fatti? Oppure empatia, per evidenziare l'aspetto emotivo che innesca processi di solidarietà nella scuola? Invece no, Istruzione e Merito.
E, tuttavia, l'avvento della scuola e della società meritocratica non è una contingenza legata alle politiche dell'attuale Governo, ma obbedisce a una logica bipartisan data per scontata da tempo, così come viene dato per scontato il principio di prestazione legato alla continua e martellante necessità del soggetto di ottimizzare il proprio fare, nella speranza di potersi continuamente adeguare a quei target in grado di garantirgli la precaria, provvisoria, effimera, etichetta di meritevole, continuamente da aggiornare.
Un assunto, questo, che non era sfuggito al filosofo Michel Foucault, quando ravvisava nel ripiegamento del soggetto su sé stesso un inizio di cambiamento della gestione del potere, il quale, abbandonando le tecniche di dominio coercitivo da parte degli sistemi repressivi di Stato, elaborava apparati molto più subdoli di controllo delle coscienze attraverso le tecnologie del sé, quelle che costringono il soggetto a diventare "imprenditore di sé stesso" (cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France 1978-1979, Feltrinelli, Milano 2015, p. 186, NdA). E con sorprendente eco, questo assunto di Foucault si sarebbe poi insidiato nel sistema dell'Istruzione, se pensiamo al dettato del Comitato di esperti presieduto da Patrizio Bianchi che, in piena pandemia, riteneva occorresse "riassegnare centralità allo sviluppo delle potenzialità di ciascuno, trasformare ogni persona nel primo ingegnere di sé stessa (a partire dagli insegnanti)" (così scrive il Comitato di esperti istituito con D.M. 21 aprile 2020, n. 203, Scuola ed Emergenza Covid-19, Rapporto finale 13 luglio 2020, NdA).
Il mito della competizione
Il mito dell'uguaglianza (di opportunità, di diritti, di genere, etc.) è sorretto dal riferimento a inderogabili, quanto fragili, diritti naturali. Tuttavia, oggi esso appare sbiadito a mito della debolezza, che soccombe quando si scontra con un'ideologia potente, come quella intessuta attorno al concetto di merito. Nella mentalità comune, pervasa dall'ideologia neoliberista dell'individualismo spinto e dalla competizione sfrenata, si è fatta largo un'idea ormai condivisa: gli individui, a partire dagli insegnanti, non sono tutti uguali.
Persuasi da una propaganda martellante, accettiamo, senza discuterlo, l'assioma secondo cui a chi merita deve essere riservato un trattamento migliore. Poco importa, poi, se questa logica zoppicante, incentrata sull'illusione di essere noi i migliori, ci allontani da più ampie pratiche di politiche sociali incentrate sulla solidarietà e sull'inclusione.
È sotto l'incantesimo dell'ideologia del merito, di questa rinnovata volontà di potenza, che arriviamo, addirittura, a giustificare quanto paventato ultimamente dal Ministero, ossia la possibilità di predisporre trattamenti stipendiali differenziati a livello regionale, collegandoli, perché no?, anche alla disciplina insegnata, per l'ipotetico valore che essa verrebbe ad assumere e indipendentemente dalle modalità con la quale viene, in concreto, insegnata dalle/i docenti. Il tutto, ovviamente, ecco un'altra proposta illuminante, potendo prevedere, a garanzia degli ipotetici aumenti previsti per le/i nuovi meritevoli, degli auspicabili sostegni economici da parte del settore privato e non una politica di investimenti pubblici pensata per il sistema d'istruzione.
La transizione verso forme di postdemocrazia, presiedute da élites politiche completamente prone alle lobby economiche, è quasi completa. Essa avviene, ormai, con la complicità della classe docente, perlopiù colta da spirito di sacrificio e di servizio, completamente incapace di elaborare autonomamente un progetto pedagogico lungimirante. Nelle more di questo assalto della scuola pubblica da parte della liberaldemocrazia affaristica, di destra e di sinistra, ammaliata da quella che possiamo definire la quadruplice radice del principio di ragione capitalistica, che aggredisce settori strategici come quello energetico, digitale, farmacologico e militare, a soccombere sono i vecchi principi di solidarietà e di sussidiarietà, tanto nella società, quanto nella scuola.
E così, nell'attesa che il Ministero dell'Istruzione e Merito stabilisca i parametri attraverso cui gli/le insegnanti potranno esser definiti meritevoli e potranno procedere, a loro volta, ad applicare uguale stigma ai non meritevoli, aderiamo a valori imposti ideologicamente da chi opera con logiche che deviano l'Istruzione verso la Psicoistruzione. Nei fatti, poi, agevoliamo una tendenza oligarchica e aristocratica che è agli antipodi della democrazia: "viviamo in un tempo in cui la democrazia […] è fuori discussione. Pertanto, se l'oligarchia s'instaura nei nostri regimi, deve farlo in forme democratiche; deve in qualche modo mascherarsi; non può presentarsi apertamente come usurpazione del potere" (Canfora, G. Zagrebelsky, La maschera oligarchica della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2014, p. 7, NdA).
La deriva che, purtroppo, questo regime postdemocratico neoliberale sta pericolosamente prendendo rischia non solo di trasformare i servizi pubblici in forniture commerciali per chi può permettersele o per chi se lo merita, ma anche di trascinare in un conflitto disastroso i giovani, quelli che dovremmo educare alla pace, alla collaborazione, alla solidarietà e alla convivenza civile e non alla familiarità con la guerra, con le armi e con la competizione sfrenata sin dai banchi di scuola.
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Per approfondire
Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003