Qualifica Autore: avvocata specializzata in diritti umani e immigrazione

Approdi, asilo. E soprattutto salvezza. Ecco le parole chiave della vicenda Cutro. E di tante altre.

 

Le parole per me sono importanti: come diceva Foucault, le parole fanno le cose. Nei nostri temi ancora di più. E le parole in questi giorni, all'indomani di un'altra strage in mare – non del mare, ma degli uomini – di parole ne abbiamo sentite tante e quasi tutte sbagliate.

Pensiamo alla parola "sbarco".

Nell'isola di Lampedusa mi hanno spiegato che è sbagliato utilizzare la parola sbarco per i profughi. Mi hanno spiegato che sono gli eserciti che sbarcano, mentre le persone approdano. Ed effettivamente il significato ma anche il suono di questi due verbi inducono sentimenti diversi. Se ascolti la parola, il verbo sbarcare, automaticamente ti poni in un atteggiamento di difesa e di paura, la parola approdo, invece, suscita sentimenti e reazioni molto più benevoli. E le persone appunto non sbarcano ma approdano. A volte vive, a volte prive di vita.

Le persone approdano in cerca di asilo.

Noi dovremmo essere l'asilo. Ho scoperto, leggendo un bellissimo libro di Donatella Di Cesare, l'etimologia della parola asilo. Asule': alfa privativo e "sule'', cattura: asilo equivale a "senza cattura". E l'asilo, storicamente già nell'antichità, è quel luogo – poteva essere la sponda di un fiume, una roccia, un albero – dove non si poteva essere catturati. Chiunque, qualunque fosse la sua colpa, o la sua sfortuna, molto più spesso la sua sfortuna, da qualunque male sfuggisse, se raggiungeva quel posto, quella roccia, quell'albero, quella sponda, lì non poteva più essere catturato.

È un po' come la tana di nascondino. Trovo che sia bellissimo che la parola asilo abbia questa radice. E ritengo che sia profondamente ingiusto che, per raggiungere l'asilo, il luogo senza cattura, le persone debbano rischiare di perdere, o effettivamente perdere, la vita in mare e ancora prima di rischiare di essere torturati, di subire e di assistere alle torture sui propri compagni di viaggio, di veder morire i propri figli e di subire altri tipi di "cattura". Per esercitare quello che dal mio punto di vista è il più sacro dei diritti, il diritto all'asilo, il diritto a non subire (più) cattura.

Quel diritto è previsto dall'articolo 10 comma 3 della nostra Costituzione, che è di rara bellezza e che val la pena rileggere.

Sono queste le parole che dovremmo ricordarci e pronunciare. Dovremmo parlare di salvataggio, del dovere di salvataggio imposto dalla Convenzioni internazionali e in particolare dalla Convenzione Onu sul diritto del mare all'art 98. Dovremmo sapere che a quel dovere non possiamo sottrarci. Che quel dovere è sancito dagli uomini, ma ancor prima è imposto dalla legge de mare: in mare ci si salva. Non importa quale sia il motivo per cui si è tra le onde, in mare ci si salva. È sempre stato così. Non possiamo sovvertire le leggi dell'universo, adesso. E non si può certamente parlare di responsabilità riferendosi a chi sale su quelle barche. Mi viene in mente un verso di Erri De Luca, che, riferito ai profughi, dice: "Non hanno un indietro verso cui voltarsi".

Ecco, non c'è un indietro. L'indietro è la cattura. E la barca non è una scelta. È l'unica possibilità per tentare di darsi salvezza e di darla ai propri figli. È l'unica possibilità per smettere di subire violazione di diritti inviolabili e di esercitare le libertà fondamentali. È l'unica possibilità di avere asilo, appunto.

Mi ricordo una vignetta di qualche anno fa. Era rappresentata una persona su una barchetta in mezzo al mare e una voce fuori campo che diceva: "Ma perché prendi la barca se poi forse muori?". L'uomo nella barca rispondeva "Per il forse". E ce n'è un'altra di Mauro Biani, bellissima, che raffigura un uomo e una donna in mezzo al mare, su una barca, lui che chiede a lei: "Ma tu ci credi all'amore?", la risposta è "Per forza!" (cfr. pag. 46, ndr).

Non puoi non credere di essere salvato. Ma non è che ti metti in viaggio perché speri che qualcuno ti salvi. Ti metti in viaggio perché il viaggio è l'unica rischiosissima possibilità di salvezza.

Un mio cliente richiedente asilo, qualche giorno fa, durante l'intervista davanti alla Commissione territoriale che insisteva tanto nel chiedere i rischi che avrebbe corso in caso di rimpatrio nel Paese di origine e le ragioni della sua fuga in Italia, ha riposto: "Chi prende il mare è già morto". Penso a queste parole e penso a chi utilizza a sproposito la parola responsabilità.

È vero, ci sono delle responsabilità, ma non sono di chi sale sulla nave. Sono di chi non offre alternative a quella nave. E di chi non salva i naufraghi anteponendo le ragioni di una pessima politica ai comandi del diritto.

Noi ci siamo abituati al fatto che le persone che scappano da violazioni dei diritti umani per esercitare il più sacro dei diritti, debbano attraversare deserti, esser rinchiusi, torturati, debbano prendere una nave, se la rotta è quella del Mediterraneo, (ma la rotta balcanica non è meno insidiosa). E devono fare tutto questo per esercitare un diritto che in realtà, come ci ricorda la Corte di Cassazione a sezioni unite, nasce non nel momento in cui viene accertato dalla Commissione territoriale per i rifugiati, ma nel momento in cui sorge la vulnerabilità, cioè nel momento in cui si inizia a scappare, al primo passo mosso per scampare agli spari, alle frustate, alle botte, allo stupro, alla scossa di terremoto, all'alluvione. Il primo moto di sopravvivenza sancisce il momento in cui sorge il diritto all'asilo: si è rifugiati in quel momento. Poi purtroppo, a causa delle nostre leggi, per ottenere il riconoscimento di quel diritto sacro occorre attraversare un percorso a ostacoli, un campo minato di violenze, pericoli, mafie e burocrazia. E quando finalmente la Commissione ti riconosce una forma  di protezione, non te la concede, ma appunto si limita a "riconoscere" un diritto che già era tuo, ti apparteneva dal primo passo di fuga. Allora se quel diritto sorge nel momento in cui si manifesta la vulnerabilità, perché per esercitarlo occorre subire tutte queste pene? Perché bisogna rischiare di morire in mare? Di chi è la responsabilità?

Gli afghani – ma anche i pakistani, perché molto spesso questi hanno il diritto a una forma di protezione in Europa – che erano sulla barca naufragata qualche giorno fa sulle spiagge di Cutro, hanno preso il mare non perché sono irresponsabili, ma perché non esiste una via legale di accesso in Europa per motivi di asilo. In realtà questa possibilità sulla carta c'è, ed è l'art 25 del Codice dei Visti Schengen, ma di fatto questo diritto di entrare con un visto per richiesta asilo, un visto umanitario, non viene mai concesso.

Mi incoraggia, però, ricordare un parere che era stato espresso dall'avvocato generale della Corte di Giustizia su una questione sollevata da una famiglia siriana che aveva appunto dovuto attraversare mille peripezie per arrivare, poi, in Belgio e chiedere e ottenere lo status di rifugiato. Questa famiglia aveva chiesto i danni al governo belga perché non aveva dato loro il visto d'ingresso che pure avevano domandato. E in questo parere fornito dall'avvocato generale dell'Alta Corte di Giustizia, Paolo Mengozzi, si leggono parole nitide. In realtà, poi la decisione sarà sfavorevole anche perché in questa procedura si costituiranno tutti gli Stati contro la famiglia siriana perché nessun Governo vuole che si crei questo precedente. Ma nessuno può rimuovere le parole precise e incalzanti pronunciate dall'avvocato generale della Corte di Giustizia: "Non si tratta di una semplice facoltà, ma, in alcuni casi, di un obbligo, perché quando attuano il diritto dell'Unione Europea (per esempio, applicando il Codice dei visti), gli Stati membri sono tenuti a rispettare anche la Carta dei diritti fondamentali. E questa non solo vieta agli Stati membri di infliggere trattamenti inumani o degradanti, ma impone loro di "prendere delle misure ragionevoli" per impedire che delle persone subiscano simili trattamenti... In effetti, per essere perfettamente chiaro, di quali alternative disponevano padre, madre e tre bambini? Restare in Siria? Inconcepibile. Affidarsi a dei trafficanti senza scrupoli rischiando la vita per tentare di approdare in Italia o di raggiungere la Grecia? Intollerabile. Rassegnarsi a diventare dei rifugiati illegali in Libano, senza nessuna prospettiva di ottenere una protezione internazionale, correndo perfino il rischio di essere respinti verso la Siria? Inammissibile".

Lo Stato belga non poteva non saperlo, osserva Mengozzi, ed è quindi consapevolmente che ha esposto la famiglia al rischio di subire dei trattamenti inumani, "privandola di una via legale per esercitare il suo diritto di sollecitare una protezione internazionale" in Europa... "Indignarsi è lodevole e salutare. Nella presente causa, la Corte ha tuttavia l'occasione di spingersi oltre, come la invito a fare, consacrando la via legale di accesso alla protezione internazionale che risulta dall'articolo 25" del Codice dei visti. "Non mi si fraintenda: non è perché lo detta l'emozione, ma perché lo comanda il diritto dell'Unione". Ecco, in questi giorni, a sentire le frasi scomposte di chi ci governa, mi sembra che ci siamo dimenticati i fondamentali, ci siamo dimenticati cosa "comanda il diritto".

All'ingresso del cimitero di Lampedusa è stata trascritta la poesia di Emily Dickinson: "Provare lutto per la morte di chi non abbiamo mai visto / implica una parentela vitale fra l'anima loro / e la nostra Per uno sconosciuto / gli sconosciuti non piangono".

Dobbiamo ritrovare la nostra anima.