Qualifica Autore: giornalista, già deputato della Repubblica

Come uscire dal sistema-guerra? Da un lato il feticcio della competizione, la deterrenza armata, il capitalismo e, dall'altro, la strada dell'economia disarmata.

 

Jeffrey D.Sachs, direttore del Center for Sustainable Development presso la Columbia University, consigliere del Segretario generale dell'Onu Antònio Guterres ha scritto: "Il più grande nemico dello sviluppo economico è la guerra" (Cosa l'Ucraina deve imparare dall'Afghanistan, in Other News 20/02/2023). Domandiamoci: se invece fosse vero il contrario? Se fosse proprio l'economia la causa dei conflitti armati?

Quest'economia di mercato è una macchina necrofila non solo perché distrugge l'ambiente naturale, discrimina e schiavizza il lavoro, provoca disequilibri sociali e migrazioni bibliche, ma perché obbliga gli Stati a "proteggere" le proprie sfere di influenza e le "ragioni di scambio" delle proprie monete sui mercati globali. Il feticcio della competizione per la crescita economica richiede il mantenimento di una situazione permanente di deterrenza armata tra gli Stati. Il pacifismo dovrebbe quindi – a mio avviso – abbandonare il mito liberale di stampo illuminista secondo cui lo spirito del "dolce commercio" (Montesquieu) e il "progresso" delle tecnoscienze sarebbero il migliore antidoto alle guerre.

Infatti, se il desiderio di prosperità dei popoli e di ricchezza delle nazioni è riposto nella capacità dei rispettivi apparati economici (tecnologici, industriali, finanziari) di accaparrare materie prime, conquistare mercati e accumulare profitti, allora è certo che i conflitti commerciali finiranno per generare violenza e conflagrare in scontri armati. C'è un difetto di origine nel sistema economico oggi imperante – chiamiamolo con il suo nome: capitalismo – che lo rende strutturalmente inadatto alla pace. Il motore di questa economia è l'avidità e il risultato non può che essere rivalità, ostilità e antagonismo tra le persone, tra le comunità, tra gli Stati.

Economia di pace

Per "ripudiare" la guerra e togliere il fucile dalla spalla dell'economia è necessario inventare e praticare un'economia di pace, disarmata, "war free". Esiste una branca dell'economia che studia proprio l'economia di pace. Affonda le radici nel liberalismo dell'Illuminismo, da Montesquieu a Voltaire, a Kant, incontra Jeremy Bentham e Herbert Spencer, approda nel premio Nobel Norman Angell per rivivere, dopo la Seconda guerra mondiale, con Keynes, Kenneth Boulding e gli Econimists for Peace and Security. Ultimamente un gruppo di economisti keynesiani di sinistra, tra cui Emiliano Brancaccio, ha prodotto un appello, The Economic Conditions for the Peace (pubblicato dal Financial Times il 17/02/2023), che chiede di "creare le condizioni economiche per la pacificazione mondiale prima che le tensioni militari raggiungano un punto di non ritorno".

Il loro approccio è "pragmatico" poiché ritengono che gli argomenti che si basano sugli interessi concreti siano più convincenti di quelli "ideali", etici e politici.

La pace conviene, evidentemente, anche da un punto di vista strettamente economico. Applicando criteri di valutazione "costi-opportunità" della macroeconomia classica (usando anche i più sofisticati modelli matematici), gli economisti della pace dimostrano che "a conti fatti" il solo mantenimento di uno stato permanente di deterrenza armata anche in "tempo di pace", con il necessario ammodernamento continuo degli apparati militari, sottrae denaro allo sviluppo economico e sociale. A ciò va aggiunta la distruzione netta e diretta di risorse materiali nel corso degli inevitabili conflitti militari (perdita di capitale fisso, umano, sociale, naturale – cfr. Raul Caruso, Economia di pace, il Mulino, 2017). Ma gli economisti della pace non sembrano tener conto che le guerre sono causate anche da ideologie identitarie esclusive ed escludenti, nazionaliste, razziste, religiose… che pongono le proprie visioni deliranti di dominio e di morte al di sopra degli interessi esistenziali delle stesse popolazioni.

Per evitare le guerre bisognerebbe quindi agire anche sull'intelligenza emotiva delle persone, sulla crescita e la condivisione di valori e di principi etici capaci di contrastare qualsiasi forma di violenza, di aggressione e di sopraffazione. Non basta, quindi, dimostrare razionalmente la non convenienza economica della guerra e lo spreco delle spese militari.

Bisogna contrastare l'avidità, l'hybris, l'individualismo egoistico, la violenza ordinaria mimetizzata nei modi di produzione, nella distribuzione iniqua della ricchezza, nelle forme quotidiane di consumo distruttivo delle risorse naturali.

Questa economia mutua dalla guerra la logica di funzionamento e non può che generare una guerra permanente e senza confini. Una "guerra mondiale a pezzi" (Bergoglio). C'è chi ha contato 167 guerre attualmente in corso. 400 dal 1945.

Se alle conseguenze dei conflitti armati tra gli umani aggiungiamo quelle della guerra che l'umanità ha scatenato contro la natura possiamo prevedere che le persone costrette ad abbandonare la propria terra entro il 2050 (profughi e rifugiati) saranno 216 milioni. Altri, tra cui la ricercatrice Gaia Vince (Il secolo nomade, Bollati e Boringhieri, 2023), prevede che entro metà secolo un miliardo di persone saranno in movimento. A quel punto non ci saranno "muri" capaci di contenerli e l'ultima imperatrice romana, Giorgia Meloni, avrà un bel da fare a "proteggere i confini esterni" del suo impero di latta.

Nel quadro di questa decadente economia il "complesso militare-industriale" (che già spaventava un presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower in piena guerra fredda) è parte integrante fondamentale, inseparabile dall'insieme dell'apparato tecnoindustriale. Le spese per la difesa e la sicurezza nazionale sono il principale sostegno della crescita economica. Per varie ragioni.

Innanzitutto, perché proteggono l'espansione della libera iniziativa economica dai nemici dell'integrazione dei mercati a scala mondiale. Detto in altri termini, le corazzate di un tempo e i missili supersonici di oggi svolgono il compito di presidiare gli interessi delle imprese – e delle coalizioni di Stati cui afferiscono – ovunque essi siano messi in pericolo. Inoltre, le spese militari sono utili perché finanziano l'innovazione tecnologica più avanzata, su cui si basa la produttività e i differenziali di competitività dell'industria.

Non dimentichiamo poi la nota funzione economica "anticiclica" della guerra: distruggere per ricostruire. Il "capitalismo dei disastri" (Noemi Klein) è un volano sicuro per innescare nuovi cicli di accumulazione e la risalita del Pil.

 

Politiche

di guerra

A me pare che vi sia un altro elemento che fa delle politiche di guerra un pilastro dell'attuale assetto socioeconomico e che potremmo chiamare warfare state. Le spese statali per la sicurezza interna ed esterna (eserciti, polizie, secondini, guardie giurate, corpi mercenari vari e relativi apparati tecnologici di sorveglianza a distanza) forniscono l'offerta pubblica di lavoro in "ultima istanza" per la tenuta del consenso del sistema economico nel suo complesso.

I Guard Labour (lavoratori con funzioni di controllo e vigilanza armata) negli Stati Uniti costituivano già dieci anni fa (secondo alcuni studi sociologici) un quarto dell'intera forza lavoro occupata, risultando così il comparto economico al primo posto per consistenza occupazionale. Per avere un'idea del suo peso basti ricordare che nel periodo del massimo sforzo bellico durante la Seconda guerra mondiale gli occupati nella sicurezza negli Usa avevano superato di poco il 40% delle forze attive (cfr. Samuel Bowles e Arjun Jayadeu, Guard Labour, Santa Fe Institute, 2005). Il lavoro dedicato alla sicurezza registra i costi economici della sfiducia che intercorre nelle relazioni umane.

Siamo immersi in un'economia di guerra. La nostra è già un'economia che funziona per e con la guerra. I militari hanno vinto la guerra in tempo di pace. Basta dare un'occhiata ai dati SIPRI sull'andamento delle spese militari dirette degli Stati. Dopo un breve periodo di diminuzione dal 1989 al 1998, che ha consentito un discreto risparmio ("dividendo di pace"), dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia e l'avanzata della globalizzazione le spese militari (dal 1992 al 2014) sono tornate a salire a tassi di crescita impressionanti: 650% in Cina, 780% in Algeria, 430% in Qatar, 230% in Arabia Saudita, 200% in Brasile, 190% in India.

Attualmente sono in corso 75 missioni Onu di peacekeeping. La guerra in Ucraina sta spingendo ancora più in alto la richiesta dei militari per ottenere un aumento delle loro dotazioni. Volodymyr Zelensky fa da apripista. Nei Paesi membri della Nato siamo oltre il 2% del Pil necessari per far fronte ai "campi di battaglia del futuro" (lo spazio esterno alla biosfera, il cyberspazio… ) con armi sempre più sofisticate: armi autonome come i killer robot, i droni, le ipersonde, i laser, le armi nucleari mobili mirate e a bassa potenza. Come è già stato fatto notare da altri, l'obiettivo degli strateghi militari non è "vincere le guerre" ovunque esse possano deflagrare (viene spesso ricordato che l'esercito Usa non ha più vinto una guerra sul campo dalla Seconda guerra mondiale), ma di imporre l'ordine più conveniente alla propria parte (regno, stato, impero) anche in tempo di pace; la pace armata.

La guerra, prima di essere distruzione e morte è un sistema socioeconomico che si basa sulla minaccia permanente (si vis pacem para bellum), sulla subordinazione degli Stati e dei popoli nemici, sulla sfida, sulla paura e sul terrore. Le politiche di espansione economica basate sulla guerra comportano però evidenti costi e paurosi rischi. Lo riconoscono gli stessi principali interessati all'espansione economica.

Il World Economic Forum, il think tank di miliardari che si riunisce annualmente a Davos, elabora periodicamente uno studio interessante, il Global Risk Report 2023, in cui raccolgono le opinioni dei CEO (Chief Executive Officer, Amministratore delegato) e degli amministratori delegati dei grandi conglomerati industriali e finanziari. Lor signori si dichiarano molto preoccupati della "frammentazione geopolitica" in corso dopo l'entrata in crisi della globalizzazione e il risorgere di protezionismi nazionalistici. Scrivono: "La guerra economica sta diventando la norma, con scontri crescenti tra le potenze globali e l'intervento degli Stati nei mercati nei prossimi due anni.

Le politiche economiche saranno utilizzate a scopo difensivo, per costruire autosufficienza e sovranità delle potenze rivali, ma saranno anche sempre di più utilizzate in maniera offensiva per limitare l'ascesa di altre". E così prosegue: "La recente impennata delle spese militari e la proliferazione di nuove tecnologie a disposizione di una gamma più ampia di attori porterà a una corsa agli armamenti globale.

Il panorama dei rischi globali a lungo termine potrebbe comportare conflitti multidominio e la guerra asimmetrica con il dispiegamento mirato di armamenti di nuova tecnologia su una scala potenzialmente più distruttiva di quella vista negli ultimi decenni. I meccanismi transnazionali di controllo delle armi devono quindi adattarsi rapidamente a questo nuovo contesto di sicurezza, per rafforzare i costi morali, reputazionali e politici che agiscono da deterrente a un'escalation accidentale o intenzionale". Se è vero che la frammentazione e la rinazionalizzazione delle economie aumenta i rischi di conflitto tra gli Stati impegnati nella tenuta delle loro aree di influenza, è pur vero che nemmeno la globalizzazione neoliberale dei mercati ha dato buona prova di sé nella pacificazione del mondo.

L'idea ottimistica di Keynes di un sistema di governace mondiale imparziale dell'economia che, attraverso gli strumenti finanziari, fosse capace di "compensare" equamente e "livellare" gli squilibri tra le diverse aree geografiche del pianeta è miseramente fallita a causa delle politiche economiche messe in atto proprio da quelle istituzioni transnazionali che avrebbero dovuto prevenire e risolvere le controversie tra gli Stati e le diverse aree del mondo.

Pensiamo alla Banca Mondiale, al Fmi, al Gatt, al Wto e ai risultati delle loro azioni: massima concentrazione e verticalizzazione dei punti di comando attorno a poche compagnie conglomerate industriali e finanziarie transnazionali, da una parte, e disuguaglianze crescenti tra le popolazioni, le classi sociali, gli uomini e le donne, dall'altra.

Concludendo, relazioni pacifiche stabili hanno bisogno di condizioni economiche equilibrate, convenienti per tutti. Fino ad ora, né i modelli di liberalizzazione dei mercati a scala planetaria, né quelli protezionistici messi in forma dagli Stati sono riusciti nell'intento di ridurre i conflitti armati.

Il conflitto di interessi è la caratteristica strutturale dell'economia di mercato capitalista. Essa si basa sulla rivalità tra le imprese per appropriarsi dei mezzi di produzione al più basso prezzo possibile (energia, materie prime, lavoro, tecnologie) e contendersi gli spazi di mercato di sbocco per le proprie produzioni.

La competizione economica performa e condiziona anche i comportamenti umani individuali e interpersonali. Il motore di questa economia è l'avidità (profitto, accumulazione, rendite) e il risultato non può che essere ostilità e antagonismo tra le persone, tra le comunità, tra gli Stati. La radice della guerra – se davvero la si volesse trovare per estirpare – va ricercata nella violenza strutturale su cui si basano i modi di produzione, distribuzione e riproduzione oggi trionfanti ad ogni latitudine. Un sistema mortifero, biocida. Perché genera guerre, colonizza e militarizza le menti, recide ogni relazione con chi è diverso da sé, distrugge la biosfera, riduce gli spazi vitali di ogni specie vivente. 

Per "ripudiare" la guerra è necessario estirpare le sue radici profonde e inventare un'economia di pace. Un'economia disarmata, "war free". Incominciamo a contrapporre al desolante voto del Parlamento che riserva il 2% del Pil agli armamenti (contro il 7% per la sanità – per dire!) l'obiezione fiscale per la conversione delle spese militari (190 miliardi) nella costruzione di Corpi Civili di Pace, già previsti a livello europeo e mai finanziati.

 


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