Il giorno dopo: percorsi di pace e di fraternità per voltare pagina e superare le crisi di oggi.
Il giorno dopo la pandemia. Non senza sorpresa, papa Francesco dedica il Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2023 agli insegnamenti che avremmo dovuto accogliere dalla tragedia del Covid-19 e che fatichiamo a fare nostri.
Non manca, però, sullo sfondo la preoccupazione per la guerra in Ucraina, che ha destabilizzato il suolo europeo e ha generato incertezza negli animi. Abitiamo la stagione della crisi.
Il Covid si è fatto sentire in ambito sanitario. Medici e/o infermieri hanno tremato, la ricerca scientifica si è prodigata ed è arrivato il vaccino. Ci sono ancora strascichi sulla salute delle persone (il numero delle vittime sale!), ma altrettanto gravi appaiono le conseguenze sociali. Sono accresciute le disuguaglianze, con un copione già messo in scena nella storia dell'umanità: i ricchi sono sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri. La soglia della povertà è salita comprendendo sempre più classi sociali. I lavoratori informali hanno patito il lockdown come una tragedia: senza lavoro non c'è stata possibilità di portare a casa il pane. Ne ha sofferto la pace sociale. Chi non ha ravvisato la crescita di tensioni, di malessere, di scontento tra i quartieri più poveri? Molte persone hanno fatto ricorso a psicologi in questi mesi. Se viene meno il lavoro, il conflitto sociale bussa alla porta.
La fraternità
Cosa imparare, dunque, dalla pandemia? Francesco ha ribadito più volte che "dai momenti di crisi non si esce mai uguali: se ne esce migliori o peggiori". E ora che abbiamo toccato con mano la fragilità di molte esistenze, ereditiamo una consegna da non lasciare cadere nel vuoto: "Abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri"! La fraternità è il tesoro più grande: "Nessuno può salvarsi da solo", come recita il titolo. La condivisione è la terapia in un mondo segnato dal virus della disuguaglianza. Chi non ricorda la scena del Papa in piazza san Pietro la sera del 27 marzo 2020? Sotto la pioggia aveva proclamato la profezia più ovvia e dimenticata: "Pensavamo di restare sani in un mondo malato". Sono malate le relazioni tra i popoli (crisi di fraternità con le guerre), è malato l'ambiente che soffre inquinamento, perdita di biodiversità e alterazioni di temperatura (crisi ecologica), è malato il rapporto tra le generazioni (crisi intergenerazionale), sono malate economia e finanza che conoscono la mano visibile dell'esclusione sociale (crisi economica).
Solidarietà
La solidarietà di molti, attraverso piccoli e grandi gesti di dedizione, è stata una scuola di pace che abbiamo frequentato tutti. Il fiume del volontariato, sceso in campo durante la pandemia, ha tracciato corsi di futuro. Abbiamo compreso che il nome antico e sempre nuovo da pronunciare, se si vuole voltare le spalle al Covid, è "insieme". Insieme si soffre, insieme si lotta, insieme si volta pagina. Quando il "noi" prevale sull'"io" la speranza è in azione e lascia dietro di sé frutti di consolazione. Nessuno si sente abbandonato. Non c'è posto per la solitudine. Scrive Francesco: "Solo la pace che nasce dall'amore fraterno e disinteressato può aiutarci a superare le crisi personali, sociali e mondiali".
La logica di pensarsi "prima" di qualcun altro non solo è fuori dal Vangelo, ma è contro l'umano. Il «noi» aperto alla fraternità universale si scontra con la volontà di anteporre interessi personali o nazionali. Prima viene l'umano, soprattutto se debole, fragile, vulnerabile. Il Samaritano insegna.
Dalla pandemia apprendiamo la necessità di una monumentale azione di cura. Si manifesta come compassione per i malati. Come prevenzione per gli anziani. Come salario minimo per chi è senza lavoro. Come accoglienza per chi è costretto a migrare. Come integrazione per chi si sente emarginato, buttato in un angolo come scarto. Come vicinanza a chi sta ancora elaborando il lutto. Come incoraggiamento a chi si sta rialzando. Per ognuno di questi gesti di cura c'è un lavoro educativo a monte. In compenso, a valle si formano coscienze rinnovate. Opportunità da non perdere, anche in ambito pastorale.
La guerra
Il Messaggio, però, ricorda l'altro flagello con cui ci stiamo confrontando da mesi: la guerra. La differenza è che, mentre per il Covid non troviamo colpevoli umani evidenti, una guerra che "miete vittime innocenti e diffonde incertezza, non solo per chi ne viene direttamente colpito, ma in modo molto più diffuso e indiscriminato per tutti" conosce gravi responsabilità umane. Le conseguenze si fanno sentire con le atrocità che la guerra porta con sé. L'impatto è devastante: morti, profughi, orfani, famiglie distrutte, città dilaniate, territori inquinati. Il solco di inimicizia tra i popoli si accresce di giorno in giorno, alimentando una sete di vendetta che non fa presagire nulla di buono. Dove passa la guerra, c'è solo spazio per il gelido volto della sconfitta. Anche per i (presunti) vincitori. Se poi si parla con leggerezza di bombe atomiche, allora la follia ha preso il sopravvento. Non sappiamo più quel che diciamo: basterebbe un poco di memoria per capire che con le armi nucleari tutto è perduto. Umanità compresa.
Avvertiamo pure l'assurdità delle contraddizioni che si stanno consumando. Le navi piene di armi hanno accesso ai porti, quelle che trasportano grano verso l'Africa sono bloccate. La violenza si prende la scena sui media e sui social, i pacifisti sono oscurati. I profughi sono da mesi fuori casa, le fosse comuni sono diventate l'eterno riposo per molti innocenti. I crimini contro l'umanità non conoscono freni, la devastazione delle centrali nucleari lascia al freddo e al gelo la popolazione civile. Cosa serve di più per convincerci che la guerra è disavventura disumana? A quanto degrado dobbiamo ancora assistere?
Francesco suggerisce due atteggiamenti: tenere "i piedi e il cuore ben piantati sulla terra" e restare svegli "come sentinelle capaci di vegliare e di cogliere le prime luci dell'alba, soprattutto nelle ore più buie". Dunque, piedi a terra e cuore vigile. Il filosofo Bruno Latour ha visto nell'"atterrare" il gesto più nobile del nostro tempo. Chi ama la pace ha i piedi per terra, non si rifugia in sofismi astratti fatti di armi sempre più distruttive. Chi ama la pace non cede alla violenza, ma prova in tutti i modi a disegnare sentieri di riconciliazione. La pace inizia con il coraggio del primo passo, con la volontà di perdono, con l'osare ripensamenti, col tornare sulle proprie decisioni. Così si possono abbandonare paura e rassegnazione. Quando l'uomo smette di giocare alla guerra e si prende sul serio, si affacciano i primi bagliori di un nuovo giorno.
Pacem in terris
Sessant'anni fa un vecchio Papa, che aveva conosciuto il dramma della Prima guerra mondiale, esortava il mondo a evitare l'uso delle armi nucleari. Era il 1963 e Giovanni XXIII dava alle stampe la Pacem in terris. Quanta saggezza nelle sue parole, soprattutto quando auspica "che al criterio della pace che si regge sull'equilibrio degli armamenti, si sostituisce il principio che la vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia" (PT 61).
Quarant'anni fa il regista Nicholas Meyer girava il film The day after, immaginando la devastazione del mondo causata da una guerra nucleare. Era il 1983 e la pellicola terminava con alcune scene di speranza. In un mondo distrutto dalla follia atomica, una donna che partorisce ricorda che la vita può sempre ripartire. Siamo fatti per nascere, per dare origine a "nuovi inizi", come suggeriva Hannah Arendt, e non per dare morte! Inoltre, in una città distrutta, il protagonista che vuole rientrare a casa trova un gruppo di sopravvissuti sulle macerie della sua abitazione. Sconfortato, capisce che la logica del reclamare un proprio luogo da possedere è fallimentare e si inginocchia per terra, davanti alle rovine. Il regista regala i due gesti dei sopravvissuti: la condivisione di un pezzo di pane e l'abbraccio fraterno, vera consolazione. Nessuno può salvarsi da solo. Il pane e l'abbraccio dicono che l'ultima parola dell'uomo non è la guerra.
È tempo di semina e di germogli. Ecco perché i profeti sanno scorgere un'alba nuova mentre tutti vedono solo ore buie. Ci sarà "il giorno dopo" solo se avrà il sapore della vita. E pace sia!
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Bruno Bignami è direttore dell'Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Cei. Sacerdote, teologo morale, è stato presidente della Fondazione "Don Primo Mazzolari" dal 2010 al 2020. È postulatore della causa di beatificazione di don Mazzolari. Tra i suoi libri, ricordiamo: a cura di Bruno Bignami e Giorgio Vecchio, Misercordia per Giuda, Edb, 2015; con Gianni Borsa, Parole come pane. Tutto è connesso: ecologia integrale e novità sociali, In Dialogo 2021; con Alessandro Colasanto, Domenico Natale e Rosa Angela Silletti, Percorsi di Fraternità. Un sussidio per educare e animare con la Fratelli Tutti, ed. San Paolo 2022.