Qualifica Autore: Teologo, già direttore di Cem Mondialità docente di Teologia della Missione e del Dialogo, dirige Qol

Il primo pilastro della Pacem in terris è l'amore, inteso come compassione, servizio verso i poveri. E dialogo, naturalmente plurale e polifonico.

 

Nell'enciclica Mater et magistra, considerabile il suo testamento spirituale, Giovanni XXIII descrive l'amore come "l'atteggiamento d'animo che fa sentire come propri i bisogni e le esigenze altrui, rende partecipi gli altri dei propri beni e mira a rendere sempre più vivida la comunione nel mondo dei valori spirituali" (n.18).

Sì, l'amore è una realtà fondamentale per il cristiano, a partire dalla parola biblica: "Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui" (1 Gv 4,16). Per tradurre tale istanza in termini non religiosi, ricorro alle considerazioni del giornalista Luigi Pintor contenute in un romanzo autobiografico: "Più di tutte contano le cose quotidiane che articolano la vita e le danno continuità. (…) Mettere ordine, progettare, distrarre, frequentare persone, luoghi e stagioni, e poi accompagnare e sorreggere quando le forze sono venute meno e il corpo si ripiega su se stesso. Non c'è in un'intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi" (L. Pintor, Servabo, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p.85). Quest'ultima è una delle considerazioni più alte che io conosca in grado di raccontare il valore dell'amore per l'altro, del rendersi prossimo. È il gesto del buon Samaritano protagonista della nota parabola narrata da Gesù (Lc 10,25-37): un non ebreo, anzi un uomo considerato eretico ed estraneo alla comunità dell'elezione, che tuttavia viene presentato nel vangelo in un esempio per tutti.

Ecco la cornice ideale da cui dovrebbe sgorgare l'amore che i cristiani sono chiamati a vivere nel mondo, nella compagnia di ogni uomo e ogni donna, l'unico loro riconoscimento pubblico: "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" (Gv 13,34-35). È sorprendente che, stando ai Vangeli, per essere cristiani non sia sufficiente, né necessario, invocare il Signore Gesù (Mt 7,21; Lc 6,46); e neppure ascoltare la sua parola o mangiare e bere con lui (Lc 13,26); ma occorra vivere l'amore, come Gesù stesso l'ha vissuto fino all'estremo (Gv 13,1), fino al dono della propria vita nel servizio agli altri.

Il teologo Christoph Theobald, in una Lettera sul futuro del cristianesimo scritta durante la pandemia da Covid 19 (C. Theobald, Il popolo ebbe sete, EDB, Bologna 2021), si dice convinto che il domani delle Chiese in Europa dipenderà esclusivamente dalla loro capacità di esercitare il ministero di Gesù in modo tale che il Vangelo possa raggiungere il cuore delle donne e degli uomini di oggi: di riprenderne, quindi, lo sguardo misericordioso nel farsi prossimo soprattutto dei più svantaggiati (che papa Francesco chiama gli scartati dalla società). Ed è sulla carità ospitale e disinteressata che la Chiesa del prossimo futuro sarà misurata nella qualità della sua testimonianza autenticamente evangelica. Sulla linea dell'auspicio di Bergoglio quando sostiene la necessità di un'ecologia integrale in grado di coinvolgere l'intera umanità, "fatta anche di semplici gesti quotidiani nei quali spezziamo la logica della violenza, dello sfruttamento, dell'egoismo" (Laudato Si', 2015, n. 230).

La compassione

In questa chiave si può riprendere la provocazione della teologa tedesca Hille Haker a proposito della compassione come programma mondiale del cristianesimo (Compassione come programma mondiale del cristianesimo?, Concilium 4, 2001, pp.77-97). Una provocazione rivolta non solo al microcosmo delle religioni, ma anche all'umanità intera. L'universalismo della compassione, infatti, si fonda sull'universalità della sofferenza, quella che di regola nessuno ascolta. La compassione significa empatia, ascolto partecipe e dedizione dell'uomo nei confronti dell'altro uomo, indipendentemente dalla provenienza, dall'etnia, dalle idee. Su tale versante, l'ascolto-compassione è l'unica risposta adeguata dei cristiani alla sofferenza degli altri: pietas per il sofferente e partecipazione al suo dolore. La sensibilità per il dolore degli altri segnò, del resto, il nuovo stile di vita di Gesù. Che parlava dell'indivisibile unità dell'amore di Dio e del prossimo (Mc 12,29-31). Ecco la parola chiave per affrontare le tragedie di ogni tempo: compassione come viva percezione del dolore altrui, pensiero attivo della sofferenza degli altri, sforzo di vedersi e valutarsi con gli occhi degli altri sofferenti. Ed ecco la domanda che ne deriva: cosa accadrebbe se i cristiani, nei loro distinti mondi, osassero questo esperimento della compassione, sia pure in forma modesta, purché sempre nuova, e così alla fine si pervenisse a un'ecumene della compassione tra tutti i cristiani? Non sarebbe questa una nuova luce proiettata sulla nostra terra, su questo mondo globalizzato e tuttavia così dolorosamente lacerato?

Diakonia è il termine che nel Nuovo Testamento indica il servizio fraterno e ospitale che i credenti in Cristo praticavano verso i più poveri e bisognosi. È un campo che, oggi, il dialogo tra le comunità di fede non sta ancora arando appieno, eppure il terreno è fertile e, con un po' di lavoro e di fiducia reciproca, è legittimo immaginare di poterne ricavare frutti abbondanti. Qualche seme gettato qui e là ha già dato i primi esiti: penso, ad esempio, all'azione ecumenica a sostegno degli immigrati, a partire dai Corridoi umanitari promossi da S.Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e Tavola Valdese; alle iniziative interreligiose di preghiera in cui ogni anno si ricordano i profughi morti nel Mediterraneo, il 3 ottobre, Giornata della Memoria e dell'Accoglienza; alla disponibilità con cui tante persone di diverse fedi si impegnano in scuole di alfabetizzazione o centri di accoglienza per migranti, e così via.

Tutto questo lavoro saprà ricongiungere virtuosamente le narrazioni polifoniche delle vite ferite e nascoste dei tanti migranti e i racconti sedimentati delle religioni in una nuova percezione, capace di affermare e valorizzare la pluralità dell'umano? Manca ancora, peraltro, a tutt'oggi, un quadro teologico in cui collocare simili esperienze che, se scollegate, sono condannate a smarrire parecchia della loro potenziale efficacia. Non si tratta di rinunciare agli altri segmenti del dialogo, ciascuno dei quali ha un senso e una funzione, dal dialogo della vita a quello della spiritualità: ma, qoheleticamente, ogni cosa ha il suo tempo, e questo è in primo luogo il tempo del servizio ai migranti globali che bussano alle nostre porte. Anche a quelle delle nostre chiese, moschee, sinagoghe, e di ogni altra casa di Dio. Perché tutto si gioca sull'amore. Se avere una ragione per morire, per cui dare la vita, significa avere anche una ragione per vivere e per inondare di senso le nostre esistenze, allora ci possiamo affacciare sulla soglia di una vita che non perde in eterno il suo senso, perché l'unica eternità umana è quella che può essere dischiusa dall'amore. È l'amore, infatti, che per la sua stessa finitezza ci concede di superare persino la nostra morte, facendoci percepire il tutto dell'amore nei frammenti di amore di cui siamo – nonostante tutto – capaci. "Forte come la morte è l'amore", si legge nel Cantico dei cantici (8,6) (mi permetto di rinviare al mio "Dopo. Le religioni e l'aldilà", Laterza, Roma 2020). Come intuì, in una condizione di estrema precarietà, una giovane ebrea olandese, Etty Hillesum, deportata e poi uccisa ad Auschwitz, che nel suo Diario, il 4 luglio 1942, scrisse: "Una cosa, comunque, è sicura: bisogna aiutarla a crescere, la riserva d'amore su questa terra. Ogni scheggia d'odio aggiunta a questi troppi odi rende questo mondo ancora più inospitale e più invivibile. E di amore io ne ho molto, moltissimo, così tanto che già davvero qualcosa ha contato, e non è più così poco."

 

 

 


Mosaico di pace, rivista promossa da Pax Christi Italia e fondata da don Tonino Bello, si mantiene in vita solo grazie agli abbonamenti e alle donazioni.
Se non sei abbonato, ti invitiamo a valutare una delle nostre proposte:
https://www.mosaicodipace.it/index.php/abbonamenti
e, in ogni caso, ogni piccola donazione è un respiro in più per il nostro lavoro:
https://www.mosaicodipace.it/index.php/altri-acquisti-e-donazioni