Sahara occidentale: la nonviolenza nei territori occupati.
Il 20 maggio 1973 il Fronte Polisario (movimento politico attivo nel Sahara Occidentale, per ottenere la realizzazione del diritto all'autodeterminazione, ndr) conduce la prima azione armata contro un posto militare nell'allora Sahara spagnolo.
È l'inizio di quella che in Africa è la più lunga lotta di liberazione nazionale dell'ultima colonia del continente a seguito dell'occupazione – parziale – da parte di un altro Stato africano, il Marocco.
Il Polisario era nato da pochi giorni, il 10 maggio, su iniziativa di un gruppo di nazionalisti sahrawi che avevano preso coscienza dell'impossibilità di ottenere dal regime franchista l'indipendenza. Cinquant'anni fa, del resto, il processo di decolonizzazione in Africa si era quasi concluso, ed erano soprattutto le dittature spagnola e portoghese a resistere al vento del cambiamento.
Lotte ininterrotte
Come ogni anno, il Polisario ha festeggiato anche quest'anno l'anniversario della sua nascita non solo per il mezzo secolo di lotta interrotta, ma per il momento particolare che sta vivendo poiché dal novembre 2020 il Marocco ha violato il cessate il fuoco che durava dal settembre 1991 e il Polisario ha deciso di riprendere la resistenza armata. Una guerra praticamente silenziosa, di cui né il Marocco né nessun altro parla. In un mondo assordato dalle guerre, non solo non si parla della resistenza armata dei sahrawi ma anche la lotta silenziosa e nonviolenta dei sahrawi che vivono nei territori occupati rimane del tutto sconosciuta.
Il paradosso è che la nonviolenza sahrawi è ignorata anche dal movimento pacifista e nonviolento non solo perché la resistenza armata del Polisario fa più rumore quando riesce a bucare il muro dell'indifferenza, ma perché se ne ignora l'origine, le motivazioni e si fa fatica persino a considerarla come tale. È il destino comune a tanti altri movimenti nonviolenti in Africa ed è anche il segnale di una non compiuta coscienza di che cosa sia la nonviolenza. Ancora una volta il Sahara Occidentale fa scuola di questa superficialità: nel database dell'azione nonviolenta dello Swarthmore College (Usa), la "Marcia Verde" – con cui il re del Marocco Hassan II nel novembre 1975 mascherò l'inizio dell'invasione militare del Sahara Occidentale – è posta tra gli esempi di "azione non violenta". È vero, i marciatori marocchini non erano armati e non esercitarono azioni violente contro altre persone poiché quella zona di deserto era disabitata ma, mentre avanzavano di qualche chilometro e l'attenzione era tutta concentrata su di loro, l'esercito marocchino cominciava la conquista militare del Sahara Occidentale. Si può davvero chiamare "nonviolenza" un'azione condotta in un territorio straniero che fa da schermo ed è complice di una occupazione militare e neocoloniale?
Un po' di storia
I sahrawi non hanno aspettato la creazione del Polisario o la "Marcia Verde" per dimostrare la propria volontà nonviolenta di indipendenza e libertà. Dopo aver resistito con le armi alla penetrazione coloniale spagnola e francese nella regione e aver assistito ancora nel 1958 a una violenta azione militare congiunta franco-spagnola, i sahrawi sviluppano una più matura coscienza nazionalista. Nel giugno del 1970 scoppia la prima manifestazione popolare sahrawi nella capitale El Aiun, repressa nel sangue dagli spagnoli e col primo desaparecido, Mohamed Bassiri, il leader nazionalista arrestato e il cui corpo non sarà più trovato.
A partire dalla fine del 1975 inizia l'occupazione militare marocchina mentre l'Esercito di liberazione nazionale sahrawi, creato dal Polisario, resiste con le armi. Gli scontri si svolgono nel deserto, i pochi centri urbani sono via via occupati dal Marocco. La popolazione sahrawi fugge sotto i bombardamenti verso l'Algeria, l'unico Paese della regione che sostiene il diritto all'autodeterminazione del popolo sahrawi, poiché all'inizio anche la Mauritania partecipa all'occupazione. Nelle città occupate la resistenza viene fatta a mani nude. Il regime marocchino usa i metodi più brutali delle dittature latinoamericane. La scomparsa dei militanti sahrawi è il sistema più usato. Tra il 1975 e la fine degli anni Ottanta si stima che oltre 800 uomini e donne sahrawi siano scomparsi. La loro resistenza pacifica e nonviolenta nei centri di detenzione, dove marciscono anche gli oppositori marocchini, rimane praticamente sconosciuta fino a quando all'inizio degli anni Novanta il velo viene squarciato sul "giardino segreto" di Hassan II.
Con l'avvio del piano di pace e l'invio dei Caschi blu a sorvegliare la tregua in vigore dal 1991, circa 300 detenuti considerati scomparsi vengono liberati e con loro la testimonianza dell'eroica lotta per la sopravvivenza. Attorno a queste figure si organizzano i primi gruppi di resistenza attiva, a cominciare dalla difesa per i diritti umani, perché gli arresti e le detenzioni illegali, comunque, continuano. La svolta si ha nel settembre 1999 quando gli studenti sahrawi nelle strade della capitale El Aiun danno inizio a manifestazioni pacifiche e nonviolente di protesta cui si aggiungono disoccupati, donne, lavoratori, e che si propagano in altre città occupate, e perfino in quelle marocchine a cominciare da Agadir nel febbraio 2000. È quella che i sahrawi stessi definiscono "intifada sahrawi".
In questi primi anni di aperta contestazione nonviolenta le parole d'ordine si riferiscono soprattutto alla difesa dei diritti umani. A partire dalla metà del primo decennio, con una seconda intifada dal maggio 2005, è dichiaratamente l'autodeterminazione e l'indipendenza l'obiettivo della resistenza nonviolenta della nuova generazione sahrawi nata sotto l'occupazione. Mentre i media ignorano queste incessanti manifestazioni di protesta, l'avvento dei cellulari e poi dei social dà visibilità alla nonviolenza. I video mostrano gli atti di disobbedienza civile e di affermazione politica: la bandiera sahrawi viene issata sugli edifici scolastici, sui tralicci, sui fili che attraversano le vie e che i goffi interventi delle autorità di occupazione non fanno in tempo ad ammainare. Il nome del Polisario, della RASD (Repubblica araba sahrawi democratica, proclamata nel febbraio 1976), le parole d'ordine di libertà e di indipendenza, quelle di denuncia della repressione vengono scritte sui muri, diffuse con volantini clandestini.
Resistenza
I video raccontano scene di resistenza urbana nonviolenta di fronte agli arresti, alla repressione delle manifestazioni pacifiche nelle strade disperse con estrema violenza. Il corpo, particolarmente delle donne, brutalizzato con sadismo dagli interventi polizieschi ed esposto nelle immagini militanti, diventa il manifesto politico della volontà di liberazione. È un salto anche culturale se si pensa alla simbologia che la cultura arabo-musulmana pone attorno al corpo delle donne, che sono in prima fila e le più numerose nelle dimostrazioni nonviolente.
È di una donna, Aminatu Haidar, a lungo detenuta in segreto negli anni Ottanta, la battaglia di disobbedienza civile più eclatante. Nel novembre 2009, al rientro in patria da un viaggio dagli Stati Uniti, si rifiuta di dichiarare nella scheda di ingresso la propria "marocchinità", e per questo le viene ritirato il passaporto e viene espulsa verso le Canarie. Inizia uno sciopero della fame a oltranza che dopo 32 giorni vince le lusinghe di Madrid, che le ha offerto l'asilo politico, e l'ottusa intransigenza della monarchia, costretta ad arrendersi alla determinazione nonviolenta di quella che è da allora il simbolo della resistenza sahrawi. E sono ancora le donne in primo piano della nonviolenza, come Sultana Khaya, accecata a un occhio, stuprata, arrestata più volte, isolata con la famiglia nella propria casa.
Tra l'ottobre e il novembre 2010 si svolge la più grande manifestazione nonviolenta, alla periferia di El Aiun, il campo della dignità a Gdeim Izik consente a 20.000 sahrawi di discutere liberamente per un mese. Il campo viene smantellato con una fortissima repressione, e una ventina di persone sono arrestate e tuttora in carcere con condanne pesantissime. La protesta di Gdeim Izik di fatto inaugura il movimento che porta alla cosiddetta "primavera araba". La parola d'ordine della "dignità" (Al Karama, in arabo) sarà comune, infatti, a tutte le proteste, da Tunisi al Cairo e oltre.
La dignità dei sahrawi rimane però ancora oggi dimenticata.