A tu per tu con l'induismo: a colloquio con Hamsananda Ghiri. La vita monastica induista.
Hamsananda Ghiri, monaca induista e vicepresidente dell'Unione Induisti italiani, membro del Dim (Dialogo interreligioso monastico) si occupa di dialogo interreligioso ed è impegnata nella divulgazione dell'identità dell'Induismo. In questa intervista ci aiuta a conoscere meglio l'esperienza monastica induista.
In un mondo sempre più globalizzato e multireligioso, l'induismo si afferma come una tradizione religiosa importante. Non sempre però è accolto nella sua originaria natura, spesso è anche frainteso. Quali sono le caratteristiche fondamentali dell'induismo?
L'induismo, religione monnoteista, non è solo poco conosciuto ma anche mal conosciuto. Per capirlo occorre ritornare all'etimologia originaria del termine: sanatana dharma. Sanatana vuol dire eterno, ciò che non muta. Esso, allora, contiene in sé la concezione di un tempo circolare. Dentro questa circolarità del tempo e dell'esistenza vi è un'eternità in cui gli induisti trovano l'Uno, Dio. Vi è anche una manifestazione di Dio che si sorregge sul mutamento. nel quale Dio si manifesta in molte forme.
La parola dharma, invece, indica la legge, e quindi tutti i doveri dell'induista, ma anche l'armonia dell'esistenza e di tutto il cosmo. L'esistenza umana però ha dei limiti che l'induista supera tramite l'ascesi e gli strumenti propri dell'induismo per giungere al cosiddetto moksha, stato di liberazione dei limiti dati dal ciclo vita-morte.
Come nasce la vita monastica nell'induismo?
La vita monastica induista – prima ancora della sua forma strutturata e "istituzionale" così come si è codificata dopo l'avvento del Buddhismo in India – nasce dalla sete di Dio.
All'origine dello stesso induismo sono da ricondurre i cosiddetti Ṛṣi, o Rishì. Essi sono dei veggenti, mistici, asceti che nel silenzio della loro meditazione, immersi nella natura hanno percepito e percepiscono il Veda che è la conoscenza di Dio. Una trasmissione avvenuta mediante la consegna ai credenti dei testi sacri propri dell'induismo in cui è contenuta la conoscenza del divino. Prima dell'avvento del buddhismo in India, molte erano le categorie di asceti: coloro che praticavano il silenzio, coloro che digiunavano, coloro che si dedicavano alla ricerca del divino insieme alla moglie.
Dopo l'avvento del buddhismo, invece, ci fu un riformatore, Adì Shankara – conosciuto come il "benedettino dell'India" – che organizzò il sistema monastico induista prendendo una parte degli asceti già esistenti e raggruppandoli in diversi ordini monastici.
La rinuncia è considerata l'ideale del monaco induista. Quando pensiamo ad essa, influenzati forse anche da un errato retaggio culturale, la intendiamo come privazione. In realtà, per l'induismo non va intesa come tale ma come abbandono dei limiti e delle proprie condizioni che tengono il monaco attaccato al mondo. L'idea di rinuncia non potrebbe essere alienante?
La parola saṃnyāsa, come tutte le parole sanscrite, è composta da una radice cioè saṃ – che vuol dire "consacrare, dedicare, unire" – e una desinenza - nyāsa che significa "rinunciare".
Con questo termine, dunque, si vuol indicare il fatto che i monaci induisti si consacrano alla rinuncia, all'abbandono di ogni possesso e attaccamento. Tale liberazione è ottenuta mediante l'esercizio di un completo controllo sulla mente e un abbandono di ogni interesse mondano che sia pensiero, parola, azione. In questo, allora, non c'è privazione ma desiderio di ampliamento del proprio amore. Il saṃnyāsa, che trova il tutto nell'amore di Dio, diventa profezia per questo mondo bulimico e superbo. Vivere in Dio, nel silenzio, nella fermezza e nella pazienza e con coraggio è davvero profetico oggi ed è ciò che ci dà la vera felicità.
Ciò che lei ha appena affermato dà la possibilità di aprire le porte verso un'ulteriore condivisione dell'esperienza monastica induista con le strade del mondo spesso impervie percorse oggi. Secondo lei, quali punti di contatto con l'uomo contemporaneo possono esserci nel cammino spirituale del monaco induista?
Sicuramente la sete di conoscenza che, a più livelli, accomuna tutti gli esseri umani: monaci e laici. La globalizzazione ci ha fatto comprendere che l'umanità si esprime, non solo a livello linguistico ma anche interiore, attraverso diversi linguaggi. Il monachesimo e la spiritualità induista fanno capire (a mio avviso) che, nonostante questa differenza, vi è un'unità di fondo che l'essere umano che cerca, perché ha bisogno di giustizia e pace. In tal senso, ci deve essere un dialogo fecondo tra monaci e laici: questi ultimi possono guardare ai monaci per ricevere luce e incoraggiamento per la loro vita. Quando essi ne hanno bisogno, allora il monaco c'è.
L'induista nel corso del suo vivere attraversa quattro livelli. L'ultimo stadio può essere quello della vita monastica. Quali sono questi quattro livelli e in particolare quello della vita monastica?
Occorre premettere che questi quattro livelli sono propri della società ideale induista del passato. L'attuale società, molto più complessa, in virtù di tutto ciò che la storia ha portato anche in India, non è più così. Resta un ideale di società basato su quattro livelli.
Il primo è il Brahmacharya, lo stadio dello studente.
Il secondo è il Grihastha, lo stadio dell'uomo, del capofamiglia, che vive dedicandosi alla costituzione della famiglia assolvendo a tutti quei doveri che lo riguardano, lavorando e dando il proprio contributo alla società.
Il terzo stadio della vita dell'induista è chiamato Vanaprastha e inizia nel momento in cui la persona abbandona i doveri legati alla cura della famiglia i cui membri, i figli, sono cresciuti e hanno formato una propria famiglia divenendo così autonomi. In questo stadio, in cui inizia a invecchiare e le forze lo abbandonano e si approssima il momento della morte, l'induista può dedicarsi allo studio delle Scritture.
Il quarto stadio della vita dell'induista è denominato saṃnyāsa. In questo stadio, al termine della sua vita, l'induista può abbandonare del tutto il mondo sociale e dedicarsi al suo incontro con Dio, a questa trasformazione.
Com'è entrata in contatto con l'esperienza del Dim? E perché ha scelto la via del dialogo intermonastico?
L'incontro col dialogo intermonastico è stato speciale. Il dialogo interreligioso favorisce la conoscenza reciproca delle differenti religioni e agevola la convivenza pacifica.
Il dialogo interreligioso monastico invece permette non solo di conoscersi ma di ri-conoscersi. Ci siamo sin da subito riconosciuti monaci. Uomini e donne, cioè, che hanno risposto a una chiamata divina a vivere una vita incentrata nella ricerca di Dio. La ricerca di Lui alimentata nella vita monastica, ognuno secondo la sua via religiosa, è stato e tuttora continua ad essere il minimo comun denominatore che lega tutti noi membri del Dim. Non ci ha legato una simpatia comune o la condivisione di interessi umani comuni, bensì ciò che è più intimo di quanto noi lo siamo a noi stessi: la sete di Dio.
Non ci sarebbe il tempo per trattare ampiamente il tema della pace ma non possiamo esimerci dal fare un riferimento a quanto sta accadendo oggi in Europa e sempre accade nel mondo. L'esperienza monastica induista quale messaggio può dare come monito, servizio e impegno per la pace?
Tutti i nostri tempi di preghiera sono introdotti con un'invocazione di pace sanscrita: "shanti, shanti, shanti". Invocazione di pace su di noi che si riverbera su tutto il mondo e il cosmo intero. Per quanto riguarda, allora, lo sforzo per la pace a livello globale, occorre prima impegnarsi per custodire la pace partendo da noi stessi mediante la preghiera, i nostri gesti, la nostra mente che produce onde di pace che nutrono la pace universale. Credo che la nonviolenza, come ci ha indicato il Mahatma Gandhi, e la preghiera siano vere armi e forze che agiscono a livello spirituale sul mondo materiale. Noi monaci siamo chiamati a nutrire il mondo in questo modo e a coltivare semi di pace con i nostri pensieri, le nostre parole e le nostre azioni. Come un sasso gettato nello stagno produce onde, così il nostro semplice impegno può generare nuovi processi di pace.