Qualifica Autore: collaboratrice di Nigrizia

La società civile sudanese resiste. Esiste. Parliamone e raccontiamo il loro sogno e la loro lotta per la democrazia e i diritti.

 

Dal dicembre 2018 la società civile sudanese ha giocato un ruolo da protagonista nel difficile e tormentato processo di trasformazione democratica del Paese. Ora, nel caos di uno scontro insensato tra due signori della guerra che si contendono il potere, cerca di contrastare una catastrofe umanitaria imminente e continua a rivendicare un posto centrale nel determinare il futuro del Paese.   

Il movimento popolare che ha portato alla caduta del regime islamista del presidente Omar al Bashir è stato attivato dalle associazioni professionali (Sudan Professionals Association, Spa), una rete di "sindacati paralleli" – quelli ufficiali non erano altro che il mezzo del regime per controllare il mondo del lavoro. La Spa ha promosso fortemente il metodo della resistenza nonviolenta, che ha caratterizzato tutte le azioni della rivoluzione sudanese. Ha dato un decisivo contributo anche alla nascita delle Forze per la Libertà e il Cambiamento (Forces for Freedom and Change, Ffc), un ampio schieramento di partiti e gruppi di opposizione, tra cui diverse reti della società civile come Mansam, composta da numerosi gruppi di donne e giovani, associazioni come Iniziativa contro l'oppressione delle donne (No to Oppression against Women Initiative), e gruppi territoriali di base come i Comitati di resistenza

Rivoluzioni

Le Ffc, dal gennaio del 2019 leader della rivoluzione popolare, sono state fortemente influenzate dalle istanze della società civile. Questo ha facilitato la mobilitazione di milioni di persone, comprese le decine di migliaia che hanno bivaccato per settimane di fronte al quartier generale dell'esercito nel centro di Khartoum nella primavera del 2019, a difesa di un cambiamento democratico bloccato sul nascere da un colpo di stato militare. Tra loro, moltissime donne e ragazzi provenienti da ogni angolo del Paese che hanno raggiunto la piazza con ogni mezzo, anche a bordo di un treno stracarico di gente festante; immagine iconica della rivoluzione popolare sudanese, insieme a quelle delle donne che arringano la folla. Sono stati giorni epici che rimarranno per sempre nella storia del Sudan.

Il presidio pacifico è stato spazzato via dal massacro del 3 giugno 2019, concordemente attribuito alle Forze di intervento Rapido, con ogni probabilità in accordo con l'esercito.

Solo in agosto il processo di trasformazione democratica è ripreso, grazie a un patto negoziato dalle Ffc con la giunta militare. Tra i 5 componenti civili del Consiglio Sovrano, massima istituzione del periodo di transizione, anche un rappresentante della Spa.

Dopo il colpo di stato militare del 25 ottobre 2021, i comitati di resistenza, che erano stati piuttosto critici nei confronti del processo politico a loro parere non sufficientemente partecipato e non particolarmente efficace, sono stati protagonisti nell'organizzare in modo continuativo manifestazioni e mobilitazioni per il ritorno a un governo civile. La pressione popolare, mai scemata nonostante la repressione delle forze di sicurezza che ha lasciato numerose vittime sul terreno, ha impedito alla giunta militare di trovare una parvenza di legittimazione, costringendola a riprendere le trattative con le forze politiche civili per trovare una via d'uscita all'empasse.

Mutuo aiuto

Ora, nel caos provocato dai combattimenti che ormai devastano diverse regioni sudanesi – e in particolare la capitale, Khartoum, il Darfur e il Kordofan – i comitati di resistenza hanno assunto il ruolo di gruppi di mutuo aiuto. Hanno, cioè, trovato il modo di fornire alla popolazione intrappolata informazioni vitali e servizi che l'amministrazione pubblica non riesce più a erogare. I comitati di resistenza e le organizzazioni locali sono ormai quasi gli unici partner della comunità internazionale in grado di far arrivare aiuti alla popolazione nelle zone in cui il conflitto è più acceso.

Ci sono anche esempi di comitati popolari – formati da leader religiosi, attivisti della società civile e funzionari dell'amministrazione – che, nelle prime settimane della crisi, sono riusciti a trattare tregue locali tra le due parti combattenti. È il caso, ad esempio, di El Fashir, capitale del Darfur settentrionale, e di altre località della regione. Le tregue sono, poi, state spazzate via dall'aggravarsi del conflitto.

La società civile continua ad essere attiva anche nell'azione politica. Immediatamente dopo lo scoppio della crisi, è partita una Campagna in cui si chiede alla popolazione di proclamare il proprio no alla guerra, in cui la gente chiarisce il rifiuto di schierarsi. È una Campagna efficace, ben presto diventata obiettivo di minacce e di tentativi di delegittimazione condotti a colpi di fake news.

Numerose le analisi e le informazioni di prima mano diffuse da reti e attivisti sudanesi. Numerosi anche gli appelli di intellettuali, organizzazioni e associazioni locali, sostenute da reti regionali e internazionali. Vi si legge in modo chiaro che in questo momento è necessario un forte intervento della comunità internazionale per fermare i combattimenti, ma che il percorso per uscire dalla crisi deve rimanere saldamente in mani sudanesi.

In Sudan il conflitto tra l'esercito nazionale (Saf) e i miliziani delle Forze di intervento rapido (Rsf), ha portato il Paese sull'orlo della catastrofe. Lo aveva paventato il segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, fin dai primi giorni degli scontri, iniziati lo scorso 15 aprile. Lo ha ribadito nei giorni scorsi Michael Griffiths, sottosegretario dell'Onu, coordinatore per gli affari umanitari: il Paese "è pericolosamente vicino ad essere distrutto" dalla fame, dalle malattie e dalla fuga di milioni di persone provocate dai combattimenti.

In fuga

Secondo dati pubblicati dalle agenzie dell'Onu e da autorevoli organizzazioni internazionali, alla fine di agosto erano 4.8 milioni i profughi, 2 milioni dei quali bambini. 3,8 milioni, il 72,3% provenienti dalla capitale, Khartoum, erano sfollati in altre parti del Paese. 1 milione circa avevano passato i confini, andando ad aggravare situazioni già critiche in Regioni instabili quali l'Etiopia, la Repubblica Centrafricana e soprattutto il Chad, che ha ricevuto in poche settimane centinaia di migliaia di profughi dal Darfur, e il Sud Sudan che ha visto ritornare decine di migliaia di sudsudanesi residenti nei campi profughi o nelle città del Sudan. I civili morti per cause inerenti il conflitto sarebbero almeno 6.200, molti dei quali vittime dei combattimenti. Le stesse autorità competenti ammettono che la cifra è sottostimata perché non registra i molti morti seppelliti senza funerale, nelle strade, nelle fosse comuni e nei cortili delle città più devastate dal conflitto – Khartoum e i centri principali del Darfur e del Kordofan – dove è spesso pericoloso muoversi anche per recuperare i cadaveri. I feriti, diverse migliaia, cosí come i malati, molti per malattie infettive dovute alle precarie condizioni igieniche e sanitarie, ormai da molte settimane non possono ricevere le cure necessarie dal momento che le due parti combattenti hanno devastato gli ospedali, attaccato il personale medico e paramedico e razziato le farmacie.

Razziati sistematicamente anche i magazzini e i depositi di carburante e di cibo. Nelle zone dove il conflitto è più acuto, come Khartoum e il Darfur, le scorte non possono venire reintegrate perché gli accordi su corridoi umanitari per soccorrere la popolazione sono ancor oggi inesistenti o troppo fragili e incerti. In una tale situazione, più di 20 milioni di persone avrebbero urgente bisogno di cibo; quasi 3 milioni, a Khartoum e in Darfur, sono sull'orlo della fame; i morti per fame si contano ormai a centinaia, soprattutto fra i bambini.

I due "signori della guerra", generale Abdel Fattah al-Burhan, comandante in capo dell'esercito, e Mohamed Hamdan Dagalo, conosciuto come Hemetti, comandante in capo delle Rsf, fino al giorno prima dello scontro erano rispettivamente presidente e vicepresidente del Consiglio sovrano di transizione. Si contendono ora potere e risorse economiche a costo dell'implosione del Paese che stanno trascinando verso una guerra tra etnie già chiaramente delineata in Darfur, dove i gruppi arabizzati stanno attaccando quelli africani, e che sta velocemente strutturandosi anche in altre Regioni.

 

 

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I crimini commessi da entrambe le parti combattenti contro la popolazione sudanese, e in particolare contro le donne, gli attivisti, i giornalisti, i leader comunitari sono innumerevoli e di estrema gravità. A settembre, 55 organizzazioni si sono appellate al Consiglio per i diritti umani dell'Onu (Unhrc), perché approvi uno strumento che accerti le responsabilità in vista di future azioni legali. Tra i firmatari Pax Christi, Amnesty International, Human Rights Watch, il New Sudan Council of Churches e Sudo Uk, a lungo partner della Campagna italiana per il Sudan. Il testo dell'appello è pubblicato nel sito di Mosaico di pace, in Mosaiconline.

 

 

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La Campagna italiana per la pace e il rispetto dei diritti umani in Sudan

Carla Bellani (Già Coordinatrice Campagna per la pace e i diritti umani in Sudan)

Pax Christi Italia è stata capofila della "Campagna per la pace e i diritti umani in Sudan" dal 1995 fino al 2011, anno dell'indipendenza del Sud Sudan dal Nord del Paese, lavorando in rete con Caritas, Acli, Mani Tese, Missionari Comboniani, Amani, Iscos Emilia-Romagna, Nexus.

Il Sudan veniva da più di 50 anni di guerra civile tra il Nord e il Sud, che aveva causato milioni di morti e di sfollati, indicibili violazioni dei diritti umani e devastazioni ambientali.

Per far conoscere questa tragica situazione, la Campagna ha fatto una costante informazione sui media. Ha poi esercitato pressione politica sulle istituzioni italiane ed europee perché ponessero la questione Sudan in cima alla loro agenda.

Nel 1999, per porre fine al genocidio in atto nei Monti Nuba, ha promosso l'apertura di un corridoio umanitario che ha fermato i massacri, ha consentito di far arrivare gli aiuti umanitari rompendo così l'isolamento della popolazione.

La Campagna ha pure affiancato la società civile sudanese che lavorava per la pace incontrando ripetutamente leader politici, civili e religiosi del Nord come del Sud; ha tenuto i rapporti con le popolazioni locali grazie al lavoro dei missionari e degli operatori umanitari.

Per facilitare l'incontro e il dialogo tra i vari leader di società civile che cercavano una via per uscire dalla guerra, ha organizzato forum e convegni internazionali di analisi e confronto tra i vari soggetti, nella prospettiva di intavolare trattative di pace.

In ordine temporale, gli eventi più significativi.

  • Nel 1999, a Milano, il forum "Prospettive di pace per il Sudan" consente un qualificato confronto tra esponenti della vita economica, sociale, politica e religiosa sul futuro del loro Paese.
  • Nel 2001, a Cremona, il seminario "Acqua, petrolio, guerra e diritti umani" affronta le questioni economiche che alimentano il conflitto tra il Nord e il Sud.
  • Nel 2005, dopo la firma della pace a Nairobi, il forum "Quale pace per il Sudan?" convoca a Milano i rappresentanti civili, politici e religiosi del Sudan, la comunità internazionale e gli organismi umanitari. Il forum saluta la pace come una positiva opportunità, ma ribadisce che, senza la soluzione dei grossi problemi presenti nel Paese, non ci può essere una pace duratura.
  • Nel 2006, con la pubblicazione "Scommessa Sudan" si monitorano i primi 12 mesi dall'accordo di pace. Per implementare la pace dal basso, come richiesto dai partner sudanesi, la Campagna e la Provincia di Milano avviano un progetto di Capacity /Peace Building (a Khartoum, nel Darfur, nel Sud Kordofan e nell'Est del Paese) coinvolgendo tante realtà di società civile.
  • Fino al 2011, la Campagna dà continuità a questi progetti, tiene viva l'attenzione della diplomazia internazionale sulla situazione del Paese che, dopo mezzo secolo di guerra, si trova ad affrontare la sfida della pace in un'area complessa e critica come il Corno d'Africa.

 

 

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Piccolo glossario

Sudan Professionals Association, Spa

Forze per la Libertà e il Cambiamento (Forces for Freedom and Change), Ffc

 

 


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