Qualifica Autore: già delegata per l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR)

Pianeta migranti: quando il pellegrinaggio diventa una necessità.

 

Le migrazioni umane sono un fenomeno antico, tanto che possiamo affermare che la mobilità è parte dell'umano stesso.  Anche la Bibbia racchiude in sé storie di migrazioni. Libri come la Genesi o l'Esodo raccontano movimenti di gruppi e di popolazioni. Abramo verso la terra di Canaan, Giacobbe e i suoi figli verso l'Egitto, Mosè verso la terra promessa. "Amerai lo straniero come te stesso […]. Io sono il Signore Dio tuo". Il testo del Levitico (Lv. 19,34) afferma con chiarezza: "Ama l'altro, perché questo altro è te stesso!".

Mi torna in mente il pensiero di Erich Fromm: una volta riscoperto lo straniero in me, non posso odiare lo straniero fuori di me, perché ha cessato per me di esserlo. Aprendo l'orizzonte su altre culture, in particolare quella africana della zona sub-sahariana, mi sono imbattuta nell'Ubuntu, una parola bantu che indica un'etica, un modo di vivere basato nel riconoscersi nell'altro: «Io sono perché noi siamo». Io sono perché tu sei è l'espressione di un'etica relazionale che esprime la possibilità di una convivenza capace di accogliere, includere e solidarizzare.

Oltre il dibattito

Lo straniero, l'immigrato, il rifugiato: ogni giorno ne parliamo e sentiamo parlare della sua presenza. Troppo spesso se ne parla in maniera semplicistica, ideologica e a colpi di slogan.

È il dibattito che riempie i salotti dei talk show e la carta stampata. Tutti sono esperti ma pochi hanno la volontà di comprendere cosa succeda realmente al di fuori del loro piccolissimo orto.

Abitiamo un tempo di grandi trasformazioni sociali, politiche e culturali che ci chiede capacità di confronto e di collaborazione con tutti. Papa Francesco afferma che stiamo attraversando un cambiamento d'epoca. Passiamo da una guerra all'altra con una spaventosa facilità e indifferenza. Un conflitto inizia e non sappiamo quando finirà. Le lancette dei diritti umani girano al contrario, la disumanizzazione e l'impunità della follia della violenza sembrano prevalere sul progresso e sulla custodia della dignità umana.

Sembra che nel mondo si sia creato uno spazio eticamente vuoto, che genera prepotenza e svilisce l'umano. La fuga, lo sradicamento, la precarietà economica sembrano divenuti spazi normali per gran parte dell'umanità.

Ho vissuto per trent'anni in questi spazi di sradicamento, tra i conflitti più significativi di questo secolo, dalla caduta del muro di Berlino nell'89 alla caduta delle Torri Gemelle nel 2001, alla lotta al terrorismo in Afghanistan, Corno d'Africa e Sahel centrale. In questi luoghi ho incrociato volti e pronunciato nomi di tante vittime innocenti della brutalità e dell'infantilismo spietato di chi si crede grande e onnipotente. In questi luoghi, ho compreso che l'inumano è una possibilità costante dell'umano stesso. Ho incontrato persone che mi hanno raccontato i loro viaggi, il loro sopravvivere nei gironi danteschi alla ricerca di una vita qualsiasi, purché diversa da quella segnata dalla violenza, dalla persecuzione e spesso dalla morte.

Amina

La storia di Amina rappresenta bene la mia esperienza con il dolore traumatico dello sfruttamento e della tortura. Amina rappresenterà per sempre il pellegrinaggio verso la salvezza e sarà sempre, per me che l'ho conosciuta, la voce di tante, troppe donne che gridano il dolore disumano tra sfruttamento, violenza fisica e psicologica. Trauma che resta la ferita nascosta di tanti migranti e rifugiati e di cui si parla ancora troppo poco. Amina viene da un Paese subsahariano, in guerra ancora oggi. Fugge insieme a un'amica, Sauda. Hanno entrambe 16 anni, fuggono per raggiungere la salvezza e una vita di pace, di diritti e di rinascita. Ma appena entrate in Sudan, vengono catturate e portate in prigione. Finiscono in un luogo che lei chiama la «Grande Stanza». Un girone dantesco in cui le persone subiscono supplizi senza fine. Sono richiedenti asilo, profughi, migranti. Sono tutti deboli e hanno la fragilità come loro unico viatico.

Amina vede come si preparano i ferri roventi che verranno poi appoggiati sulla pelle, vede la plastica che viene fatta sciogliere sulle braccia, sulle mani e sulle gambe. Sul viso. Sente le urla di queste persone che vengono tenute senza cibo e senza acqua. Assiste a mutilazioni, umiliazioni, violenze fisiche e psicologiche. Quando si reputa che lo spettacolo offerto a lei e a Sauda le abbia impressionate abbastanza e soprattutto abbia fatto capire loro cosa potrebbe accadere se si ribellassero, vengono condotte in un altro ambiente: la «Piccola Stanza». È qui che Amina e Sauda vengono abusate, umiliate, depersonalizzate. Smarriscono la percezione del tempo. Non sanno più se sia giorno o notte e quale giorno sia: da quanto tempo sono scappate da casa? Da quanto sono state fatte prigioniere?

Sauda sta male, il suo corpo non regge più il dolore fisico e le torture. Sauda finisce per morire tra le braccia di Amina, che la implora di resistere, di tenere duro, di non lasciarla sola in quel posto terribile. Inutilmente Amina cerca di scaldare il corpo freddo di Sauda con il suo. Perché da quel freddo non si ritorna. Questa volta Amina è sola e non può parlare con nessuno, non può piangere, urlare, condividere quello che le sta accadendo. Amina ha paura ad addormentarsi perché non vuole sognare. E soprattutto non può raccontare a nessuno i suoi sogni. Riesce a scappare e a raggiungere un ospedale. 

Custodi

Amina si rende conto che il suo corpo sta cambiando, percepisce, capisce e decide che non mangerà mai più per lasciarsi morire insieme al nascituro che già lotta per la sua sopravvivenza. Ci racconta che, nella disperazione, aveva giurato a sé stessa che, dopo la nascita del piccolo, si sarebbe uccisa. Amina sentiva su di sé tutta la malvagità che una persona può perpetrare. Ma la vita è più forte e Amina è stata salvata insieme al suo piccolo.

La tortura è ormai diventato un business per fare pressione sulle famiglie e costringerle a inviare soldi per il riscatto dei loro cari. Se anche raccontassimo non saremmo creduti, scriveva Primo Levi nel suo I sommersi e i salvati. Quante volte, nel silenzio del mio smarrimento davanti al dolore di queste persone abusate come Amina, ho pensato che le lancette dei diritti umani sembrino girare in senso antiorario, annullando il tempo della saggezza, del rispetto, della ragione. Davanti a queste sofferenze, la Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite sembra aver perso la sua voce. Non resta che il nostro agire di cura.

Amina era arrivata ad Agadez in condizioni psicologiche disperate e aveva iniziato un percorso di terapia personalizzato. Oggi, con il suo piccolo, vive in un Paese europeo e il suo soffio di vita delicato e determinato continua a esistere e a sperare. Il valore dell'accoglienza, avere un posto dove andare per non sentirsi più persone fuori luogo è il minimo per vivere. Il poter stare in pace è la condizione qualitativa essenziale dell'esistenza. Il mondo oggi non assomiglia più alla Casa comune dove il valore della solidarietà e dell'accoglienza rappresentano i valori di risoluzione delle crisi umane come la fuga. Essere accolti equivale a poter vivere. L'etica non sembra più essere la nostra dimora. L'accoglienza come sentimento della solidarietà viene criminalizzata e vista come un privarsi di qualcosa. Un atteggiamento che ci fa ripetere ogni giorno la cinica risposta di Caino: Sono forse io il custode di mio fratello? (Gn. 4,9). Questa è la domanda che viene ripetuta ancora oggi per giustificare l'indifferenza verso la necessità di coloro che, a causa di guerre e povertà, sono costretti a elemosinare ospitalità. Aprirsi e generare spazi di incontro diventa un fondamentale movimento verso la rigenerazione della nostra umanità. Quando abbiamo conosciuto l'altro profondamente, da quel momento non possiamo essere più indifferenti. Chi è risoluto non vive l'aggressività con le altre culture e soprattutto non vive la diversità come pericolo. 

 

 

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Non potranno mancare segni di speranza nei riguardi dei migranti, che abbandonano la loro terra alla ricerca di una vita migliore per sé stessi e per le loro famiglie. Le loro attese non siano vanificate da pregiudizi e chiusure; l'accoglienza, che spalanca le braccia ad ognuno secondo la sua dignità, si accompagni con la responsabilità, affinché a nessuno sia negato il diritto di costruire un futuro migliore. Ai tanti esuli, profughi e rifugiati, che le controverse vicende internazionali obbligano a fuggire per evitare guerre, violenze e discriminazioni, siano garantiti la sicurezza e l'accesso al lavoro e all'istruzione, strumenti necessari per il loro inserimento nel nuovo contesto sociale.

Papa Francesco, Spes non confundit, n.13

 

 

 


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