Qualifica Autore: già docente di Teologia fondamentale, Ecclesiologia e Scienza delle religioni all'Istituto Teologico Calabro di Catanzaro

Come superare il clima di rassegnazione in cui vive l'uomo contemporaneo? Verso dove tende la nostra speranza?

  

L'avvio di questa riflessione ci viene dall'incipit di testi di due Papi che ne hanno parlato esplicitamente: la lettera enciclica Spe salvi di Benedetto XVI (2007) e la bolla di indizione del Giubileo dell'Anno 2025 di papa Francesco Spes non confundit, «La speranza non delude», del 4/05/2024. La speranza, attualizzata a partire dalla Lettera di Paolo ai Romani, muove da una visione del mondo e delle cose che è componente essenziale del credo cristiano: confessione di fede che è anche constatazione storica. Riconosce l'azione di Dio in essa, fino a confessare: «Tu ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l'avresti neppure formata […] Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita» (Sap 11,24-26).

Su questa base è l'invito a riacquistare fiducia nell'amore di Dio, che è anche fondamento dell'indulgenza giubilare. Destinata ai defunti, ma anche e soprattutto a noi, è la speranza. È più che mai urgente riscoprirla sia per noi stessi sia per la collettività. Per noi, in un cammino che dischiude nuovi e inediti orizzonti che richiedono un contributo più che attivo. Dobbiamo infatti essere capaci di scorgerli e dirigere le nostre forze nella direzione da essi indicata. Sostituire allo sconforto, con i dubbi che lo alimentano e nonostante le delusioni storiche e politiche (eclissi degli ideali sociali e guerre in atto), la speranza significa ricevere e trasmettere un'energia propulsiva che ci fa guardare e amare il futuro.

Essa agisce tanto più in noi quanto più diventa una molla che spinge la Storia non solo in avanti, cronologicamente, ma in meglio "cairoticamente", da chairòs, tempo di Grazia e pertanto tempo creativo e rigenerativo della propria vita e della vita altrui. È vero, non solo «nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene», ma anche nelle pieghe più recondite della Storia. È sempre presente, anche se talvolta, ferita, irrisa e comunque ignorata da coloro ai quali conviene far credere che l'uomo non può essere migliore di quello che appare: compratore e fruitore per vivere in solitudine la sua marginalità sulla Terra.

Tre grandi teologi, scomparsi in questi ultimi anni, hanno dimostrato che è vero il contrario: solo la riscoperta di una dimensione liberante e propulsiva insita nella Storia potrà fare uscire la speranza  dallo sconforto in cui essa viene ricacciata dai potenti, oggi paghi solo di aumenti del PIL, di "competitività" declamata e di recinzioni malcelatamente xenofobe. Il "teologo della speranza", J. Moltmann, ha additato in questa virtù, che noi chiamiamo teologale, e che i tedeschi chiamano "divina" (göttlich), ciò che contraddistingue i credenti nella risurrezione di Gesù come irruzione irreversibile del regno di Dio nella Storia.

Come capacità di cogliere una tensione migliorativa dell'umanità verso il futuro. In forza di essa guardare in avanti per il meglio non è un semplice atto di volontà, motivato dalla constatazione che non possiamo fare diversamente, per non scivolare nella depressione. È la conseguenza di chi crede non in un Dio come neutrale entità metafisica, ma come padre degli uomini e loro alleato, perché questi abitino con gioia la Terra e possano migliorarla, collaborando con lui perché la sua Regalità, di servizio e di amore, prenda sempre più consistenza reale.

Lo scarto tra presente e futuro è strumento migliorativo del presente. In J. B. Metz si fonda su un concetto di rivelazione non puramente cognitiva di Dio, ma come promessa rivolta a un intero popolo, per riversarsi sulla società di oggi e sulla Storia del futuro. Ne deriva un impegno politico che si arricchisce di due componenti, così espresse in J. Moltmann: la dimensione della promessa e il primato del futuro. La riscoperta del primato della speranza, come era nella chiesa primitiva, può riportare la teologia e la Chiesa a esercitare una funzione di critica della società con un ineludibile e – aggiungiamo – oggi più che mai impellente ruolo di stimolo nella costruzione di una storia rispondente al progetto di Dio e al suo Regno di salvezza.

Facendo sì che la storia della salvezza diventi sempre più salvezza della storia. Se sono in parte venuti meno i compromessi con il potere, lo stretto legame tra la speranza e la trasformazione del mondo è quanto mai da riscoprire. È ciò che Kierkegaard chiamava la "passione del possibile". In forza di essa noi cristiani non reggiamo la coda della Storia, ma portiamo la fiaccola del futuro, assumiamo la dimensione creativa che deve accompagnare quella contemplativa della rivelazione di Dio all'umanità. Alla gratitudine del dono, la speranza ci porta ad affiancare l'operatività del compito che esso ci consegna.

È su questa sponda che l'altro teologo, più recentemente scomparso, G. Gutiérrez, ha indicato la liberazione come realtà avvenuta e sempre da avvenire.

La risurrezione di Gesù, infatti, è fondamento storico reale delle attese di un'intera umanità e continuo avanzamento verso nuove e inaudite speranze: la risurrezione degli uomini e la vittoria della vita sulla morte e sul dolore. Riscatto da ogni forma di oppressione degli uomini e dei popoli, ovunque essi vivano sulla Terra.

Ciò che gli autori citati hanno prodotto non sono interpretazioni teologiche da liquidare come ricostruzioni soggettive e pertanto opinabili. La loro interconnessione è strutturale e tocca il cuore dell'annuncio cristiano come annuncio salvifico, anche se resta da chiarire quale sia oggi la "salvezza" e che cosa essa implichi per quanti cerchino di declinarla nella situazione che stiamo vivendo come Chiesa. Una situazione che, secondo la lettura dell'ultimo Concilio ecumenico (il Vaticano II), ci chiama alla condivisione delle gioie e delle speranze, nonché delle angosce e delle paure, dei nostri contemporanei.

Sul superamento delle paure ci viene ancora in aiuto la citata bolla di papa Francesco, che tra le sue battute iniziali riconosce che oggi noi «incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all'avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità». Anche solo a prendere sul serio la carica esistenziale di tale affermazione, che del resto corrisponde a un'esperienza di constatazione comune, la salvezza appare qui come "felicità". Il senso complessivo di tale termine spesso abusato rimanda in buona sostanza a ciò che va oltre il mero "benessere" materiale o anche semplicemente morale in senso lato.

Ne troviamo un tratteggio a pennellate ben più indicative e antropologicamente significative in un passaggio del testo di papa Francesco che parla dell'annuncio evangelico come incontenibile gioia che chiede di essere condivisa e trasmessa. Perché mai? Perché nel diffuso clima di rassegnazione al limitato e al parziale apre uno squarcio su un abisso, su cui l'uomo contemporaneo sembra abbia gettato un'improvvisata copertura di rami e di foglie, che cede non di rado sotto i suoi piedi. Parliamo del bisogno di una realizzazione umana piena, degna delle aspirazioni incontenibili che trasudano ancora dall'arte, oltre che dalle religioni e, paradossalmente, dalla cupa disperazione di alcuni. 

Sono le aspirazioni recintate, ma che esigono prepotentemente il loro scavalcamento, perché sono più di un gruzzolo ammonticchiato alla meglio. Sono secondo l'Evangelii gaudium: «un tesoro di vita e di amore che non può ingannare, il messaggio che non può manipolare né illudere. È una risposta che scende nel più profondo dell'essere umano e che può sostenerlo ed elevarlo. È la verità che non passa di moda perché è in grado di penetrare là dove nient'altro può arrivare. La nostra tristezza infinita si cura soltanto con un infinito amore» (n. 265).

Verso dove tende oggi la nostra speranza, dove deve condurci? Verso l'individuazione, la cura e il perseguimento di tale «infinito amore». Infinito non solo perché tangenzialmente tocca l'Infinito, ma perché non si accontenta mai dei livelli di umanità già perseguiti, fossero anche dettati dalla solidarietà e dalla ricerca della giustizia. Più che di accontentarsi della dichiarazione di tali irrinunciabili valori evangelici, la speranza ci induce a custodirli, ad alimentarli e a perseguirli sulla scia della pace, come compimento messianico ed era di realizzazione umano-sociale ad ogni livello. È anche su questo versante che ci tocca riscoprire la costruzione della pace, come riconnessione del tessuto della speranza.

Ricucitura di fili interrotti e nuova ed indomita volontà di «dire le cose vere e farle» (Eraclito). Essere insomma costruttori di pace (eirenopoioi) sembra debba coniugarsi oggi come essere costruttori di speranza, una speranza che realizza quella verità che Gesù identificava non solo in una vita riuscita, ma nella sua stessa persona. Uscire dalla penombra dei dubbi senza sbocchi e dalle angosce che chiudono il cuore e ogni orizzonte, per proseguire quella strada che Gesù indica come «fare la verità», perché chi «fa la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3, 20-21). È il percorso di chi cammina al ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione, come compartecipazione al dolore del mondo, ma che nel medesimo tempo è aprirsi ogni giorno al valico della Trascendenza, indicandolo come gioia anche agli altri. Il Giubileo ci offre l'occasione di rianimare tale speranza e di coglierne la portata infinita. 

 

 

 

 

 


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