L'accoglienza è elemento costitutivo dell'essere umano. In dialogo con Guido Dotti.

 

Guido Dotti è un monaco di Bose, delegato diocesano per l'ecumenismo e il dialogo della diocesi di Biella e segretario della relativa Commissione regionale Piemonte-Valle d'Aosta. Lo abbiamo incontrato per parlare di relazioni e di accoglienza. E di strade percorribili in un mondo sempre più chiuso nella difesa di confini e di interessi. 

Perché parlare di accoglienza in questo tempo? Non basterebbero forse le tante parole, i pro e i contro, i se e i ma che le diverse istituzioni, realtà religiose, semplici cittadini esprimono circa l'accoglienza?

Credo sia necessario perché l'accoglienza è una dimensione fondamentale dell'essere umano. Mutano le motivazioni contingenti che spingono le persone a desiderare di essere accolti ma non muta il dato che la nostra stessa avventura umana è iniziata grazie all'accoglienza della vita che ci è stata donata, trasmessa attraverso il sì dei nostri genitori ma anche grazie all'accoglienza di coloro che ci hanno accolti per primi e prima ancora che noi avessimo la capacità di accogliere gli altri.

Oggi tale dimensione presenta degli elementi che sono per certi versi nuovi solo per il fatto che siamo in contatto con un mondo molto più vasto di un tempo. L'accoglienza è comunque sempre stata una caratteristica degli esseri umani soprattutto laddove le condizioni rendono pericoloso e difficile il non essere accolti. In quei casi si è addirittura fatto dell'accoglienza un obbligo morale. Tale dinamica è espressa in tutte le tradizioni religiose e anche in tutte quelle monastiche, compreso il monachesimo cristiano.

L'accoglienza dell'altro/a in una società in cui tutto sembra modernizzarsi e avanzare, pone delle sfide non indifferenti. È sotto gli occhi di tutti il fatto che, da un lato l'accoglienza dei migranti, ma non solo di essi, sia sempre più imperante, dall'altro che la persona che bussa alla nostra vita sembri essere più un ingombro che un fratello o sorella, Quali sfide pone l'accoglienza del prossimo in questa società?

Il primo approccio che abbiamo verso l'altro che ci viene incontro chiedendo aiuto è considerarlo come nemico. L'ospitalità è quella che trasforma l'hostis in hospes, cioè il nemico in ospite. La stessa etimologia della parola hospes indica sia chi accoglie sia chi è accolto proprio perché, quando si accoglie ci si pone nelle condizioni di chi dona ospitalità e al contempo però si riceve un dono. Le sfide che oggi le persone migranti ci suscitano sono certamente impegnative e con un alto costo umano.

Tuttavia, ritengo che queste stesse sfide possano divenire per noi opportunità, se le sappiamo cogliere. In realtà, la nostra identità è costituita proprio dall'incontro con tutti e tutte coloro che incontriamo nella nostra vita. Noi siamo gli incontri che facciamo: non siamo gli stessi di quando siamo venuti al mondo, di quando non eravamo ancora usciti dal nostro paese o quartiere, o di quando non avevamo ancora incontrato amici, amiche e compagni di una vita. Tutto è da ricondurre e da vivere nella logica del dono. Noi invece non percepiamo chi giunge come un dono ma come una minaccia. Questo fa la differenza.

Se è vero per noi che siamo gli incontri che facciamo, è ancora più evidente soprattutto in Gesù di Nazareth, vero uomo e vero Dio. L'inno per il Convegno ecclesiale nazionale di Firenze 2015 era intitolato: "Cristo, maestro di umanità". Questa è un'espressione che sintetizza in qualche modo la sapienza evangelica. Come e cosa possiamo imparare dall'Uomo – Dio – Gesù del suo stile di accoglienza dell'altro?

Credo che possiamo imparare faticosamente a guardare gli altri come li guardava Lui. La sua natura divino umana gli ha dato uno sguardo divino che si poggiava su coloro che incontrava. Lo sforzo dei cristiani è vedere gli altri, oltre che noi stessi, proprio come Dio ci vede. È un mutamento di sguardo quello che ci è chiesto per ottenere anche un cambiamento di comportamento nei confronti degli ospiti, degli stranieri, di coloro che si avvicinano a noi.

A questo proposito sorge spontaneo il ricordo di S. Martino di Tours che, mentre svolgeva il suo turno di ronda di notte, era infatti un militare, incontra una persona. È chiaro che, soprattutto all'epoca, chi si incontrava di notte, non previamente identificato, era semplicemente il nemico, qualcuno di cui sospettare. S. Martino, invece, nel momento in cui gli veniva chiesto di essere vigilante e combattere il nemico, scopre in chi incontra un essere umano nel bisogno e non un nemico.

Successivamente Martino scoprirà che quel bisognoso era Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo. Soltanto un cambiamento di sguardo, dunque, può provocare un cambiamento di comprensione della situazione, dell'altro e un mutamento di comportamento verso il prossimo. 

Lo stile di accoglienza proprio di Gesù di Nazareth deve essere assunto personalmente dai discepoli e dalle discepole delle differenti Chiese cristiane. Penso soprattutto all'accoglienza tipica dell'esperienza monastica. La memoria collettiva, infatti, identifica i monasteri come luoghi votati all'accoglienza. Cosa ha da dire l'esperienza monastica riguardo a questa dimensione? Cos'è allora l'accoglienza in tal senso? Quali chiavi di lettura possiamo trarre da questa plurisecolare esperienza che ancora oggi continua quale particolare forma di sequela del Signore?

La dimensione dell'accoglienza nelle situazioni di difficoltà è da sempre un proprium dell'essere umano: il monachesimo l'ha ereditato da questa sapienza profondamente umana. I monasteri, sia quelli nel deserto ma anche altri, sono sempre stati situati in posizioni in cui per il viandante e il pellegrino era pericoloso non essere accolto. I monasteri diventeranno anche dei porti franchi per coloro sui quali pendevano sentenze di morte o erano minacciati dal nemico.

Il monaco che si esercita a una vita contemplativa non può non accogliere, in quanto, essenza della vita contemplativa è, a mio avviso, assumere lo stesso sguardo di Dio sugli altri, sulla storia, sul mondo.

Tutte le regole monastiche ripetono quasi come un incessante ritornello che nell'ospite si incontra Cristo, che occorre onorare e accogliere Cristo nell'ospite che giunge al monastero, nel povero e nel malato. Il povero, il forestiero, il malato, la persona scartata ma anche il fratello e la sorella della comunità monastica sono il primo luogo dove il Signore si manifesta, senza scartare chi non rientra in queste categorie. Lo stesso papa Francesco, parlando dell'opzione preferenziale per i poveri, non ha chiesto di scartare chi non è povero ma di iniziare proprio da chi si trova in situazioni di bisogno. Si tratta chiaramente di priorità e non di esclusività.

A Bose vivete l'accoglienza della differenza avendola posta al cuore della vostra vocazione ecumenica. Avete avuto esperienze di accoglienza di persone migranti, fragili? Cosa vi ha spinto a praticare questa forma di ospitalità? Questo cosa ha comportato per il vostro personale e comunitario sentire?

Sì, la nostra vita è un dono gratuito che ci è stato fatto dal Signore e noi, con altrettanta gratuità, tentiamo di rendere questo dono anche agli altri. Non vi è nessuna logica di profitto, tutt'al più siamo una presenza marginale anche nella Chiesa.

Al di là degli ospiti che giungono qui a Bose per partecipare alle diverse attività e agli incontri organizzati in comunità, come avviene da sempre, abbiamo avuto alcuni anni fa l'opportunità di accogliere delle persone anziane che hanno espresso il desiderio di vivere gli ultimi tempi della loro esistenza da noi.

Sono state persone che abbiamo accompagnato negli ultimi mesi o anni della loro vita fino alla morte.

Più recentemente, circa sette anni fa, abbiamo dato la disponibilità ad accogliere sei persone immigrate dall'Africa subsahariana che sono rimaste con noi per due anni.

Di questi, alcuni ora hanno trovato collocazione in altri luoghi in Italia o in Europa, riprendendo in mano la loro vita.

Altri due, provenienti dal Senegal e dal Mali, invece, sono rimasti con noi e collaborano nel lavoro agricolo. Abbiamo stipulato con loro un contratto di assunzione dando loro un alloggio in paese. Oltre a lavorare con noi, essi condividono il pranzo in monastero. In virtù di quest'opportunità stanno ora ipotizzando il ricongiungimento familiare.

Per noi è stato normale accoglierli, in un tempo in cui le normative lo permettevano. Attualmente, purtroppo, leggi e normative non soltanto impediscono l'accoglienza ma addirittura forse impediscono di posare lo sguardo su queste persone. Sappiamo, invece, che il primo contatto che abbiamo con l'altro è proprio lo sguardo e non a caso sappiamo pure che nei campi di sterminio nazisti era addirittura proibito ai deportati di guardare le guardie negli occhi.

Se invece guardassimo negli occhi l'altro si attiverebbero energie, creatività che non penseremmo di avere. Sì, guardare l'altro con gli occhi del Signore risveglia in noi una capacità di accoglienza mai sperimentata prima.

 

L'articolo prosegue nel sito di Mosaico di pace, nella rubrica Mosaiconline.

 

 


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