Qualifica Autore: teologo e saggista

Il contributo del teologo Paolo Ricca al cammino delle Chiese.

 

Ammettiamolo: si rischia la retorica nel ricordare Paolo Ricca, pastore valdese scomparso qualche settimana fa. Perché stiamo parlando non solo di un gigante della teologia attuale, ma – come l'ha definito Massimo Cacciari in un messaggio alla Tavola valdese – di "un grande studioso e prima ancora un uomo giusto nel senso più profondo del termine". Uno tzaddik, secondo la tradizione ebraica, la presenza contemporanea di 36 dei quali sostiene il mondo.

Ricca, in effetti, ha incarnato l'immagine del protestantesimo nazionale come nessun altro, è stato il suo volto più noto, apprezzato e autorevole. Figura chiave anche in ambito ecumenico, dopo aver seguito i lavori del Vaticano II come giornalista accreditato, diverrà membro della Commissione Fede e Costituzione del Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC). Per anni insegnerà Storia della Chiesa alla Facoltà valdese: ma accanto all'attività accademica ci sarà quella di conferenziere in Italia e all'estero.

Assai apprezzati i suoi interventi alle sessioni del SAE (Segretariato Attività Ecumeniche) fondato da Maria Vingiani, alle trasmissioni TV di Protestantesimo e a quelle alla radio di Uomini e profeti. Spesso diceva di sentirsi parte di quella Chiesa invisibile di cui era "diventato servitore, per annunciare nella sua totalità la parola di Dio" (Col 1,25). Lamentandosi del fatto che, nonostante le iniziative di dialogo in corso, il condominio cristiano è purtroppo ancora strutturato in appartamenti separati, dove ogni confessione vive per conto suo.

Con una speciale attenzione alla vicenda, irrisolta, dell'intercomunione fra le Chiese. La questione della comune partecipazione di tutti i cristiani all'unica mensa del Signore è infatti da secoli uno dei più gravi nodi ecumenici, la cui soluzione non sembra alle porte. Al riguardo si spingerà a parlare sul settimanale dei protestanti storici, Riforma, di apartheid eucaristico, presentandolo come un drammatico paradosso: proprio la cena che Gesù ha celebrato per unire i discepoli a sé e tra loro, nel dono della sua vita e della sua persona, istituita come il più alto segno e strumento di unità e comunione, è diventata, nelle mani dei cristiani, occasione e ragione di dispute infinite, scomuniche, divisioni.

Da parte sua, sosterrà che la via maestra per l'ecumenismo è quella indicata, negli anni Ottanta, dal suo maestro Oscar Cullmann, l'unità attraverso la diversità (richiamata anche da papa Francesco nell'Evangelii gaudium): "Conformemente alla sua stessa natura, lo Spirito Santo esercita una azione diversificante. E tuttavia questa azione non porta a una frammentazione… È in questa diversità che risiede la profusione della pienezza dello Spirito Santo. Chiunque non rispetta questa ricchezza e vuole l'uniformità, pecca contro lo Spirito Santo. Anche l'uniformità è un peccato contro lo Spirito Santo".

Autore di parecchi libri e testi di studio ma anche divulgativi, Paolo ha contribuito a formare generazioni di credenti e di non credenti. Il suo lavoro, infatti, era apprezzato da molte persone di differenti fedi. Sono tanti i ricordi che mi legano a lui. Mi limito a uno, che ritengo significativo. Qualche anno fa, accettò su mio invito di partecipare, diventandone ospite fisso fino a poche settimane fa, a una coraggiosa iniziativa che da tempo si tiene a luglio a cura della diocesi di Acqui Terme, a Garbaoli, casa estiva dell'Azione Cattolica, una duegiorni ecumenica. Nel 2021 il tema era la sinodalità, in occasione dell'imminente Sinodo della Chiesa Cattolica italiana.

Quella volta riflettè su un argomento non scontato: Che cosa si attendono dal Sinodo le Chiese sorelle che sono in Italia. Evidenziando da subito come fosse la prima volta, per lui (ma non solo per lui), che dalla Chiesa Cattolica giungeva una richiesta del genere; e che una tale richiesta, dopo l'esperienza degli osservatori non cattolici dei cosiddetti fratelli separati al Vaticano II, segnava ai suoi occhi una vera svolta in ambito ecumenico. Fu un intervento per nulla retorico (recuperabile nel sito www.acquiac.org), in cui egli discusse del senso autentico della sinodalità, elemento caratterizzante della tradizione valdese, concentrandosi su due questioni previe a suo dire cruciali: la composizione del Sinodo e i suoi poteri e prerogative.

Ricca ammise apertamente che, tra le sue aspettative, ci fosse quella di essere invitato, ovviamente come Chiesa, e non solo come semplice osservatore senza diritto di parola (come avviene regolarmente, a parti invertite, per l'annuale Sinodo valdometodista). Mai dimenticando che, in realtà, noi cristiani appartenenti a Chiese tra loro divise siamo già "una cosa sola", secondo l'auspicio di Gv 17,20-26, in quello che possiamo chiamare l'essenziale cristiano. Qual è l'essenziale cristiano? A suo dire è la fede nel Dio trinitario e in Gesù vero uomo e vero Dio: ecco la fede comune a tutti i cristiani.

E ciò, proseguiva, dovrebbe essere sufficiente per dichiararci uniti in ciò che è costitutivo del nostro essere cristiani, ciò che veramente conta, vale e qualifica come cristiani… ma le Chiese, spesso, sembrano non crederci: credono più nella loro divisione che nella loro unità! Certo, ci sono differenze, anche vistose, ma sono davvero essenziali, cioè vitali per la fede cristiana? Ad esempio: il papato è essenziale per la fede cristiana? Per i cattolici forse sì, ma non per gli ortodossi né per i protestanti. Come nel secolo apostolico, così nella storia della Chiesa si sono manifestati diversi tipi di cristianesimo: si può essere diversi senza essere divisi. È però indispensabile che ciascuno accetti la diversità dell'altro, altrimenti non si avanza verso l'unità…

È persino banale affermare che Paolo mancherà, e molto, non solo ai suoi fratelli e sorelle della Chiesa valdese, ma a quanti hanno avuto la fortuna di conoscerlo o di ascoltarlo. Eppure il suo lascito resta, e si può pronosticare che durerà a lungo. Ora è il tempo delle lacrime, ma anche quello del ringraziamento a Dio per avercelo donato, questo tzaddik che, alla domanda sui motivi per cui fosse diventato valdese, rispondeva: "Sono nato in una famiglia valdese, anzi, mio padre Alberto era anche lui pastore. Però non basta nascere in un contesto familiare valdese per diventare valdese. Ho impiegato tutta la vita tentando di diventare cristiano perché, diceva Kierkegaard, siamo tutti aspiranti cristiani. Diventare valdese ha un senso come tappa per diventare cristiano. Ma non lo si diventa mai compiutamente. Siamo cristiani in fieri. Bisogna che Cristo venga e, nella sua misericordia, faccia anche di me, col suo perdono, quel cristiano che non riesco a diventare".

 

 

 


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