Il grido di dolore del popolo palestinese  accolto da una delegazione in visita in Palestina.  È semplice: vogliono vivere liberi nella loro terra.

  

"Benvenuti a Taybeh! Ma la nostra Palestina è questa prigione che vedete. In realtà è sempre più difficile vivere per noi sulla nostra terra che da decenni è stata occupata e colonizzata. Infatti, ben prima del 7 ottobre non solo la guerra, ma anche la mancanza di diritti e ogni tipo di oppressione ci tolgono ogni speranza."

Non ci siamo ancora accomodati nel grande salone in stile arabo della parrocchia di Taybeh e il giovane parroco accoglie i tanti pellegrini dall'Italia con un saluto cordiale ma provato. Sono i giorni di fine giugno 2024 e nessun gruppo di stranieri è presente in Palestina, per la guerra che, a pochissimi chilometri da Taybeh, ancora sta uccidendo in un massacro dalle dimensioni mai viste nella storia moderna.

"La nostra 'catastrofia' – prosegue don Bashar intendendo la "catastrofe"/"Nakba" del 1948 – "dura da troppi anni perché per noi palestinesi non c'è una vita quotidiana normale, senza checkpoint, attacchi dei coloni e soprusi. Qui attorno a Taybeh sono ben quattro gli insediamenti da cui i coloni scendono per aggredirci, rovinarci le coltivazioni e le proprietà. I coloni purtroppo sono completamente liberi nell'aggredire le famiglie che raccolgono le olive e ogni settimana si verifica un nuovo attacco, con bastoni, fucili, armi, contro chiunque. Il punto è che fino a quando ci sarà l'occupazione non ci sarà futuro per noi."

La Diocesi di Bologna ha avuto il merito di rompere ogni indugio e partire con 160 persone, dal card. Zuppi a rappresentanti di ogni realtà ecclesiale, per un "pellegrinaggio di comunione e riconciliazione".

Abbiamo incontrato tanti testimoni diretti sia a Gerusalemme che a Betlemme, raccogliendo le loro parole mescolate a tanto dolore, come quelle dell'anziano patriarca emerito di Gerusalemme Michel Sabbah: "Voi siete venuti per esprimere la vostra solidarietà con le persone che vivono in Terrasanta, sia israeliani che palestinesi. Vi chiedete come possono amarsi tutte e come possono vivere insieme invece di ammazzarsi. È importante annunciare che la riconciliazione non è solo una questione complessa, ma anche un problema relativamente semplice: diventa complesso solo perché non c'è la volontà di realizzare una pace giusta. La questione è semplice: vogliamo esistere. Noi palestinesi non veniamo da altrove e di generazione in generazione abitiamo la nostra terra. Sulla nostra terra chiediamo solo di poter vivere liberi in uno Stato indipendente, soltanto sul 22 % di tutta la Palestina. Ma ci viene detto: voi non avete il diritto di esistere. La nostra colpa è di esistere. Ma allora, se le cose stanno così, la pace non è solo difficile, ma impossibile. I capi del mondo sanno bene quale sarebbe la soluzione più giusta, ma non hanno il coraggio di dirlo a Israele. Gli Stati Uniti sono più deboli di Israele e lo è l'Europa. Sarebbe semplice dire a Israele: avete il diritto di esistere ma non potete farlo distruggendo il popolo palestinese".

Le celebrazioni, le riunioni ufficiali, una Via crucis che ci ha fatti stare immobili di fronte a uno dei più grandi insediamenti che ruba la terra di Betlemme: ogni luogo dei Territori Occupati ci ha parlato di un "piano genocidiario" (Francesca Albanese, ONU) che da Gaza sta diffondendosi in tutta la Palestina. Ce lo ha descritto il patriarca Sabbah: "Jenin, Nablus, Tulkarem, Gerusalemme, sono grandi città dove Israele sta arrestando e colpendo attraverso i coloni. In tutta la Palestina, villaggi e città, si teme la violenza dei coloni che, protetti dall'esercito, aggrediscono, demoliscono, ammazzano o fanno prigionieri.

Adesso che siete arrivati fino a Taybeh attraversando la Cisgiordania, avete capito che anche nei Territori Occupati c'è la guerra e quando tornate in Italia ditelo che anche qui l'esercito e i coloni ammazzano e demoliscono. Senz'altro il parroco, che avete appena incontrato, ve l'avrà detto: qui non c'è solo una guerra, ma un massacro fratricida, con violenze che subiamo ogni giorno nelle nostre terre, nelle case, nelle città e nei campi profughi. Dobbiamo riconoscere che tutto il mondo appoggia Israele e questa guerra è mondiale. Gli interessi dei grandi spingono a sostenere Israele, a ripetere che ha il diritto di esistere, ed è giusto. Ma non può certo farlo a spese di un altro popolo. Per salvare lo stesso Israele ci vogliono degli amici di Israele coraggiosi che gli dicano: solo rispettando e riconoscendo al tuo fianco il popolo palestinese, vivrai sicuro, salverai te stesso".

A Gaza

Impressionante l'incontro con i preti della nostra parrocchia di Gaza: "In chiesa sono rifugiate più di cinquecento persone e ovviamente non solo cristiane. Tutti sono depressi, in particolare da quando i cecchini hanno sparato e ucciso due parrocchiane. Ma, oltre al numero enorme dei morti, non si pensa abbastanza a cosa vuol dire vivere con 67.000 feriti e migliaia di dispersi sotto le macerie. Da anni era il più grande carcere a cielo aperto, già prima non bastavano i 500 camion al giorno che Israele faceva entrare. Quando alcuni morti contano e altri non contano nulla è il momento di parlare e non tacere".

Le confessioni di abuna Marcelo ci commuovono dentro, mentre nelle nostre Moleskine di viaggio rivediamo gli appunti di un altro meeting vissuto la sera stessa dell'arrivo a Gerusalemme, con il Direttore delle Nazioni Unite, Ufficio OCHA per le questioni umanitarie, Andrea De Domenico: in alcune zone, anche molto vaste e densamente popolate, dobbiamo riconoscere che Gaza non esiste più.

Noi stessi che ritorniamo in una città e cerchiamo le nostre infrastrutture e i nostri uffici, facciamo fatica a riconoscere i luoghi, le strade, gli edifici. In gran parte essi non sono solo colpiti ma rasi al suolo. (Sono 70.000 gli edifici distrutti dal 7 ottobre, www.ocha.opt).

I nostri mezzi dell'ONU non riescono più a risalire verso il nord della Striscia. Pochi sanno che c'è un checkpoint, se ti avvicini ti sparano. Ogni volta che un convoglio OCHA passa di là è costretto a raccogliere cadaveri. Nelle ultime quattro settimane Jabalja, città di quasi centomila abitanti, nel nord di Gaza, è stata completamente rasa al suolo, con la motivazione che sottoterra si nascondevano militanti della jihad islamica. Ma nel diritto internazionale esiste il concetto di proporzionalità. Vuol dire che, in seguito a un attacco, la risposta dell'aggredito deve essere proporzionale a quell'attacco. E anche prima dell'aspetto legale c'è una questione di semplice umanità. Come si fa radere al suolo un'intera città?".

Tutti i presenti colgono non solo la professionalità di un funzionario delle Nazioni Unite esposto quotidianamente con la sua vita ai peggiori scenari di una carneficina senza rispetto del diritto umanitario, ma soprattutto un uomo dalla coscienza vigile e umanamente profonda: "Da 17 anni a questa parte il popolo palestinese non ha più potuto decidere chi lo governasse. Hamas ne ha approfittato. Eletto nel 2007 ha continuato a governare senza interruzioni. Il 7 ottobre abbiamo assistito a un atto di barbarie indicibile e nello stesso giorno ci è stato ordinato da Israele, come OCHA, di spostarci verso il sud di Gaza, assieme alla popolazione civile.

Le Nazioni Unite hanno quindi dovuto spostare i loro uffici verso sud, perdendo per qualche settimana ogni capacità di operare a servizio della popolazione. Dei 2.200.000 abitanti della Striscia 1.200.000 vivevano al nord. Oggi ne sono rimasti al nord solo 350mila circa. Gli altri si sono spostati verso Khan Younis. Però anche Khan Younis ha subito la sorte di altre città: un'operazione militare che doveva durare un mese si è protratta invece tre mesi e mezzo e alla fine l'ha completamente rasa al suolo. Alcuni edifici rimasti in piedi sono privi di finestre, solai e qualsivoglia agibilità. Molte famiglie si sono dovute spostare anche sette/otto volte.

Per noi è stato impossibile lavorare soccorrendo le vittime. OCHA non è mai riuscita a trovare una soluzione sufficiente per una minima assistenza a sfollati e civili, sempre troppo scarsa rispetto ai bisogni. Poi Israele ha bloccato l'ingresso degli aiuti dall'Egitto cominciando a ventilare un'operazione di terra a Rafah. Per far questo hanno dichiarato unilateralmente "zona sicura e umanitaria" un'area invivibile dove famiglie intere sopravvivevano fra le dune di sabbia. Come Nazioni Unite non eravamo d'accordo a causa della mancanza di acqua, energia, infrastrutture. Negli ultimi mesi avviciniamo solo persone stremate che chiedono il cessate il fuoco. E poi: quanti bambini, oltre ai già 15.000 registrati, dovremo ancora vedere uccisi perché la comunità internazionale agisca?".

Ponti e non muri

Per il team di Pax Christi Italia, presente al Pellegrinaggio con il suo vescovo presidente Giovanni Ricchiuti, non era certamente una novità sentire questa versione coraggiosa e abbracciare palestinesi e israeliani fuori dal coro, anzi, è stata l'occasione per monitorare i prossimi possibili Pellegrinaggi di giustizia che si spera di poter presto organizzare (info su www.bocchescucite.org).

Per la Campagna Ponti e non muri, con la sua referente Rossana Lignano, è stata l'occasione di rilanciare un impegno ormai ventennale, sottoscrivendo i pensieri che, come una consegna e una supplica, ci hanno chiesto tutti: "Ora che siete nei Territori Occupati avete uno sguardo diverso e, vedendo da qui quanto stanno subendo i palestinesi, vi chiederete: ma quando gli verranno riconosciuti i diritti umani?". Così il patriarca Sabbah ci ha detto. "Come si fa a dire a un popolo: tu non sei un popolo, non hai diritto di esistere? E quando il mondo riconoscerà l'esistenza dei palestinesi? Ricordiamoci tutti che ogni persona, ovunque sia, ha il dovere di non tacere".

E anche Andrea De Domenico sottolinea nel dramma di Gaza la nostra responsabilità: "La sofferenza generata dai circa 37.000 morti a Gaza, dei quali il 62% sono donne e bambini, intere famiglie distrutte, non potrà mai venir cancellata. E genererà sempre nuova sofferenza. Sappiamo che migliaia di bambini hanno subito traumi importanti che, se non saranno curati, causeranno danni psichiatrici irreversibili. I bambini che sopravviveranno a Gaza, testimoni nella loro carne di cose orribili viste e subite, saranno la generazione di palestinesi di domani. Io li chiamo Hamas 2.0. E quanto sta accadendo lo pagheremo tutti, noi Stati europei e non solo. Noi che abbiamo permesso che tutto ciò accadesse".

  

 

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Anatomia di un genocidio

Il 26 marzo 2024, la Relatrice Speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, Francesca Albanese, ha presentato, presso il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, il suo Report "Anatomia di un Genocidio". Dopo quasi sei mesi di assalto da parte di Israele a Gaza, da questo studio emerge che ci sono ragionevoli motivi per credere che la soglia per la commissione del crimine di genocidio sia stata raggiunta. Nel sito del Centro per i Diritti Umani Antonio Papisca di Padova è pubblicata la traduzione in italiano della parte introduttiva del Rapporto e l'intero studio in lingua inglese.

Info: https://unipd-centrodirittiumani.it/it/news/Nazioni-Unite-Anatomia-di-un-genocidio-Rapporto-della-Relatrice-Speciale-sulla-situazione-dei-diritti-umani-nei-territori-palestinesi-occupati-dal-1967-Francesca-Albanese-2024/6899

 

 

 


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