Il disegno di legge sicurezza e la deriva autoritaria.
La sicurezza, come sicurezza dei diritti, sociale, sul lavoro, è sostituita dalla sicurezza come ordine pubblico; lo stato sociale diviene stato penale; la valorizzazione della partecipazione e del dissenso come necessario in una democrazia (Bobbio) si muta in repressione e criminalizzazione della critica e dell’agire alternativo.
Al pluralismo, alla discussione, alla mediazione politica si sovrappone la logica dicotomica amico-nemico; l’inclusione e il riconoscimento delle differenze (al netto delle diseguaglianze economiche e sociali) sono surrogate dall’espulsione, sociale e politica; la partecipazione è mistificata da affidamento e delega (il riferimento al disegno di legge costituzionale sul premierato, Atto Senato n. 935, con l’ossimorica democrazia del capo, è voluto).
Il disegno di legge sicurezza in discussione (Atto Camera n. 1660, Atto Senato n. 1236) si inserisce in un processo di deriva autoritaria in corso da anni, accelerandone tratti e intensità, sì da suscitare allarme anche nella comunità internazionale: dall’OSCE al Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, alla posizione di sei special rapporteurs sui diritti umani delle Nazioni unite.
Lo scivolamento verso l’autocrazia è segnato dalla costruzione del nemico, seguendo un trittico – dissenzienti, poveri e migranti – che ritorna nei vari provvedimenti (legge sulla sicurezza n. 94 del 2009, governo Berlusconi; pacchetto “Minniti”, 2017; decreti Salvini, 2018-2019; decreto rave, decreto Cutro, decreti Caivano e Caivano bis, legge n. 6 del 2024, c.d. “eco-vandali”, con il governo Meloni). Il disegno di legge n. 1660 non fa eccezione: prevede nuovi reati che reprimono il dissenso, criminalizzano la povertà e discriminano i migranti.
Mi limito ad alcuni esempi. L’articolo 14 del disegno di legge prevede che sia punito «l’impedimento alla libera circolazione su strada», ovvero il blocco esercitato con il proprio corpo (con la pena della reclusione da sei mesi a due anni, se compiuto, come è normale, da più persone). Il blocco stradale (e ferroviario) è un mezzo attraverso il quale si esprimono il dissenso, il disagio sociale, il conflitto nel mondo del lavoro, le proteste studentesche: è strettamente correlato all’esercizio di diritti fondamentali, costituzionalmente garantiti, come lo sciopero (art. 40), la riunione (art. 17) e la manifestazione del pensiero (art. 21).
Il significato ideologico della stigmatizzazione e dell’inserimento nella sfera penale del diritto di protesta si coniuga con la repressione concreta del dissenso e produce un effetto deterrente ed intimidatorio.
Il diritto di protesta è quindi limitato anche in relazione al contenuto, mentre non ha spazio nel nostro ordinamento un concetto di ordine pubblico ideale, una sorta di ragione di Stato. Il riferimento in specie è all’aggravante, relativa al reato di violenza o minaccia, in relazione «al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica» (art. 19, ddl). è un’aggravante correlata all’opposizione storica ad alcune grandi opere, come il TAV in Val di Susa, e, per il futuro, al ponte sullo stretto di Messina. È, fra l’altro, una norma strettamente legata alla contingenza politica, senza memoria dei caratteri di generalità e astrattezza che dovrebbero connotare la legge; esempio della prassi del governo Meloni di utilizzare la legge come comunicato politico (il decreto Caivano insegna).
Ancora. Gli articoli 26 e 27 del disegno di legge, nel punire la «rivolta all’interno di un istituto penitenziario», ma anche in una struttura di accoglienza e trattenimento per i migranti (un CPR, un CAS, un hotspot), annoverano fra gli «atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva». Da un lato, si toglie ancora voce a persone, detenuti e migranti, che hanno pochissime possibilità di farsi sentire; dall’altro lato, confidando nel minor allarme sociale destato da provvedimenti destinati a persone tenute ai margini della società, si sperimenta e nel contempo si normalizza l’idea che la resistenza passiva, ovvero la disobbedienza nonviolenta, sia penalmente perseguibile (facile pensare agli eco-attivisti).
Non solo il dissenso è reato, lo sono anche la povertà e il disagio sociale. L’articolo 10 del disegno di legge introduce il nuovo reato, peraltro ridondante e dalla forte caratura simbolica, di «occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui». A fronte del grave problema sociale della casa, il legislatore non persegue politiche atte a garantire a tutti l’accesso all’abitazione – diritto che la Corte costituzionale qualifica inviolabile – ma adotta un approccio punitivo (e la pena non è lieve, da due a sette anni, come per l’omicidio colposo sul lavoro). Stessa pena è prevista anche per coloro che si intromettono o cooperano, ovvero che agiscono in solidarietà. Il principio costituzionale di solidarietà (art. 2), nell’era Meloni, tra neoliberismo, autonomia differenziata e nazionalismo identitario, scompare dall’orizzonte.
In linea con la disumanizzazione dei migranti tra confinamenti ed esternalizzazione delle frontiere, è infine la norma, dal chiaro tenore razzista, che prevede l’obbligo, per la vendita della scheda elettronica (S.I.M.), «se il cliente è cittadino di uno Stato non appartenente all’Unione Europea», di acquisire copia del titolo di soggiorno (art. 32 ddl).
Nodi particolarmente critici – l’elenco non è esaustivo – sono quindi: l’estensione del “daspo urbano” (un provvedimento di allontanamento nato in ambito sportivo e quindi esteso al disagio sociale) che amministrativizza la sicurezza, con relativa dimidiazione delle garanzie costituzionali; la detenzione – semplifico – delle madri (pensata per le donne rom); la previsione che le università stipulino convenzioni con i servizi segreti in deroga al diritto di riservatezza; la violazione dei principi in materia penale, tassatività, determinatezza, proporzionalità e ragionevolezza.
Infine, a chiudere il cerchio, c’è l’istituzione di privilegi dell’autorità, con la creazione di un vero e proprio corredo di benefit per le forze di polizia: aggravanti in materia di violenza o minaccia (art. 19 ddl), tutele rafforzate (art. 20 ddl, in relazione al reato di lesioni personali), pagamento di spese legali (artt. 22-23 ddl), facilitazioni nell’ottenere la licenza d’armi (art. 28 ddl); sino a ventilare l’ipotesi dello scudo penale.
Ci sono cittadini “più cittadini” di altri, funzionari pubblici più rilevanti di altri, a dimostrazione che lo Stato non intende identificarsi con i cittadini e nemmeno con la garanzia di diritti come l’istruzione o la salute, ma con l’ordine pubblico; fine è una coesione sociale intesa come sterilizzazione della società, a beneficio di alcuni.
Si fa strada l’idea di uno stato fondato sull’autorità e sull’obbedienza: orizzonti estranei alla democrazia, che si fonda, imprescindibilmente, sulla partecipazione e sull’uguaglianza, sulla «pari dignità sociale» (art. 3 Cost.), sul pluralismo e sul conflitto.
L’uguaglianza come connotato del diritto proprio di una democrazia cede il passo a diritti speciali: da un lato, il diritto speciale del migrante, di chi vive ai margini, di chi dissente; e, dall’altro, il diritto speciale di chi rappresenta l’autorità. Diritto del nemico e diritto dell’amico; disumano e super-umano. Il nemico è stigmatizzato e criminalizzato, espulso; l’amico, che veicola l’immagine dell’autorità, è celebrato e oggetto di franchigie e benefici.
Lo stato diseguale e autoritario del disegno di legge sicurezza uccide l’anima della Costituzione, che ha nel suo cuore la persona, la sua dignità e la sua emancipazione. Fermiamolo.