Qualifica Autore: Docente di Storia economica, Università di Torino

I vantaggi economici della guerra per produttori e Stati: chi ne paga il prezzo più alto?

 

Fra gli studiosi che si sono interessati agli effetti economici della guerra, un certo numero ha sostenuto che le operazioni belliche non provocano solo morte e devastazione, ma recano anche benefici economici, e non solo ai produttori di armi. I vantaggi più frequentemente sottolineati sono la riduzione della disoccupazione, l’aumento della domanda globale (consumi privati + investimenti + spesa pubblica), la distruzione dell’eccedenza della produzione, che altrimenti causerebbe crisi.

Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, quando ancora erano presenti molti effetti della crisi del 1929, tra cui una disoccupazione preoccupante, Stefan Possony, economista e stratega militare americano, era ottimista sugli effetti della guerra. Vedeva nella conversione degli impianti industriali, dalla produzione civile alle esigenze belliche, importanti occasioni di occupazione. I giovani che restavano ancora privi di impiego e i poveri venivano inviati al fronte. Diminuiva così la miseria sociale e di conseguenza diminuiva pure la spesa pubblica per l’assistenza sociale. Non tenendo conto dei pesanti costi dell’esercito e degli armamenti, la guerra gli appariva in grado di migliorare l’economia in generale (Possony 1939, pp. 213-214).

Conflitti recenti

Le guerre più recenti, con il potere distruttivo dei bombardamenti a tappeto, producono una forte domanda, successiva al conflitto, dovuta alle esigenze della ricostruzione. Questa fase è molto redditizia per l’edilizia e i settori industriali ad essa collegati, che non ricavano profitti dalla preparazione della guerra, ma dal ripristino di quanto la guerra ha distrutto.

La maggioranza degli economisti è concorde nel ritenere che il primo conflitto importante, dopo la Seconda guerra mondiale, la guerra di Corea, abbia favorito la crescita economica non solo della Germania Occidentale e del Giappone, arruolati come alleati degli americani contro la minaccia comunista, ma abbia migliorato le economie di tutto l’Occidente.

Pierre Léon, storico economico francese, ha visto nella Prima guerra mondiale un importante fattore di coesione e slancio industriale. La finalità collettiva della vittoria e il patriottismo avevano allora alimentato lo spirito di emulazione fra le imprese, facendo crescere significativamente la loro produttività (Léon 1997, p. 48).   

È opinione diffusa che il riarmo, anche se non viene seguito dallo scoppio della guerra, sia un modo efficace per risolvere le crisi economiche: è il cosiddetto keynesismo militare. Keynes, il maggior economista del secolo scorso, ha scritto che, nel caso di stagnazione economica, lo Stato deve intervenire aumentando la spesa pubblica al fine di dare lavoro ai disoccupati, non importa in che settore essi vengano impiegati, anche quello bellico va bene. Al limite potrebbero svolgere lavori del tutto inutili. L’essenziale è che percepiscano una remunerazione, con la quale potranno acquistare più beni di consumo, aumentando la domanda e attivando così un effetto moltiplicatore capace di riavviare l’economia. Naturalmente la crisi potrebbe essere risolta anche con una guerra.

La ricerca scientifica in campo militare è sempre stata la più avanzata e costosa: la pressione che viene esercitata sull’industria bellica affinché produca armi sempre più sofisticate, la induce a intensificare la ricerca ben più di quanto possa fare l’industria civile. Il livello delle conoscenze scientifiche nel settore degli armamenti è spesso tale da produrre innovazioni nei meccanismi e nei materiali, che possono essere utili anche in settori dell’economia civile. Questo trasferimento di innovazione tecnologica, definito spin-off, fa sì che la spesa bellica, pur improduttiva in sé, non possa essere considerata esclusivamente come uno spreco.

Clive Trebilcock, storico inglese, ha insistito molto sull’importanza economica dello spin off: basti pensare all’uso civile di invenzioni belliche quali la dinamite, il radar o i più recenti droni. Ma Trebilcock individua anche, nelle vendite di armamenti dai Paesi avanzati ai Paesi poveri, passaggi di tecnologia importanti per lo sviluppo dell’industria civile. Infine, attraverso le trasmissioni internazionali di tecnologia si creerebbe un legame virtuoso tra i Paesi. Analogamente, un altro storico inglese, Paul Kennedy (1993), sostiene che i miglioramenti tecnici che intervengono in campo militare “interagiscono vantaggiosamente” con il progresso tecnologico civile, avviando “una spirale ascensionale di crescita economica e di sempre maggior efficienza militare”.

I critici di queste interpretazioni ricordano che gli Stati poveri destinano all’acquisto di armamenti un consistente ammontare del loro magro budget, che si traduce in un sacrificio di servizi sociali, abitualmente già carenti. Inoltre, ogni benefico spin-off derivato dalla ricerca bellica è ottenuto a costi esorbitanti. La stessa spesa destinata a usi civili produrrebbe una crescita economica maggiore.

Un giudizio particolare sull’utilità degli armamenti per l’economia capitalistica venne espresso negli anni Sessanta del secolo scorso da Michael Kidron, economista e teorico marxista, che partì dal principio marxiano secondo cui il sistema capitalistico porterebbe alla sovrapproduzione e al suo stesso crollo, se non si attivassero forze esterne capaci di riequilibrarlo. La spesa bellica è una di queste forze.

Kindron concentrò l’attenzione sul prelievo fiscale che lo Stato opera per acquistare armi. Nella misura in cui il capitale viene tassato per sostenere il costo degli armamenti, esso è privato di risorse che altrimenti potrebbero essere usate per ulteriori investimenti, probabilmente eccedenti il fabbisogno.

Le armi sono beni di lusso, non servono per produrre altre merci, anzi le distruggono. La loro produzione è, quindi, un fattore frenante della caduta tendenziale del saggio di profitto. Gli armamenti sono la miglior forma di spreco perché costano molto e perché l’entità dello spreco è controllata dallo Stato.

Altri casi storici

Ci sono poi casi storici particolari. Harry Magdoff (1971, pp. 31, 32, 65), economista marxista americano ha analizzato il ruolo strategico svolto dalle spese militari per lo sviluppo e la sicurezza delle corporation americane, concludendo che il costante riarmo del secondo dopoguerra ha consentito agli Stati Uniti di conservare il loro ruolo di leader del sistema imperialistico occidentale. In quegli anni, le iniziative all’estero delle grandi imprese americane erano sovente rivolte all’acquisizione/appropriazione di materie prime carenti, attività questa foriera di tensioni internazionali, a fronteggiare le quali stava appunto la potenza militare statunitense.

In sintesi, l’economia statale nei momenti di difficoltà, e soprattutto i grandi produttori industriali, possono trarre, in forme diverse, vantaggi economici dal riarmo e dalla guerra. A pagarne le spese con tasse, inflazione e debiti sono chiamati invece i cittadini, gli stessi che subiscono da sempre le rovine materiali e i lutti delle guerre.

 

 

 

 


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