A cura di Alfio Nicotra, Un Ponte per 

Il Medioriente, o meglio l’Asia Sud Occidentale, è coacervo di conflitti e violenze, ma anche di resistenze e di movimenti attivi della società civile. Ne parliamo in questo dossier, partendo dalla storia di questa Regione e liberando il nome da un lessico coloniale. Dalla Siria all’Iraq, dai curdi ai palestinesi: ascoltiamo i popoli e diamo loro voce. Perché la libertà e l’uguaglianza, il diritto a vivere nella propria terra e a costruire un futuro, i diritti e la dignità, hanno un valore inestimabile. In in ogni altra parte del mondo. 

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Cerchi concentrici distruttivi investono tutta l’Asia Occidentale. Eppure qualcosa, dal basso, si muove.  Il perché di un dossier.

  

L’onda distruttiva di un terremoto geostrategico senza precedenti sta investendo l’intera Asia occidentale e l’effetto tsunami vedrà larghe e lunghe onde innalzarsi per tutto il Mediterraneo. Se l’epicentro del terremoto è la Striscia di Gaza con il genocidio del popolo palestinese senza ormai più freni, i cerchi concentrici distruttivi, dilatandosi in tutte le direzioni, non hanno ormai confini.

Siria, Libano, Iraq, Iran e Yemen sono già dentro una guerra combattuta con le armi più moderne. La monarchia hashemita di Giordania e il regime egiziano di Al Sisi non sanno ancora se riusciranno a sopravvivere alla deportazione nei loro territori dei palestinesi cacciati da Gaza e Cisgiordania. La Turchia, in una forte crisi interna dopo l’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu, principale concorrente del presidente Erdogan, appare incapace di accogliere la proposta di pace – l’unica cosa sensata di questi tempi – avanzata dal carcere di Imrali dal leader curdo Abdullah Ocalan. Il tutto inserito dentro il frullatore dell’effetto Trump che vorrebbe ridisegnare un mondo in cui gli Usa tornino a dettar legge.

Nonostante molte cose inducano a una lettura negativa, ci sono però processi politici e sociali che muovono in una direzione diversa e che spesso sfuggono alla nostra analisi eurocentrica.

Qualifica Autore: già presidente di Un ponte per, membro dell’Esecutivo di Rete italiana Pace e Disarmo

Lo sguardo alla storia di un’ampia regione che definiamo Medio Oriente. Ma sarebbe meglio dire Asia del Sud-Ovest.

  

Lo storico Eliezer Beeri ha contato in Medio Oriente 35 colpi di Stato o tentativi di colpi di Stato. Tra questi solo uno, quello che rovesciò la monarchia in Iraq nel 1958, non è stato istigato o sostenuto da parte degli Stati Uniti o di un Paese europeo. La Storia del “Medio Oriente” e dell’Occidente è molto più intrecciata di quanto normalmente si pensi. Qui tratteremo di come, con la dissoluzione dell’Impero ottomano e la successiva “sistemazione”, le potenze occidentali abbiano preso il controllo.

Cominciamo dal nome con il quale denominiamo l’area geografica che coincide grossomodo con la parte orientale di quello che, per 400 anni, era stato l’Impero ottomano.

L’area nel suo insieme era denominata dalle popolazioni che ci vivevano, Mashreq, cioè “oriente”, per distinguerla dal Maghreb, “occidente”, che noi ora chiamiamo Nord Africa. L’area che oggi ospita cinque Stati: Siria, Libano, Giordania, Palestina e Israele era chiamata Bilad al Shams, Grande Siria. E così per secoli.

Dal XIX secolo in Gran Bretagna, si è cominciato a parlare di Medio Oriente. Medio per distinguerlo dal Lontano Oriente, i possedimenti coloniali asiatici, e dal Vicino Oriente, che denominava i Balcani. Vicino, Medio o Lontano rispetto alla super potenza coloniale dell’epoca. Si sa che i nomi vengono assegnati da chi domina, come pure da essi viene scritta la Storia. Non per caso Trump ha ribattezzato “Golfo d’America” quello che per 500 anni è stato il Golfo del Messico (e Google prontamente lo ha inserito nelle sue mappe).

In questo articolo parleremo di Asia Sud Occidentale, che è una denominazione almeno geograficamente oggettiva, utilizzata ormai da molti studiosi decoloniali.

Qualifica Autore: avvocata, co-presidente della European Lawyers Association for Democracy and Human Rights (ELDH)

I curdi, tra dure repressioni e resistenze dal basso.

 

I curdi rappresentano una delle più numerose nazioni senza Stato, con circa 40 milioni di persone distribuite tra Turchia, Siria, Iraq e Iran, e una diaspora globale. La loro lotta per il riconoscimento culturale, l’autonomia politica e i diritti fondamentali continua a essere una delle questioni più complesse e dolorose del Medio Oriente contemporaneo, la più complessa dopo quella del drammatico genocidio palestinese in corso.

Nel 2015 e 2016, il successo elettorale dell’HDP (Partito Democratico dei Popoli), formazione filocurda, ha rappresentato una minaccia per l’AKP di Erdoğan. In risposta, il governo turco ha intrapreso una dura repressione nelle regioni curde: bombardamenti, sfollamenti e distruzione di villaggi, con oltre 2000 vittime civili. Dopo il tentato colpo di Stato del 2016, Erdoğan ha accentrato i poteri con riforme costituzionali, instaurando un regime sempre più autoritario, descritto come una “democratura”.

Migliaia di curdi – tra politici, avvocati, giornalisti e attivisti – sono stati incarcerati con accuse di terrorismo. Un caso emblematico è quello dell’avvocata Ebru Timtik, nota per la difesa dei diritti umani, morta nel 2020 dopo uno sciopero della fame di 238 giorni, intrapreso per chiedere un processo equo. La sua morte ha provocato forte indignazione, sottolineando la gravità della crisi dello Stato di diritto in Turchia.

Nel marzo 2025, l’arresto del sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu, figura politica considerata alternativa a Erdoğan, ha suscitato ulteriori proteste. Le accuse di corruzione e favoreggiamento del terrorismo, poi rivelatesi infondate, sono state interpretate come un tentativo di ostacolarne la candidatura presidenziale. Questo episodio ricorda il caso di Selahattin Demirtaş, co-presidente dell’HDP, incarcerato dal 2016 nonostante fosse candidato alle presidenziali del 2018.

Anche gli Ordini degli Avvocati sono stati oggetto di repressione: alcuni minacciati di scioglimento, a dimostrazione dell’estensione del controllo governativo anche su enti civili indipendenti.

La società civile in Iraq resiste. Cosa accade in un Paese con forti tensioni e pochi spazi di azione?

 

La Storia è fatta di processi, eppure spesso quello che ricordiamo sono avvenimenti singoli, che a volte iniziano e si concludono nel giro di poche ore. Eventi circoscritti che segnano un prima e un dopo. Eventi che, tuttavia, seppure intrinsecamente potenti, non possono essere compresi che guardando alle loro cause e, in seconda battuta, ai loro effetti. Il 7 ottobre 2023 è indubbiamente uno di questi spartiacque. Come un’onda, la reazione militare israeliana all’attacco di Hamas a Gaza ha riverberato nell’intera regione dell’Asia sudoccidentale e altrove. A Baghdad, nei primi giorni non si parlava d’altro. I social media erano invasi dai video dei bombardamenti israeliani sulla popolazione civile palestinese, dalle storie delle centinaia di persone costrette a fuggire e cercare riparo in zone che avrebbero dovuto essere sicure. Fin da subito, le persone coinvolte nella società civile irachena hanno guardato con sgomento alle reazioni scomposte dell’Occidente, scandagliando le dichiarazioni dei governi e gli appelli delle organizzazioni internazionali, anche quelle non-governative – spesso trovandoli deludenti. In quei giorni, si sentivano commenti rabbiosi da parte degli attivisti che denunciavano l’ipocrisia di attori che si erano riempiti la bocca di diritto internazionale per anni sul territorio iracheno, per poi voltare lo sguardo davanti alle azioni genocidarie di Israele.

Il governo iracheno non riconosce lo Stato di Israele, e nel 2022 il Parlamento di Baghdad ha approvato una legge che criminalizza ogni tentativo di normalizzazione con quella che viene definita l’entità sionista. Il risultato del forte posizionamento da parte del governo è una sorta di sollevamento dal senso di responsabilità dei singoli, motivo per cui in Iraq il movimento di boicottaggio, seppur presente, ha avuto un impatto molto minore che in altri Stati, come ad esempio in Giordania.

Qualifica Autore: ricercatore di Lingua e Letteratura araba presso l’Università degli Studi di Cagliari

Palestinesi fuori dalla Palestina. Diaspora, campi profughi, destini lacerati.

  

Nel pomeriggio, giunti a Sidone, eravamo diventati profughi. La strada ci raccolse, assieme ad altri. Nostro padre era invecchiato e sembrava che non dormisse da secoli. Se ne stava in piedi per strada, davanti ai bagagli gettati per terra (…). In quel momento anche io, il bambino educato in una zelante scuola religiosa, cominciai a dubitare che davvero Dio volesse far felice l’umanità. Dubitai che Dio potesse ascoltare e vedere ogni cosa (…). Non dubitai invece che il Dio che avevamo conosciuto in Palestina aveva dovuto lasciarla anche lui e che anche lui era diventato profugo, chissà dove, incapace di risolvere i suoi stessi problemi, mentre noi, i profughi umani, ce ne stavamo seduti sul marciapiede, in attesa di un nuovo destino che portasse con sé una soluzione qualunque (…). La notte era terribile... l’oscurità che calava piano piano sulle nostre teste mi riempiva di terrore. La sola idea di passare la notte sul marciapiede mi faceva venire in mente ogni tipo di paura. Era una paura dura e inesorabile. (G. Kanafani, La terra degli aranci tristi, Cagliari, Associazione Culturale Amicizia Sardegna-Palestina, 2012, p. 75).

Questo è il sentimento prevalente di ogni profugo: la paura. Superare il trauma dello sradicamento non sarà possibile, nemmeno alle generazioni successive. Eppure, Kanafani appartiene a quella cerchia della media borghesia che, prima della fondazione dello Stato d’Israele, aveva cominciato ad abbandonare il Paese a partire dal 1947.

Chi guiderà il futuro della Siria? Tra colpi di Stato, caduta di regime e resistenze civili resilienti.

  

Tra macerie e sofferenze, il popolo siriano non ha mai smesso di sperare e di lottare per la ricostruzione del proprio paese. Al centro di questa voglia di rinascita vi sono i civili che, con coraggio e determinazione, cercano di risollevarsi. “Non c’è alternativa a una transizione politica rappresentativa che soddisfi le aspirazioni di tutti gli uomini e le donne siriani”. Questo concetto è il cuore delle rivendicazioni della società civile, che per anni ha lottato per la democrazia, la giustizia e i diritti umani. Eppure, troppe volte queste voci sono state ignorate.

La caduta del regime di Bashar al-Assad ha segnato un punto di svolta, ma non ha risolto il problema fondamentale: chi guiderà il futuro della Siria? È una domanda legittima che ritorna in ogni intervento che abbiamo ascoltato tra Damasco e Suwayda, dove abbiamo incontrato diverse persone che ci hanno raccontato di come la partecipazione civica ma anche la cultura e l’arte siano strumenti fondamentali per la ricostruzione sociale, come anticorpi contro ogni forma di regime.

Resilienza

Abbiamo sofferto troppo, ma non smettiamo di sperare”, racconta Mirvat, una scrittrice siriana che oggi si impegna in programmi di sostegno alla popolazione. Le sue parole rispecchiano lo spirito di molti siriani che, nonostante le ferite della guerra e inflitte dal regime, continuano a costruire un possibile futuro. Questa energia ha sempre contraddistinto la straordinaria resilienza del popolo siriano.


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