Da questo numero proveremo a coniugare, passo dopo passo, il senso del cammino/pellegrinaggio e il potere della speranza. Temi giubilari ma soprattutto esistenziali. Forse vitali. Lo scopriremo.
In cammino
La tentazione più rischiosa del cammino è il vagare. E non perché il vagare sia sempre un errore e un errare, ma semplicemente perché il cammino che non ha meta rasenta la follia, induce alla disperazione, rende desiderabile persino la rassegnazione. Anche il passeggiare, che di per sé non ha sempre una mappa, una meta invece ce l’ha nella volontà di dedicarsi un tempo.
Una meta è essenziale anche quando non è definita nella piantina ma almeno è incisa nella testa o nel cuore. Lo apprendiamo alla scuola del cammino per eccellenza della storia della liberazione che è esodale.
Si tratta di una strada da percorrere da un punto di partenza certo, ma che non è in grado di definire un approdo. È piuttosto un fidarsi che significa sempre abbandonare una sicurezza, una casa, un punto d’appoggio. Da Abramo al cammino di liberazione dalla schiavitù egiziana, a “quelli della via”, come vennero chiamati i primi discepoli del nazareno, percorrere una strada è sempre un atto di fiducia. In Dio prima che nella propria intelligenza o nella forza dei piedi.
Se riuscissimo a reinventare il Giubileo moderno in questo solco della tradizione biblica e antropologica, pianteremmo una pietra miliare in un cammino spirituale che può fare a meno di porte solenni, di incensi e paludamenti solenni e conduce al centro di sé stessi per riconoscere il Dio della vita. I cammini esistenziali, cioè spirituali, sono sempre cammini di conversione.
“Il pellegrinaggio più faticoso – diceva don Tonino Bello – è quello che porta l’uomo dalla periferia al centro del proprio cuore. Il più lungo è quello che conduce alla casa di fronte. Il più serio è quello che porta all’incontro con Dio”.
È l’esperienza di tante donne e uomini che si sono decisi a scendere nella strada della propria vita e della vita del mondo, per provare decisamente a fare un passo dopo l’altro.
È l’esperienza di tante e tanti che si sono sentiti improvvisamente pervasi dal sogno di dare fiato a una corsa fino al limite del proprio respiro.
C’è un’espressione che Etty Hillesum, in uno dei diari in cui intavola un dialogo serrato con Dio, scrive: “Ti porterò tutti i fiori che incontro sul mio cammino e sono veramente tanti”. Scrutando il centro di noi stessi, sono convinto che ciascuno di noi, sgomitando tra le prove e le fatiche, gli ostacoli e le difficoltà, sarà capace di dire lo stesso: “Ti porterò tutti i fiori che incontro sul mio cammino e sono veramente tanti”.
La grammatica della speranza
La verità è che siamo analfabeti della speranza. Abbiamo bisogno di impararne una grammatica che non si chini a raccogliere sbrigativamente le escrescenze banali, i modi dire, i luoghi comuni quando non i pregiudizi persistenti.
La grammatica di cui abbiamo bisogno è quella che ci fa aprire gli occhi per scorgere e sorprenderci di tutti gli atti di speranza che distribuiamo come Pollicino lungo l’arco della giornata. O della vita. Abbiamo bisogno di aprire gli occhi sulle scuole di speranza che abbiamo frequentato e poi abbandonato per eccesso di realismo oppure nella presunzione d’aver già perseguito un titolo o, ancora, perché abbiamo ritenuto che fosse tempo perso. A guardare profondamente dobbiamo piuttosto ammettere che la nostra esistenza è costellata da testimoni di speranza, maestri di vita che ci hanno tatuato questa fede sulla pelle e che, talvolta con l’umiltà dei servitori, ci hanno aperto alla speranza. E la prima lezione è stata quella di comprendere che senza speranza non si vive.
È respiro, fiducia, carezza. Lo abbiamo capito quando le lacrime sono diventate le lenti per uno sguardo nuovo sulla storia. E ci hanno stravolto le priorità e gli ordini di grandezza delle cose. Ci hanno insegnato a relativizzare ciò che prima appariva imprescindibile e che, nella tragica trasparenza del dolore, si tramutava in pulviscolo trascurabile. Oppure abbiamo visto – come in uno specchio – la trasparenza delle lacrime negli occhi di una persona cara che nel dolore ha spalancato le nostre persiane a un raggio di sole. E tutto questo senza nessun cedimento sacrilego sulla concretezza di cui la speranza deve essere indissolubilmente accompagnata. Senza attendere oltre ma piuttosto rivestendoci del coraggio necessario che ci consenta di reagire a rassegnazione, pessimismo e codardia. “Arrischiamoci a rendere la speranza operativa non in una stagione ideale, – raccomanda Josè Tolentino Mendoza, il cardinale-poeta, prefetto del Dicastero della Cultura e dell’Educazione – ma in questo tempo concreto, che probabilmente non è neppure quello che auspicavamo; in questo tempo ferito e incompleto, pieno di spazi vuoti, di accelerazioni verso nessun dove; di desideri abbozzati e ritirati; di luoghi senza risposta”.
E così scopriamo che la speranza è parente stretta dell’impegno che non può permettersi tradimenti e distrazioni e deve piuttosto andare oltre quel realismo pragmatico che è figlio del déjà vu, di quello che abbiamo già sperimentato. Rispondendo alle domande che l’intervistatrice gli rivolgeva circa le vie per emergere dalla situazione drammatica in Palestina, David Grossman ha risposto: “Questo è il tempo delle cose imprevedibili, non del realismo”.
Ecco, quello è il civico in cui la speranza prende casa.