A cura della Redazione
Parliamo di Israele, impronta e sentinella dell’Occidente in Asia occidentale. È una nazione complessa, a partire dalla sua nascita e dal suo stato di eccezione nella geopolitica internazionale del secondo dopoguerra.
In questo dossier, apriamo finestre sui settant'anni di impunità, sull’assenza dell’ONU, sulla tecnologia e la sicurezza, sull’indottrinamento della popolazione.
E sui suicidi tra le forze israeliane, sui disertori e sulla società civile che ha riempito le piazze.
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- Scritto da Franco Dinelli
- Categoria: Dossier - Novembre 2025 - Eccezione Israele
Intervista allo storico Ilan Pappè. Israele dal 1948 in poi: l’ONU, il fallimento delle istituzioni internazionali e la pulizia etnica in Palestina.
In questa intervista vogliamo affrontare il tema del fallimento della governance mondiale attuale nella risoluzione diplomatica e nonviolenta dei conflitti. Le guerre continuano, infatti, a far piombare nelle nostre case un numero drammatico di vittime, come nel caso del massacro palestinese, di cui Ilan Pappè è probabilmente il maggiore esperto. Partiamo, in questa conversazione, da un grande assente di questo capitolo di Storia: il diritto internazionale o, meglio, l’ONU.
Ilan Pappè, in passato hai trattato del ruolo giocato dall’ONU sulle origini di questo conflitto. Nel 1948, l’ONU era appena nata quando si pronunciò a favore di una partizione dei territori della Palestina storica, allora controllata dalla Gran Bretagna. Quali sono le ragioni che hanno portato al fallimento in quel caso?
Per prima cosa, bisogna ricordare che l’ONU era allora un’organizzazione molto giovane, di soli tre anni, e la questione palestinese era probabilmente la prima questione di rilevanza che era chiamata ad affrontare. Non aveva perciò tanta esperienza. Secondo, se vogliamo capire il fallimento, bisogna ricordare che la maggior parte del mondo colonizzato non era ancora rappresentata. Per questo motivo l’ONU era un forum in cui le potenze occidentali, con l’Unione Sovietica e i membri del suo blocco, decidevano i futuri politici di luoghi di cui molti dei loro membri avevano poca conoscenza e che venivano perciò rappresentati solo dal punto di vista occidentale o sovietico.
E poiché l’Africa, l’Asia e il mondo arabo non erano rappresentati nelle negoziazioni per la Palestina, la lobby sionista ebbe gioco facile a imporre la propria interpretazione della realtà senza permettere all’ONU di conoscere correttamente il punto di vista palestinese, o anche solo di considerare in modo corretto la prospettiva palestinese.
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- Scritto da Giorgia Pelosi
- Categoria: Dossier - Novembre 2025 - Eccezione Israele
- Qualifica Autore: ricercatrice dell’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo
Uno Stato edificato sulla forza militare. Difesa, armi, tecnologia e sicurezza in Israele.
La dottrina della sicurezza nazionale di Israele ha costituito un elemento cardine della sua politica sia estera sia interna sin dalla fondazione dello Stato nel 1948. Essa si è storicamente strutturata su tre pilastri: la deterrenza, un sistema di intelligence capace di garantire un adeguato early warning, e la capacità di ottenere una vittoria rapida e decisiva in caso di conflitto. Questo approccio, conosciuto come la “triade della sicurezza”, ha permesso a Israele di compensare la propria inferiorità numerica e territoriale rispetto ai Paesi arabi circostanti, focalizzandosi sulla qualità delle forze armate e sulla loro rapida mobilitazione.
Sicurezza
Nel corso del tempo, la dottrina della sicurezza israeliana si è evoluta attraverso quattro fasi. La prima (1948-1967) coincide con la fondazione e la stabilizzazione dello Stato. Durante questo periodo, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) sono diventate il fulcro della strategia difensiva del Paese. Il Primo ministro David Ben-Gurion ha puntato sulla costruzione di una solida capacità militare, senza trascurare la diplomazia e le alleanze internazionali. In particolare, il sostegno degli Stati Uniti si è rivelato cruciale dal 1948 ad oggi, con oltre 130 miliardi di dollari forniti all’assistenza e alla sicurezza di Israele. In questo contesto, le autorità di Tel Aviv hanno sviluppato una politica di difesa preventiva e offensiva, mirata a spostare i conflitti oltre i propri confini e a ricorrere a operazioni preventive. La struttura militare si è basata su un esercito permanente di dimensioni contenute, affiancato da un ampio corpo di riservisti, il cosiddetto “popolo in armi”.
Il secondo periodo (1967-1985) è segnato dalla guerra dei Sei Giorni (1967), che ha portato a una significativa espansione territoriale e a una maggiore ricerca di sicurezza per Israele. Infatti, lo scoppio della guerra dello Yom Kippur (1973) ha evidenziato le vulnerabilità del Paese, rafforzando la sua dipendenza dagli Stati Uniti. In questa fase, la dottrina si è concentrata sul rafforzamento della maggioranza ebraica degli insediamenti coloniali, sullo sviluppo dell’autosufficienza economica e sulla superiorità tecnologica del Paese.
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- Scritto da Riccardo Michelucci
- Categoria: Dossier - Novembre 2025 - Eccezione Israele
- Qualifica Autore: giornalista
Suicidi e riservisti in Israele: un dramma che si consuma nella guerra permanente in atto.
Sono ormai più di cinquanta i soldati israeliani che si sono tolti la vita dall’inizio delle operazioni belliche nella Striscia di Gaza seguite al 7 ottobre 2023. Vittime di un peso psicologico insostenibile, di una società spaccata e trascinata in un conflitto senza sbocchi voluto e prolungato dai suoi stessi governanti. Dietro le divise si nasconde un malessere profondo, il segnale di una nazione lacerata dall’isteria della sicurezza e ingannata dal sionismo messianico di stampo coloniale.
Un grido silenzioso che rivela quanto la guerra permanente dello Stato di Israele stia consumando anche le coscienze dei suoi protagonisti. L’ultimo caso, in ordine di tempo, riguarda un riservista di 31 anni che si è tolto la vita proprio nel giorno del suo matrimonio. Il suo corpo, secondo quanto hanno raccontato i media israeliani, è stato ritrovato all’inizio di settembre nella sua abitazione di Rehovot, a sud di Tel Aviv. Solo pochi giorni prima, un altro suicidio – quello di un soldato della Brigata Golani – aveva riportato l’attenzione sul dramma che si sta consumando tra le fila dell’esercito israeliano. Dall’inizio del 2025 sono già venti i militari che si sono suicidati e il tema della salute mentale tra i soldati – di leva o riservisti – è sempre più al centro del dibattito pubblico, in un contesto segnato da un conflitto prolungato, stress psicologico elevato e mobilitazioni estese.
Tra le vittime più recenti c’è il giovane paracadutista Dan Mandel Phillipson, che si è sparato durante un addestramento nel sud di Israele ed è morto pochi giorni dopo in ospedale. Prima di lui, il riservista Daniel Edri si era dato fuoco in un bosco vicino a Safad, dopo un lungo servizio a Gaza. “Dopo tutto quello che aveva visto, non riusciva più a liberarsi dal tormento”, ha detto sua madre alla televisione israeliana. All’inizio di luglio, in appena due settimane, si sono contati ben quattro suicidi tra i soldati dell’Israeli Defence Force. Un’emergenza che, oltre alla tragica conta dei morti, si accompagna a un incremento delle diserzioni e a un diffuso senso di sfiducia verso le istituzioni militari e politiche. Le operazioni a Gaza, in corso da due anni, hanno provocato una catastrofe umanitaria e messo a dura prova il morale delle truppe, acutizzando le fratture interne alla società israeliana.
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- Scritto da Intervista a cura di Elisabetta Tusset
- Categoria: Dossier - Novembre 2025 - Eccezione Israele
Ebrei israeliani e arabi palestinesi: quali prospettive e quale futuro? Intervista a Sarah Parenzo.
Sarah Parenzo vive da venti anni in Israele, dove ha conseguito un dottorato di ricerca. È traduttrice, pubblicista e lavora nel servizio pubblico psichiatrico per la riabilitazione delle donne ultra-ortodosse. Le abbiamo rivolto alcune domande per aiutarci a capire cosa accade oggi dentro Israele e quali resistenze siano in atto.
In che modo si esplica la resistenza in Israele, con quali obiettivi e da parte di chi? L’attivismo della sinistra israeliana: come vede possibile un aiuto, anche esterno, che possa essere di supporto perché cresca?
La sinistra radicale ebraica è la principale garante della democrazia, la sola che, negli anni, non ha mai perso di vista l’urgenza di porre fine all’occupazione del popolo palestinese come chiave per la fine della violenza e la normalizzazione della presenza ebraica in Medio Oriente. Tra i suoi attori ci sono le ONG e le associazioni per i diritti umani, in buona parte confluite anche nella recente coalizione It’s Time e nella lista Hadash, che vanta seggi anche alla Knesset.
Ad accomunare gli attivisti per i diritti umani e i partiti misti, oltre al lavoro di denuncia, catalogazione e sensibilizzazione delle violazioni in nome della pace e dell’uguaglianza, vi è soprattutto la partnership arabo-ebraica, che comincia dai loro staff e caratterizza anche eventi e proteste.
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- Scritto da Giorgio Gomel
- Categoria: Dossier - Novembre 2025 - Eccezione Israele
Israele e Palestina, una pace possibile?
Il trauma della strage del 7 ottobre 2023 e della guerra su Gaza che ne è scaturita rivelerà forse alla coscienza di Israele come sia illusoria l’opinione che il conflitto si possa risolvere senza porre fine all’occupazione e alla convinzione di poter reprimere le aspirazioni palestinesi a uno Stato degno di questo nome.
O forse, all’opposto, indurirà ancor più gli israeliani, convinti che i palestinesi tutti siano come Hamas e che uno Stato lungo i 500 km del confine orientale con Israele sia un pericolo esiziale. Il trauma ha messo in forse, comunque, due elementi chiave della coscienza di sé del Paese, già profondamente scisso al suo interno fra spinte autoritarie e difesa della democrazia: la fiducia nella forza delle armi e quella nelle sue ragioni ideali riconosciute dall’opinione pubblica mondiale. Ambedue ora fortemente compromesse.
È misura inquietante di tutto ciò l’isolamento politico del Paese, le condanne di organismi internazionali e ONG operanti in ambito umanitario, le istruttorie in corso presso i Tribunali internazionali, l’ostracismo vistoso e irritante anche in campo culturale e accademico di istituzioni israeliane. Il trauma inflitto sulla psicologia degli israeliani dall’obbrobrio di Hamas ha generato, come sottoprodotto in parti cospicue dell’opinione pubblica, un anelito all’annientamento del nemico, visto come legittimo e necessario a restaurare una “deterrenza” perduta sui confini del Paese e al suo interno.
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