Intervista allo storico Ilan Pappè. Israele dal 1948 in poi: l’ONU, il fallimento delle istituzioni internazionali e la pulizia etnica in Palestina.

 

In questa intervista vogliamo affrontare il tema del fallimento della governance mondiale attuale nella risoluzione diplomatica e nonviolenta dei conflitti. Le guerre continuano, infatti, a far piombare nelle nostre case un numero drammatico di vittime, come nel caso del massacro palestinese, di cui Ilan Pappè è probabilmente il maggiore esperto. Partiamo, in questa conversazione, da un grande assente di questo capitolo di Storia: il diritto internazionale o, meglio, l’ONU.

Ilan Pappè, in passato hai trattato del ruolo giocato dall’ONU sulle origini di questo conflitto. Nel 1948, l’ONU era appena nata quando si pronunciò a favore di una partizione dei territori della Palestina storica, allora controllata dalla Gran Bretagna. Quali sono le ragioni che hanno portato al fallimento in quel caso?

Per prima cosa, bisogna ricordare che l’ONU era allora un’organizzazione molto giovane, di soli tre anni, e la questione palestinese era probabilmente la prima questione di rilevanza che era chiamata ad affrontare. Non aveva perciò tanta esperienza. Secondo, se vogliamo capire il fallimento, bisogna ricordare che la maggior parte del mondo colonizzato non era ancora rappresentata. Per questo motivo l’ONU era un forum in cui le potenze occidentali, con l’Unione Sovietica e i membri del suo blocco, decidevano i futuri politici di luoghi di cui molti dei loro membri avevano poca conoscenza e che venivano perciò rappresentati solo dal punto di vista occidentale o sovietico.

E poiché l’Africa, l’Asia e il mondo arabo non erano rappresentati nelle negoziazioni per la Palestina, la lobby sionista ebbe gioco facile a imporre la propria interpretazione della realtà senza permettere all’ONU di conoscere correttamente il punto di vista palestinese, o anche solo di considerare in modo corretto la prospettiva palestinese.

Quindi si determinò una situazione in cui l’ONU non aveva idee proprie su come risolvere la questione e si basò solo sul movimento sionista che suggeriva la partizione. È vero che il movimento sionista voleva molto più territorio di quello che l’ONU era in grado di offrire, ma, nonostante questo, allo Stato ebraico fu offerta metà della Palestina, mentre gli ebrei erano solo un terzo della popolazione e la maggior parte di essi non era neppure di origine indigena. Quella, perciò, fu una buona offerta dal punto di vista del movimento sionista ma, poiché le idee e l’ideologia sioniste dominavano le risoluzioni, l’ONU ignorò totalmente la natura di colonialismo di insediamento del movimento sionista e anche l’aspirazione della popolazione palestinese indigena.

Non c’era nessuna possibilità di successo. Non è pertanto sorprendente che tutto questo abbia portato guerra, violenza e pulizia etnica. Quella situazione ricorda un poco il processo degli accordi di Oslo degli anni Novanta. Infatti, Oslo era nato per essere un processo di pace, ma condusse alla seconda Intifada, un conflitto molto violento tra israeliani e palestinesi. Per molti versi, questa è la visione del mondo occidentale che si comporta come se rappresentasse il mondo intero, mentre cerca di soddisfare principalmente le aspirazioni del movimento sionista e non ha una buona comprensione della vera natura del sionismo, dei suoi piani per eliminare la presenza palestinese. Ma l’errore più grande dell’ONU fu non aver compreso che nel momento in cui si propone qualcosa e questo viene accettato unilateralmente, bisogna poi continuare a negoziare.

Non si può dichiarare che, se una parte non accetta sia “mal per loro” e debba subire, soprattutto se si tratta della maggioranza delle persone coinvolte, non se è tutto il mondo arabo, non se è la popolazione nativa di Palestina. Questo è stato il grande errore, a prescindere che il piano fosse più o meno giusto, e fosse o meno fattibile. Bisognava continuare a negoziare. Non si poteva dire semplicemente prendere o lasciare. L’ONU ha, invece, agito così, permettendo agli israeliani di attuare la pulizia etnica della Palestina.

Quanto pensi che quel fallimento sia alla base della mancanza di credibilità dell’ONU e possa aver influito sulla risoluzione delle questioni successive? Infine, quali ritieni che siano i momenti cruciali del periodo della Guerra Fredda?

Penso che l’ONU, che il mondo arabo sperava fosse più affidabile della Società delle Nazioni che in realtà lo aveva tradito, sia stato uno strumento nelle mani dell’imperialismo occidentale agli occhi dei movimenti di liberazione nel mondo arabo, piuttosto che un luogo dove le loro voci e aspirazioni potessero essere ascoltate. L’ONU ha acquisito un po’più credibilità, quando nel 1949 ha dato vita all’ UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East).

Il modo in cui i centri UNRWA per i rifugiati si sono sviluppati e la loro relazione con il movimento nazionale palestinese è piuttosto complessa. Il fatto, però, che ancora oggi esista un “Comitato per i Diritti Inalienabili dei Palestinesi”, anche se non ha alcun potere sanzionatorio e non può cambiare la realtà sul terreno, sia una indicazione che, almeno a un certo livello, si sia capito l’errore commesso nel 1947-48 e si cerchi di fornire una sorta di riconoscimento alle aspirazioni palestinesi.

Penso, comunque, che il momento più cruciale nella Storia di Israele moderna in Palestina non sia tanto ciò che è successo nel 1947 ma ciò che è arrivato dopo il 1967, quando ogni risoluzione sensibile alle richieste palestinesi è stata fermata dagli USA con il veto in Consiglio di Sicurezza. Questo è ciò che è successo.

Il periodo della Guerra Fredda, per rispondere alla seconda domanda, è stato certamente un periodo importante, e penso che ci siano stati molti momenti cruciali. Il primo è stato l’ascesa di Jamal Abdel Nasser come leader dell’Egitto, e un po’ più tardi l’emergere di regimi arabi più progressisti, in Iraq e Siria principalmente, attraverso il movimento Ba’th. Penso che quello sia stato un momento importante in quanto ha significato che il dominio occidentale non poteva essere facilmente sostituito dall’imperialismo americano.

Dimostrò che esistevano forze che volevano resistere alla continuazione del colonialismo attraverso altri mezzi, e queste forze, al contrario di come gli americani le hanno rappresentate, non volevano essere parte del blocco sovietico. Ricordiamo la Conferenza di Bandung del 1955, in cui Tito per la Jugoslavia, Nasser per l’Egitto, e Nehru per l’India cercarono di creare un movimento di Paesi non allineati, una sorta di terza forza estranea ai due blocchi della Guerra Fredda. Questo è stato un momento cruciale che ha aiutato il mondo arabo a liberarsi fisicamente dal colonialismo e dall’imperialismo, anche se, come abbiamo poi visto con le Primavere Arabe, non si intendeva una piena liberazione della popolazione, ma solo della terra.

Il secondo momento cruciale è stato nel 1956, quando Israele si unì a Francia e Inghilterra in un tentativo militare di deporre Nasser, che non ebbe successo. È importante perché almeno una guerra antimperialista, come avvenne anche nel 1962 in Algeria, fosse vinta dalle forze locali. Fu molto importante per la fiducia che infuse in alcuni movimenti di liberazione degli anni ‘60 e ‘70 per continuare la decolonizzazione del mondo arabo.

Infine, un momento importante dal punto di vista palestinese fu l’imposizione della legge militare negli anni Cinquanta sui palestinesi all’interno di Israele da una parte e dall’altra la rinascita del nazionalismo palestinese e del movimento nazionale di liberazione nei campi di profughi. In molti modi, ci sono stati eventi nel calendario del mondo arabo e palestinese in particolare che sono avvenuti durante la Guerra Fredda ma che non sono sempre stati collegati strettamente ad essa.

Poi, è interessante ricordare come, negli anni Cinquanta, secolarismo, religione e tradizione coesistessero molto bene nella società. E sarà interessante capire se questo tipo di multiculturalismo arabo potrà essere riprodotto in futuro.   

 

L’intervista a Ilan Pappè prosegue nel sito di Mosaico di pace, nella rubrica “Mosaiconline”. È tratta da una lunga conversazione tra Ilan Pappè e Franco Dinelli e non è rivista dall’autore.

 

 

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Ilan Pappè

È uno storico israeliano, ebreo e antisionista. Professore nel Dipartimento di Storia dell’Università di Exeter (Regno Unito) e co-direttore del suo Centro per gli Studi etno-politici, ha fondato e guidato l’Istituto per la Pace a Givat Haviva (Israele) fra il 1992 e il 2000, e ha ricoperto la cattedra dell’Istituto Emil Touma per gli Studi Palestinesi di Haifa (2000-2008). Autore di numerosi libri, tra cui il recente La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina, Roma, Fazi Editore, 2025.

 

 

 


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