Gli esseri umani che vengono stipati nelle nostre patrie galere, mai come in questi mesi, hanno sentito profondamente il senso di inutilità e vuoto esistenziale che si è determinato dalla mancanza di attenzione e responsabilità loro assegnate attraverso questa distanza, il loro essere vite a perdere per una società che non è in grado di integrare, soprattutto non coloro che hanno il torto di essere soprattutto poveri.

Grande è il baratro dell’assurdità del carcere, con la sua strutturale impossibilità a garantire quel distanziamento sociale necessario ad evitare il rischio di contagio tra detenuti, personale che vi lavora e dunque collettività esterna. In queste condizioni il virus da cui difendersi è stato il carcere stesso più che il Covid e la sensazione emersa è stata quella di soddisfare il bisogno di sapere che c'è qualcuno che soffre più di noi. Una volta di più l'opinione pubblica è stata privata di un'autentica conoscenza di quali siano le reali condizioni di povertà, di privazione, di sofferenza e dolore in cui versano le persone recluse e dunque privata della possibilità di per-donare. La vulnerabilità sociale e la mancanza di risorse, per chi è ristretto nelle carceri italiane, è l’elemento caratterizzante della distanza che li separa dal resto della società, del disinteresse o peggio dell’odio nei loro confronti da parte dei liberi che non hanno nessuna predisposizione ad approfondire la questione. La prigione umilia, annulla, stigmatizza e impone il dolore, la sofferenza, è crudeltà, crea la mancanza di responsabilità verso il proprio comportamento e aumenta la pericolosità di tutti coloro che vi transitano, che diventano a loro volta moltiplicatori irreversibili e potenziali della violenza ricevuta. Il carcere ha una funzione falsa e ideologica perché finge di controllare, evitare e prevenire i reati, mentre li produce e riproduce, con l’aggravante di organizzare scientemente con pretesa fondatezza ed efficacia un’istituzione sostanzialmente improduttiva, se non controproducente, in cui i diritti fondamentali dei suoi ospiti sono pressoché violati.
Ciò si è particolarmente evidenziato in occasione dell’emergenza pandemica, in cui il concorrere della limitatezza delle disposizioni di legge finalizzate a ridurre il numero dei reclusi e delle ristrettezze dei contatti con l’esterno, col pretesto di evitare il contagio, hanno confermato il prevalere di una cultura punitiva e discriminatoria, che disconoscendo di fatto il criterio del distanziamento sociale, si è imposta sul valore stesso della tutela della salute e della vita delle persone recluse.
Il carcere evoca l’annientamento del criminale che spaventa e fa passare il messaggio che quelli in libertà sono onesti innocenti mentre quelli imprigionati sono certamente colpevoli. Questo vale soprattutto per gli extracomunitari e i poveri che sono i più arrestati rispetto al resto della popolazione, al punto che produce sulla gente la convinzione che sono coloro che commettono più crimini. Il carcere è considerato come un male necessario, agli occhi di un’opinione pubblica disinformata e inconsapevole, quando si può ben comprendere che provoca più problemi di quanti ne risolve. Sembra non possa esserci alternativa ad esso, mentre è sensato pensare alla sua abolizione. L’abolizione della prigione non è un’utopia. Il carcere è barbarie e i percorsi di sofferenza che produce sono evidenti e dannosi non solo per i soggetti coinvolti ma anche per la società. Continuare a sostenere il sistema carcerario significa in fondo autorizzare la pratica della cattiveria di Stato, con l’imposizione del dolore e della sofferenza ai ristretti. Non vi è alcun motivo di credere che lo spettro della prigione ridurrà la criminalità, è pertanto assurdo ritardare la ricerca di una soluzione di non carcere e questa situazione emergenziale per tutti, fuorché per i ristretti, lo evidenzia ancora maggiormente.
È possibile vivere in un mondo migliore, invece di reprimere è più utile, sicuro e degno investire in politiche pubbliche per ridurre le diseguaglianze sociali. Ma è necessario buona volontà e un atto rivoluzionario per eliminare le prigioni di Stato con le loro torture.
Abolire il carcere significa scegliere percorsi di pace per ridare dignità alle persone che commettono reati, ridurre la sofferenza e la vendetta di questi luoghi disumani che alimentano solo l’odio, ridare ai condannati la responsabilità per quanto hanno commesso affinché possano essere messi in grado di produrre gesti di restituzione del danno e di riconciliazione. Solo se saremo capaci di abolire il carcere la repubblica Italiana tornerà, almeno per questo verso, ad essere uno Stato di diritto.

Livio Ferrari è portavoce “Movimento No Prison”