Sono profondamente grato alle realtà impegnate per pace, disarmo e antimilitarismo che si sono raggruppate per creare questa rete antimilitarista campana. E sono contento che tutti abbiano collaborato a preparare questo documento utile a una seria informazione sulla crescente militarizzazione e sul complesso “militar-industriale” imperante.

Questo nostro “Sistema” permette al 10% della popolazione mondiale di consumare il 90% dei beni prodotti: un mondo dove i pochi ricchi diventano straricchi a spese di miliardi di impoveriti. Secondo i dati dell’ONU, due miliardi di persone soffrono di insicurezza alimentare e 690 milioni in forma severa. Per la pandemia Covid-19 avremo altri 250 milioni di impoveriti in più e raddoppieranno quelli assistiti dal Programma alimentare mondiale. Duemila super ricchi detengono una ricchezza superiore a quella posseduta da 4,5 miliardi di impoveriti e 3,8 miliardi di questi ultimi devono accontentarsi dell’1% della ricchezza.
È chiaro che sarebbe impossibile per i ricchi continuare ad ammassare ricchezze e a vivere da nababbi, se non fosse per lo strapotere delle armi che possiedono. Basta leggere i dati SIPRI per rendersene conto: nel 2019 a livello mondiale i ricchi hanno speso in armi 1.917 miliardi di dollari, pari a quattro milioni di dollari al minuto. Un piccolo paese come il nostro, lo scorso anno ha speso 27 miliardi di euro, pari a 72 milioni di euro al giorno. Queste armi servono a difendere gli “interessi vitali” di chi ha. È quanto afferma anche il nostro Libro Bianco della Difesa. Ecco perché facciamo le guerre. Un esempio è la guerra in Congo (1996-99) con quattro milioni di morti. Una guerra che continua ora per l’accaparramento della sua ricchezza mineraria (coltan, cobalto…).
Ma in questo folle scenario è la Bomba atomica, la Regina del terrore, che domina questo immenso arsenale di morte. Gli USA detengono 1.920 testate nucleari pronte al lancio, la Russia 1.600, sufficienti a distruggere il Pianeta. Negli anni Novanta il presidente Bush senior ha detto: “Lo stile di vita del popolo americano non è negoziabile”. E se il nostro stile di vita non è negoziabile, non ci rimane che armarci fino ai denti e fare guerre. Se tutti gli uomini e le donne del mondo volessero vivere come vive oggi il 10% del mondo, avremmo bisogno di due o tre pianeti per poterlo fare: questo perché allo stile di vita del 10%, dobbiamo aggiungere il peso delle armi e delle guerre sul Pianeta. Purtroppo, quanto le armi pesino sull’Eco-Sistema è poco analizzato. Basterebbe notare che l’istituzione americana che consuma più petrolio è il Pentagono.
È incredibile quanto pesino le armi, le guerre, le sperimentazioni atomiche sull’ambiente. Il Pianeta oggi non sopporta più il peso di questo iniquo Sistema economico-finanziario-militarizzato. La spaventosa crisi ecologica e ambientale che ci sovrasta ne è la conseguenza. Gli scienziati ci danno dieci anni per salvarci: entro il 2030 dobbiamo essere capaci di ridurre di almeno il 50% l’uso di carbone e petrolio. Questo Sistema uccide per fame (almeno trenta milioni di persone all’anno), uccide milioni per guerra e soffoca il Pianeta. Ormai tutto è interconnesso: economia, finanza, armi, ambiente.
Se vogliamo salvarci dobbiamo prendere coscienza della gravità della situazione, unirci ad altri per fare pressione sui governi affinché cambino rotta. Noi invitiamo i cittadini, ma soprattutto comuni, scuole e chiese a disinvestire, cioè a togliere i soldi da quelle banche che investono in armi (vedi campagna Banche Armate) e nei fossili (petrolio e carbone). Se davvero tante realtà lo facessero, potremmo mettere in crisi questo Sistema. Impegniamoci tutti perché la vita vinca.
Alex Zanotelli

PARLARE DI ANTIMILITARISMO IN TEMPO DI COVID
Sembrerebbe fuori luogo, in tempo di Covid, polarizzare l’attenzione sul militarismo, le guerre, le armi. Ma noi pensiamo che le pandemie come questa e il militarismo siano strettamente legati; non solo perché, mentre per decenni gli stanziamenti per scuola, sanità e servizi sociali pubblici sono stati tagliati, le spese militari, viceversa, sono state aumentate in termini di armamenti, installazioni militari, missioni militari all’estero e ricerca militare, ma soprattutto per come la gestione della pandemia è stata trasformata in corso d’opera in un grande esperimento di disciplinamento sociale e di legittimazione/valorizzazione dell’apparato militare.
I media ufficiali, attraverso i cosiddetti esperti, fin dall’inizio, hanno moltiplicato ipotesi, spiegazioni, descrizioni della realtà ed interpretazioni dei dati, seminando confusione e accreditando presso l’opinione pubblica l’imprevedibilità di un’emergenza nata altrove. In realtà, come sempre più epidemiologi, biologi, ecologi delle malattie mettono in evidenza, i nuovi pericoli per la salute umana originano dal predatorio rapporto con la natura.
Gli ambienti selvatici si stanno sempre più restringendo a causa della deforestazione, dell’urbanizzazione incontrollata, di inutili grandi opere infrastrutturali. Lo sfruttamento indiscriminato di risorse naturali, dominato da un capitalismo sfrenato e privo di scrupoli, ha violato qualsiasi criterio di eco-compatibilità e ha di fatto reso insufficienti le possibilità della natura di sostenere questa aggressione, mettendo in crisi gli equilibri ambientali vitali, con effetti di dissesto, desertificazione e cambiamenti climatici, con conseguenze anche sulla diffusione di nuovi patogeni virali.
Sfruttando e mettendo a valore le aree più remote del mondo, trasformando interi Paesi in fornitori di un unico prodotto, annullando e distruggendo la biodiversità, l’agroindustria costituisce di fatto il vero acceleratore di questo processo e nello stesso tempo, attraverso le catene di approvvigionamento, il veicolo che permette a questi patogeni di migrare da aree remote alle grandi metropoli. Infatti, l’aumento di colture di OGM, troppo spesso imposte nei Paesi della periferia del mondo, attraverso il ricatto delle organizzazioni internazionali prone alle grandi multinazionali dell’agroindustria, rimuove tutte le barriere immunitarie che l’ampia biodiversità ha garantito per millenni.
Lo stesso dicasi degli allevamenti intensivi. Qui a favorire la trasmissione e la frequente ricorrenza delle infezioni non sono solo gli alti numeri e le condizioni di affollamento imposte agli animali, ma i genomi pressoché identici come risultato di una produzione industriale che, puntando a ridurre i tempi del ciclo produttivo/riproduttivo, elimina del tutto la riproduzione naturale e con essa anche quella selezione naturale che fortifica e protegge dalle malattie. Non è un caso che il Covid-19 abbia dimostrato tutta la sua virulenza nei centri di lavorazione delle carni, trasformatisi in focolai dell’infezione.
È la mercificazione della natura e lo sfruttamento d’ogni suo aspetto per ottenerne profitto a creare il brodo di coltura ideale per nuovi virus e batteri. Basterebbe questo a dimostrare l’urgenza di aprire uno scontro con questo sistema per superarlo e, finalmente, riconnettere l’umanità alla natura e ai cicli di rigenerazione del pianeta.
Ma c’è un altro elemento preoccupante di cui tener conto. La rivoluzione della ricerca nel campo del DNA ha fornito agli scienziati gli strumenti per la manipolazione della genetica. Questo straordinario sconvolgimento ha segnato anche le sorti della biologia come arma di guerra. Nel 1972 era stata firmata, su proposta di Londra e Washington, la Convenzione internazionale (Biological Weapons Convention) per la messa al bando delle armi batteriologiche. A distanza di pochi anni, la manipolazione genetica, potendo trasformare innocui microrganismi in armi letali, mostrò tutta la potenzialità di questo settore. L’Agenzia per i progetti di ricerca avanzata per la difesa DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency), l’Istituto di ricerca medica sulle malattie infettive dell’esercito degli Stati Uniti (USAMRIID), la Defense Threat Reduction Agency (DTRA) del Pentagono e i loro omologhi nelle altre grandi potenze sono stati in prima fila nell’elaborare e nel finanziare le Big Pharma e le Bio-tech su progetti sempre più avanzati: la creazione di supersoldati, l’uso di virus in grado di modificare la chimica del cervello umano, nuovi super virus in grado di annientare una specifica etnia o vaccini a base di RNA e DNA.
Ma questo intreccio tra civile e militare, tra strutture della difesa ed industrie farmaceutiche e tra questi e le Università rende opaco ciò che accade nelle decine e decine di laboratori sparsi in tutto il pianeta. Diventa centrale, quindi, denunciare, alla luce anche dell’attuale pandemia, queste attività e chiedere, come in molti hanno cominciato a fare in particolare nell’Est Europa, la chiusura dei laboratori militari o strettamente legati al settore militare. Questa per noi dovrebbe essere una priorità. L’Italia, infatti, oltre ai già notevoli intrecci della ricerca universitaria con l’industria di armamenti, ospita da dicembre 2019 i comandi del Naval Medical Research Unit N.3 (NAMRU-3), trasferiti dal Cairo (Egitto) a Sigonella, a cui il Pentagono affida ricerche e sperimentazioni su virus, batteri, vaccini e farmaci antivirali.
Abbiamo registrato in questi mesi un’enfasi senza precedenti per legittimare l’uso dell’apparato militare nella “guerra contro il Covid” e per incrementare il consenso verso una ulteriore penetrazione del militarismo nella vita civile. La gestione di questa crisi, descritta sin dall’inizio come uno scontro bellico, è stata usata, molto di più che in passato, per riaffermare il ruolo insostituibile e risolutivo dei militari ed avallare il volto umano e positivo delle Forze armate il cui unico scopo sarebbe servire i cittadini e la patria tanto nei confini nazionali che fuori di essi. In Italia e nel mondo la pandemia non è solo un’emergenza sanitaria, è anche un’emergenza economica e sociale. La pandemia ha colpito molto più duramente i lavoratori che le imprese, anzi, i giganti del digitale hanno realizzato utili vertiginosi. In particolare nei grandi Paesi la pandemia, acuendo una crisi economica già pesante e aumentando il rischio di scontri sociali interni, ha dato impulso al rafforzamento delle spese in sicurezza e armamenti.
La produzione di armamenti, quindi, peserà percentualmente ancora di più nell’economia mondiale. Ma quanto più le maggiori potenze s’impegneranno a far girare l’industria bellica, maggiori saranno i pericoli di conflitti. Le tensioni tra gli stati stanno aumentando mentre non si fermano le guerre già in atto. Ma se le guerre non si fermano, non si deve nemmeno fermare l’opposizione ad esse e agli scontri militari anche generalizzati cui potrebbero portarci le crescenti tensioni politiche, economiche e commerciali.

DEVASTAZIONE AMBIENTALE E MILITARIZZAZIONE
Sono di per sé evidenti gli effetti distruttivi della guerra per gli esseri umani. La morte arriva dal cielo, senza risparmiare civili inermi, ospedali, scuole e infrastrutture primarie; le mine e le bombe inesplose continuano a mietere vittime anche a distanza di tempo, soprattutto tra i bambini e i contadini; territori precedentemente abitati e vitali vengono desertificati e resi sterili dalle armi di distruzione di massa. Si pensi solo agli effetti devastanti di sostanze quali l’uranio impoverito o il fosforo bianco. Si pensi poi alle armi nucleari, che hanno inquinato - per colpa delle devastanti sperimentazioni nei luoghi desertici, nei sottosuoli e negli oceani - ancor prima di esplodere nei teatri di guerra e che perpetuano la loro capacità distruttiva anche attraverso le scorie radioattive, consegnando altra morte alle generazioni a venire.
Meno conosciuti sono gli effetti devastanti della guerra e degli apparati militari sull’ambiente naturale e sull’integrità degli ecosistemi. L’ultimo attacco a un oleodotto in Arabia Saudita ci ha brutalmente ricordato i pozzi petroliferi kuwaitiani e iracheni in fiamme per mesi e il loro pesante impatto sulla salute del pianeta. Ma c’è ben altro. Il solo consumo di carburante nelle guerre Usa «antiterrorismo», dal 2011 al 2017, è costato in termini di emissioni ben 1,2 miliardi tonnellate di gas serra. Si tratta comunque di stime che non comprendono la produzione di armi, né l’impatto sul clima e sull’ambiente delle distruzioni massicce di infrastrutture, case, servizi da ricostruire, utilizzando altre tonnellate di cemento (produzioni molto energivore), combustibili per i macchinari, etc.
La devastazione ambientale provocata dalle attività militari interessa anche molti paesi non coinvolti direttamente in attività belliche. I fenomeni più comuni sono l’occupazione e militarizzazione di vasti territori, sottraendoli alle attività agricole e produttive; la contaminazione da metalli pesanti dei terreni impiegati come poligoni di tiro; l’inquinamento delle falde acquifere, ma anche quello elettroacustico ed elettromagnetico connesso alle attività svolte nelle basi aeree, sottratte di fatto a controlli e monitoraggi; la minaccia alla sicurezza e salute degli abitanti di città nelle cui aree portuali cui si consentono impunemente il transito e l’ormeggio di natanti militari a propulsione nucleare…
Non sottovalutiamo, poi, l’impatto ambientale delle attività dei laboratori di ricerca collegati al complesso militare-industriale. Sono infatti trapelate dichiarazioni di responsabili militari che vantano la capacità di saper manipolare il clima e i terremoti a scopo bellico. Modificare artificialmente il clima o sollecitare eruzioni e terremoti potrebbe diventare la nuova frontiera della guerra, rivolta contro specifici territori ma nei fatti contro l’intero pianeta, non essendo prevedibili tutti gli effetti collaterali – climatici ed ecologici - di tali manipolazioni. La stessa piaga delle pandemie, infine, sta suscitando preoccupanti interrogativi sulle possibili connessioni con le mai interrotte ricerche di laboratori militari di vari paesi sull’utilizzo bellico di fattori chimici, batteriologici, virali e tossici, peraltro interdetto da risoluzioni dall’ONU approvate dagli anni ’70 ai ’90.
La ricerca scientifica richiede trasparenza e informazione adeguata e mal si concilia con le attività connesse ai laboratori militari, sottratte a controlli sanitari ed ambientali ed avvolte da una nube di sospetta segretezza su fini, metodi e risultati di quel genere di ricerche. Alla crescente attenzione per le conseguenze della crisi climatica, pertanto, va aggiunta quella per il livello di tossicità degli apparati militari. Essi costituiscono una minaccia prima ancora di diventare macchine distruttive. Da tale consapevolezza nasce l’appello agli attivisti del movimento ambientalista a confrontarsi e interagire con esponenti del movimento contro la guerra, per denunciare insieme l’industria bellica e gli apparati militari, basate sulla violenza e sul disprezzo per l’uomo e l’ambiente naturale da cui dipende. La guerra ha sempre significato morte, distruzione e devastazione. Ma ora siamo giunti a un punto di non ritorno, con la minaccia di una tragedia nucleare e con l’utilizzo di tecnologie belliche sempre più insidiose, incontrollabili e micidiali. La guerra, dunque, non impatta solo sulle società e sull’economia, ma sull’intero ecosistema terrestre, minacciandone la preziosa biodiversità, alterando e modificando irreversibilmente i fragili equilibri della biosfera.
L’ambiente è la vittima dimenticata della guerra e la natura è diventata essa stessa “un campo di battaglia”. Un capitalismo vorace ed aggressivo, infatti, vede la natura come gratuito capitale da mettere a valore per produrre profitti. Fiumi, mare, risorse minerarie, vengono sfruttati depauperando Paesi e rapinando i popoli delle loro risorse. Mai come in questo sistema economico, i beni della natura sono diventati un oggetto di scontro tra contendenti, per il loro accaparramento. Uno scontro che si trasforma sempre più in conflitto armato quanto più le risorse si riducono, quanto più la natura è impossibilitata a recuperare i disastri commessi dall’uomo. Che si tratti di petrolio, di risorse idriche, di terra o foreste, e persino di vite umane, la volontà di mettere le mani su queste risorse accelera i conflitti i cui effetti sono l’ulteriore distruzione e pauperizzazione della natura.
Militarismo e guerre sono un vero “cappio al collo” del Pianeta, che da tempo alimenta un tremendo circolo vizioso. È arrivato il momento di spezzarlo con un’azione congiunta – ecopacifista - degli antimilitaristi e degli ambientalisti, iniziando col farla finita con le guerre per i combustibili fossili e con l’uso dei combustibili fossili per fare le guerre.

NON UN EURO, NON UNA VITA PER LA GUERRA!
La pandemia ci ha messi di fronte alla devastazione ambientale, al disastro dei servizi sociali, alle diseguaglianze e alla povertà. A pagare il prezzo più alto, sia sul piano della salute che delle condizioni di vita, della pandemia e della crisi economica, inasprita dai lockdown imposti dai governi, sono stati gli strati sociali più poveri e sfruttati delle popolazioni ed in particolare le donne. Ma, con il protrarsi delle misure di chiusura di esercizi e popolazione, sempre più drammaticamente sono coinvolti ampi strati di piccola borghesia relativamente autonoma. Studi dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) affermano che si sono persi più di 400 milioni di impieghi e che più di “1,6 miliardi di lavoratori dell’economia informale (che rappresentano i più vulnerabili sul mercato del lavoro), su un totale mondiale di due miliardi e una forza lavoro globale di 3,3 miliardi, hanno subito danni enormi alla loro capacità di guadagnarsi da vivere”.
Tutta colpa del COVID-SARS2? Questo vogliono farci credere per occultare le vere cause di tale disastro ed i suoi veri responsabili. L’incapacità dei sistemi sanitari di affrontare questa emergenza è solo una delle conseguenze delle politiche economiche, incentrate sui tagli delle spese sociali, ritenute improduttive per la creazione di profitti, delle privatizzazioni dei servizi, dei diktat imposti dalle istituzioni internazionali (FMI, Banca Mondiale, ecc.) ai Paesi del cosiddetto Terzo mondo.
Secondo i dati dell'Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma (SIPRI), la spesa militare mondiale è salita a 1.917 miliardi di dollari nel 2019, pari al 2,2 % del prodotto interno lordo globale (PIL). Un aumento del 3,6% rispetto al 2018 e la più grande crescita annuale della spesa dal 2010. Il solo bilancio militare della Nato (29 stati membri) arriva a 1.035 miliardi di dollari, cioè il 54% della spesa militare globale.
Domandiamoci, allora, quanto sarebbe stato efficiente il sistema sanitario italiano, quanti morti avremmo potuto evitare, come avremmo meglio affrontato il lockdown se l’Italia invece di spendere miliardi in armamenti e missioni militari avesse impiegato quelle risorse nella sanità, nella scuola e per garantire i senza lavoro?
In diciotto anni, il finanziamento del Sistema sanitario nazionale italiano è passato dal 7% del Prodotto interno lordo nel 2001 al 6,6% nel 2019. Secondo i dati elaborati dalla Fondazione Gimbe, negli anni 2010-2019 alla sanità pubblica sono stati sottratti oltre 37 miliardi di euro. Anche il numero dei posti letto, come il numero di ospedali, è crollato negli ultimi decenni. Nel 1998 erano circa 311 mila, nel 2007 circa 225 mila e nel 2017, ultimo dato disponibile, erano circa 191 mila. In rapporto al numero di abitanti, siamo cioè passati da 5,8 posti letto ogni 1000 abitanti del 1998, a 3,2 nel 2017. Dimezzati anche i posti letto di terapia intensiva ridotti a soli 5.090 (8,42 per 100.000 abitanti, quindi 0,00842 ogni 1.000 persone). A completare il quadro ci sono i dati sul personale: tra il 2009 e il 2017 la sanità pubblica nazionale ha perso più di 46 mila unità di personale dipendente. Oltre 8.000 medici e più di 13 mila infermieri, secondo la Ragioneria di Stato.
Mentre la sanità pubblica veniva falcidiata in questo modo, la spesa militare italiana invece ha continuato ad aumentare. Se oltre ai bilanci della Difesa consideriamo le voci ad essa riconducibili ma collocate in altri capitoli del bilancio dello Stato, la spesa militare del nostro Paese risulta aumentata del 9,9% tra il 2015 e il 2018. Nel 2019 l’Italia, collocandosi al 12° posto nella classifica mondiale, ha impegnato 25 miliardi di euro (1,4% del suo PIL) per la spesa militare, in crescita dello 0,8% rispetto all’anno precedente. Nel 2020, stando ai bilanci preventivi, la spesa militare italiana ha visto un ulteriore aumento del 6,4% portandosi a 26,5 miliardi. Solo per l’acquisto di nuove armi i fondi a disposizione sono arrivati all’importante cifra di quasi 6 miliardi.
Questa tendenza all’aumento annuale della spesa militare viene confermata anche in piena pandemia. La manovra finanziaria per il 2021 appena varata dal governo ha, infatti, destinato al bilancio della difesa ben 24,5 miliardi di euro (+ 6,9% sul 2020). Di questi circa 4,3 miliardi dedicati all’ammodernamento e al rinnovo dello strumento militare. Un importo enorme che, sommato agli oltre 3 miliardi destinati dal Ministero dello Sviluppo Economico all’innovazione nel settore militare, porta il budget per l’acquisto di missili, carri armati, portaerei, fregate, ecc. al livello record di 7,4 miliardi di euro. A questi vanno aggiunti gli stanziamenti pluriennali già varati, come ad esempio quello di 14 miliardi per l’acquisto degli F35 e quelli destinati agli armamenti (35,4 miliardi) del Fondo Investimenti 2017-2034.
Come se non bastasse, anche per il 2021 il governo ha deliberato i fondi per le missioni militari italiane all’estero. Quasi 1,5 miliardi, stanziati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), per finanziare il rinnovo delle quarantuno missioni in atto (quarantasette se si comprendono anche le missioni di polizia, cosiddette “civili”, di cooperazione ecc.) con un impegno complessivo di 8.613 militari. Sommando gli stanziamenti a bilancio e considerando altre voci di spesa in capo ad altri ministeri o derivanti da accordi internazionali la spesa militare italiana nel 2021 potrebbe superare i 30 miliardi di euro, circa 82 milioni di euro al giorno!
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), approvato il 12 gennaio dal CdM, individua 6 aree di intervento i cui progetti saranno finanziati non solo dalla cifra astronomica di 222,9 miliardi di euro del Next Generation EU (209,9 miliardi del Recovery Fund + React-Eu + anticipo di fondi per coesione e sviluppo) ma anche dalle risorse nazionali previste dalla Programmazione di Bilancio 2021-26 (79,81 miliardi).
Dando una scorsa alle tabelle di sintesi degli obiettivi e delle risorse del PNRR, si evidenzia che un’ampia fetta dei fondi andrà al complesso militare industriale. Infatti, sebbene tra le misure non vi sia nessun chiaro riferimento al settore Difesa, ben 236 milioni dei fondi del NGEU sono esplicitamente indirizzati ad essa. A questi si aggiungono gli stanziamenti previsti dal QFP 2021-2027 pari a 1,635 mld. Analizzando le singole misure emerge che dentro gli ampi obiettivi, apparentemente innocui se non auspicabili, compaiono linee d’intervento dalla doppia ricaduta civile-militare o direttamente indirizzate al potenziamento della filiera dell’aerospazio, della difesa e della sicurezza. Questo è quanto mai evidente nelle misure 1 (Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura) e 2 (Rivoluzione verde e transizione ecologica), a cui andrà la fetta più grande della torta del Recovery (rispettivamente 46,18 e 68,90 miliardi). Infatti, le linee di intervento dirette alla digitalizzazione della PA, alla transizione verso l’industria 4.0, all’innovazione e digitalizzazione delle PMI, alle politiche industriali di filiera, ecc., hanno l’obiettivo di finanziare lo sviluppo e l’espansione di tecnologie in campi strategici per loro stessa natura dual use militare-civile. Si vedano, ad esempio, gli 1,25 mld destinati a Infrastrutture digitali e cyber security, che consentiranno di rafforzare la sicurezza delle reti e la sovranità dei dati archiviati. In questo processo sarà coinvolto anche il comparto difesa. Oltre alla realizzazione delle reti ultraveloci in fibra ottica (a cui è particolarmente interessata la Difesa per ammodernare la Rete Interforze (RIFON) e la cyber defense), allo sviluppo del G5 (anche per la difesa), a interventi in materia di tracciamento e di telecomunicazioni satellitari, i fondi serviranno a finanziare sia il lancio di una costellazione satellitare (5G space-based).
Per quanto riguarda la misura 2 (Rivoluzione verde e transizione ecologica), non possiamo non constatare le ricadute militari di parte degli interventi. Ci riferiamo agli investimenti sull’energia rinnovabile (8,6 mld) ed in particolare per la ricerca nel campo dell’idrogeno (sperimentazione e realizzazione di prototipi per l’industrializzazione dei processi innovativi, produzione e filiera dell’idrogeno) (2 mld). Rilevanti anche gli 11,7 mld destinati dal PNRR alla misura “Istruzione e ricerca”. Risaltano in particolar modo gli investimenti per il potenziamento delle strutture di ricerca e la creazione di 7 centri per una rete nazionale di R&S su tecnologie abilitanti. In altre parole il consolidamento del ruolo delle Università italiane nella ricerca e nel trasferimento di innovazione anche al settore industriale-militare con e per il quale operano in sinergia già da troppo tempo. Ci è impossibile quantificare, ad eccezione dei 1,871 mld esplicitamente destinati, quanto dei 209 miliardi del Recovery Fund e degli altri stanziamenti europei si tradurranno in spesa militare diretta e indiretta, ma è evidente che una fetta consistente di essi rafforzerà il nostro apparato bellico.
Viceversa, solo 19,72 miliardi sono stati destinati al comparto sanità. Di questi, 7,9 mld andranno all’assistenza territoriale (case comunità, presidi a degenza temporanea, assistenza domiciliare): una miseria se si considerano gli appelli fatti in questo periodo da politici e scienziati per una sua estensione. Dei restanti 11,82 mld, la gran parte vanno alla digitalizzazione, alla formazione, alla ricerca e all’acquisto di 2.648 apparecchiature sanitarie. Alla voce ospedali sono destinati 5,60 mld (di cui 3,30 sono progetti già in essere) finalizzati ai soli interventi in materia di antisismica ed efficientamento energetico; dunque nemmeno un euro per il rafforzamento della rete ospedaliera e del personale di cui ci sarebbe bisogno. Invertire questa tendenza è necessario e possibile: schierandoci a difesa della nostra vita e dei nostri inconciliabili interessi; rifiutandoci di essere complici delle politiche guerrafondaie e di rapina.

LA VENDITA DI ARMAMENTI
I dati pubblicati dal SIPRI (Rapporto sull’industria delle armi, presentato a dicembre 2020), ci dicono che le vendite di armi e servizi militari, da parte delle 25 società più grandi del settore, hanno totalizzato 361 miliardi di dollari nel 2019, l'8,5% in più rispetto al 2018. A dominare il settore ci sono gli USA che, con 12 aziende in classifica, rappresentano il 61% delle vendite complessive di armi delle prime 25. Segue la Cina i cui 4 colossi, con il 16%, rappresentano la seconda quota più grande. Le sei aziende europee presenti in classifica coprono il 18% delle vendite. Tra queste l’italiana Leonardo, in dodicesima posizione, che con 11,1 miliardi (+18%) ha superato il colosso franco-tedesco Airbus. Le due compagnie russe, le cui vendite diminuiscono, soddisfano il 3,9%. Il restante 1,3% è coperto dalla società EDGE degli Emirati Arabi, che segna l’ingresso nella top per la prima volta di un'azienda mediorientale. È, infatti, verso questa regione che va il grosso delle esportazioni mondiali di armi; esportazioni che nel quinquennio 2015-2019 sono aumentate del 5,5% rispetto al 2010-2014. I maggiori esportatori di armi negli ultimi cinque anni sono stati: USA, Russia, Francia, Germania e Cina.
Le esportazioni dagli Stati Uniti sono aumentate del 23%, portando la loro quota sul totale delle esportazioni mondiali di armi al 36% (del 76% superiori a quelle del secondo esportatore al mondo, la Russia). Quelle francesi, che hanno beneficiato della domanda di armi in Egitto, Qatar e India, hanno raggiunto il livello più alto dal 1990: 7,9% delle esportazioni globali di armi, con un aumento del 72% rispetto al 2010-2014.
Negli ultimi 5 anni, mentre sono diminuite le esportazioni di armi russe (-18%), sono cresciute quelle della Germania (+17%); della Cina che si colloca al quinto posto tra i maggiori esportatori di armi; della Corea del Sud (+143%), entrata per la prima volta nella lista dei primi 10 maggiori esportatori; di Israele (+77%), al livello più alto mai raggiunto.
Le armi fluiscono verso i paesi in conflitto. Le grandi potenze, mentre dicono di voler costruire la pace, inondano di armi proprio quelle aree, come il Medio Oriente, che hanno contribuito a devastare con la guerra.
Le importazioni di armi da parte dei paesi del Medio Oriente sono infatti aumentate del 61% tra il 2010-14 e il 2015-19 e hanno rappresentato il 35% delle importazioni globali di armi totali negli ultimi cinque anni. L'Arabia Saudita è stata il più grande importatore di armi al mondo nel 2015-19. Le sue importazioni, aumentate del 130% rispetto al quinquennio precedente, hanno rappresentato il 12% delle importazioni mondiali di armi nel 2015-19. Nonostante l’intervento militare nello Yemen, hanno continuato a esportare armi in Arabia Saudita sia gli Stati Uniti che il Regno Unito coprendo rispettivamente il 73% ed il 13% delle sue importazioni di armi. Nell’area seguono: l’Egitto, che ha triplicato le importazioni di armi tra il 2010-14 e il 2015-19 diventando il terzo importatore di armi al mondo (5,8% dell’import globale); gli Emirati Arabi Uniti, che con il 3,4% delle importazioni globali si sono piazzati all’ottavo posto (due terzi delle importazioni sono venute dagli Stati Uniti ma nel 2019 hanno stretto importanti accordi altri paesi); il Qatar e l’Iraq, entrambi con una quota del 3,4%.
Fuori dal Medio Oriente spicca il secondo posto tra i maggiori importatori dell’India (9,2% delle importazioni globali) e l’aumento nel 2015-19 delle importazioni di armi sia da parte dell’Armenia che dall’Azerbaigian, i cui effetti sono stati evidenti nei recenti scontri. La Russia ha rappresentato la quasi totalità delle importazioni di armi dell'Armenia negli ultimi cinque anni. Un totale del 60 per cento delle importazioni di armi dell'Azerbaigian proveniva da Israele e il 31 per cento dalla Russia.
L’Italia è il nono esportatore mondiale di armi e copre il 2,1% delle esportazioni globali. Durante i 30 anni di applicazione della Legge 185/90, che regola l’export militare ma che non riesce a dare conto di tutte vendite, sono state autorizzate esportazioni di armi dall’Italia per un valore di circa 100 miliardi di euro. Nell’ultimo decennio, le autorizzazioni ed il valore dell’esportazione di armi italiane sono andate crescendo in maniera decisa a prescindere dal colore del governo in carica. Ovviamente il tutto è stato motivato dalla necessità di fronteggiare la crisi economica e far ripartire il “sistema Paese” rilanciando la competitività internazionale delle aziende italiane. I conflitti in Libia, Siria, nello Yemen e le tensioni USA-Israele-Iran, agendo da catalizzatori per un’elevata richiesta di armi e munizioni per tutti i Paesi dell’area, hanno favorito le esportazioni di armi italiane verso il Medio Oriente, portandole alla cifra record di circa 19 miliardi di euro nell’ultimo quinquennio.
L’industria militare in Italia è un settore ad alto valore aggiunto per addetto, però il suo peso economico non ha come corrispettivo uguale sull’occupazione. Infatti, per ogni milione investito nell’industria bellica risultano 7 posti di lavoro, che salgono a 9,5 se l’investimento è nel settore dell’energia solare, a 15,2 fino a 19,2 nel settore dell’istruzione e a 14,2 in quello della sanità Secondo l’AIAD (Federazione aziende italiane per l’Aerospazio, Difesa e Sicurezza) il fatturato del settore vale 16,4 miliardi, ma occupa solo 45.000 addetti. Un’altra conseguenza dell’alto contenuto tecnologico dell’industria militare e la costante innovazione è la grande importanza che vi assume la ricerca. Nel 2019 il comparto ha speso 1,4 miliardi di euro (il 10% del proprio fatturato) in Ricerca e Sviluppo. La connessione con l’industria militare costituisce spesso per le Università la possibilità stessa di accedere a finanziamenti, la sua condizione. Ciò conferisce al settore dell’industria bellica una certa presa sugli atenei e la possibilità d’incidere anche sulle loro scelte di studio e ricerca.
Inoltre, nella globalizzazione economica in cui anche questo settore s’inserisce e sviluppa, fortissimi sono connessioni e scambi internazionali, per il frazionamento della produzione e la specializzazione locale in singole componenti o fasi produttive. In entrambi i casi, che non si escludono a vicenda, una commessa militare si sostiene sull’altra e genera un interesse comune per la realizzazione e il soddisfacimento di ciascuna, per cui diventa molto più difficile interrompere una certa produzione o rifiutare una fornitura.
I prodotti esportati dall’industria militare italiana sono: elicotteri militari AgustaWestland, cannoni Oto Melara, siluri Wass, missili Mbda, sistemi di controllo Selex e armi leggere Beretta, portaerei, cacciatorpediniere, fregate, corvette, pattugliatori, navi anfibie, unità di supporto logistico, navi multiruolo e da ricerca, sommergibili. Nonostante la difesa del liberismo economico, con cui si giustificano le privatizzazioni dei servizi anche essenziali e persino della sanità, ed il giudizio critico sugli aiuti di Stato, in Italia, e nel resto del mondo, il ruolo dello Stato come finanziatore e paracadute, specie in caso di crisi, e come sponsor all’estero della industria bellica del Paese è tutt’altro che marginale. In alcuni casi azienda e Stato addirittura si sovrappongono. L’intreccio sempre più stretto tra finanza e vertici militari e dell’industria bellica è ben rappresentato da quelle che sono state definite “porte girevoli” che consentono agli stessi personaggi di passare dall’uno all’altro settore. L’Aerospazio e Difesa in Italia è composto da due top player e oltre 4.000 aziende medio-piccole. Leonardo (ex Finmeccanica) e Fincantieri sono i due colossi nazionali della produzione militare, a cui bisogna aggiungere la multinazionale francese attiva in Italia e che ha tra i proprietari anche Leonardo: MBDA. La dislocazione di diverse produzioni, anche di queste stesse aziende, in paesi diversi dall’Italia, fa sì che i dati sull’esportazione di armamenti forniti nella relazione annuale al Senato, in ottemperanza della legge 185/90, non contemplino l’effettivo “contributo” italiano alla guerra nel mondo, molto più pesante di quanto questi dati suggeriscano.

LE BANCHE ARMATE
In merito infine all’attività bancaria, tutte le transazioni finanziarie in materia militare sarebbero dovute essere notificate e autorizzate dal Ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica, onde evitare “il rischio di opache triangolazioni”. La legge 185/1990 venne immediatamente percepita come una limitazione inaccettabile al pieno dispiegarsi del commercio di armi e perciò l’industria armiera ed i suoi “rappresentanti” politici hanno lavorato sin dall’inizio per smontarla pezzo dopo pezzo. Sulle pressioni pervenute dai diretti interessati a superare gli intralci imposti dalla legge e a salvaguardare la libertà operativa delle banche nel settore armi, con il decreto legislativo n. 105 del 22 giugno 2012 è stato semplificato il sistema burocratico connesso al processo autorizzativo e informativo del settore degli armamenti, approdando successivamente alla riscrittura dell’art. 27 della 185 e all’introduzione dell’art. 27bis, con i quali è scomparsa l’autorizzazione obbligatoria entro 30 giorni da parte del Ministero del Tesoro ed è diventata sufficiente da parte degli istituti bancari una comunicazione via web al Ministero dell’Economia e delle Finanze (MeF) dei trasferimenti bancari collegati a operazioni in tema di armamenti. Analogamente, tramite il meccanismo delle Licenze globali di progetti europei (che riguarda esportazioni e importazioni di materiali d’armamento nel quadro di programmi congiunti intergovernativi con società di Paesi Membri dell'UE o della NATO con i quali l'Italia abbia sottoscritto specifici accordi), si è ulteriormente aggirata la legge 185 da parte dei “mercanti di morte”. La gran parte degli istituti bancari, inizialmente preoccupati dei danni alle loro attività derivanti dall’etichettatura di “banche armate”, hanno approvato linee guida per l’operatività nel settore degli armamenti.
Nelle policy dei gruppi si ribadisce “l’impegno ad evitare il coinvolgimento in attività di finanziamento e di intermediazione di operazioni riconducibili alla produzione e al commercio di armi” (Monte dei Paschi di Siena); oppure che tale “coinvolgimento sia limitato ai Paesi che aderiscono ai più importanti trattati e convenzioni internazionali sui seguenti temi: armi nucleari, armi biologiche e chimiche, armi convenzionali, missili, armi leggere” (Unicredit); o, ancora, che si vieta “qualsiasi tipo di attività bancaria o finanziamento relativo alla produzione o alla vendita di armi vietate da trattati internazionali” (Intesa Sanpaolo). Ma nello stesso tempo molti di essi si sono riservati scappatoie come la valutazione caso per caso, oppure riservarsi di continuare a fornire servizi a società che sviluppano una parte del loro fatturato nel settore delle armi, oppure di non escludere società intere ma solo le transazioni relative alle attività connesse alle armi nucleari di una società.
Intesa Sanpaolo, ad es., esclude esplicitamente solo le armi nucleari e bandite, ma ammette transazioni e finanziamenti relativi alla produzione e al commercio di armamento in e tra Paesi appartenenti a UE e NATO e senza nemmeno “riguardo al Paese di produzione e/o provenienza del materiale di armamento, qualora l’utilizzatore finale sia un ministero o un ente governativo italiano”. Altre attività di gestione patrimoniale, compresi gli investimenti effettuati per proprio conto, gli investimenti effettuati per conto di terzi, i mandati discrezionali e i fondi gestiti passivamente, non sono coperti dalla policy. L’Unicredit dichiara esplicitamente di non rinnegare il business delle armi: “Siamo altrettanto consapevoli – si legge nella dichiarazione della policy aziendale per il settore difesa – che alcuni tipi di armi sono necessarie al perseguimento di obiettivi legittimi, accettati dalla comunità internazionale, quali le missioni di pace e la difesa nazionale”. La lista di “banche armate” è assai lunga e comprende perfino piccoli istituti, inizialmente refrattari all’adozione di un codice etico, nel cui azionariato compaiono più o meno significativamente aziende del settore militare.
Dal Rapporto 2018 “Don’t bank on the bomb” (‘Non investire nella bomba’) pubblicato da ICAN (Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari) e la ONG olandese PAX, nel periodo tra gennaio 2012 e 2018 sono state 11 le banche italiane che hanno concesso finanziamenti per 4 miliardi e 248 milioni di euro a 26 compagnie internazionali coinvolte in diverse fasi della produzione, manutenzione e modernizzazione di armi nucleari. A Intesa Sanpaolo sono stati imputati finanziamenti per un totale di 1 miliardo e 271 milioni di euro a compagnie come la Honeywell International, attiva nella produzione di combustibile e componenti per ordigni atomici, e la Northrup Grumman, coinvolta nella produzione e manutenzione del missile a testate nucleari Minuteman III. Unicredit invece avrebbe finanziato con 1 miliardo e 476 milioni di euro progetti di aziende produttrici di armi atomiche fra le quali figurano la Honeywell International, la Northrop Grumman, il gruppo Airbus e il colosso statunitense Lockheed Martin, produttore di missili nucleari e socio della joint venture AWE-ML, che dirige l’Atomic Weapons Establishment britannico, organismo che progetta e produce le testate nucleari. Al sostegno del mondo bancario al settore delle armi si aggiunge quello su scala mondiale delle compagnie assicurative e dei fondi pensione che investono in maniera più o meno diretta in attività legate al traffico di armi in zone di conflitto ed alla produzione di quelle nucleari.
Per tutto questo è importante il rilancio della Campagna di pressione contro le “Banche armate”, promossa da Nigrizia, Missione oggi e Mosaico di Pace; una campagna che dura da oltre 20 anni e che proprio nel 2020 ha presentato una serie di proposte dirette alle diocesi e alle parrocchie, alle associazioni religiose e laiche, agli Enti Locali (Regioni, Province e Comuni) e a tutti i cittadini per “richiedere agli istituti di credito di non finanziare la produzione e la commercializzazione di armamenti o, almeno, di definire delle direttive rigorose e trasparenti volte ad autoregolamentare l’attività in questo settore nell’ambito delle politiche di responsabilità sociale d’impresa”. È evidente che sia l’ipotesi di un Ministero della difesa trasformato in piazzista di armi con tanto di commissioni, sia quella di una “super banca bellica” il cui scopo è garantire la crescita infinita della spesa militare, ci pone di fronte alla necessità di contrastare non solo le banche armate, evitando di favorirne i profitti di morte, ma di spingere collettivamente al ripensamento di un sistema globale ormai al collasso, che per sostenersi non riesce a far altro che basarsi sulla produzione di armamenti, la militarizzazione, il controllo, l’oppressione, le guerre di predominio e colonizzazione, la violazione dei diritti umani; sull’accaparramento, il depauperamento e la devastazione delle risorse ambientali; sulla disuguaglianza sociale e la disparità nella distribuzione delle risorse del pianeta.

CONCLUSIONI E PRECISAZIONI
L’opuscolo “FERMIAMO LA GUERRA” - scritto collettivamente, autoprodotto e diffuso dagli ANTIMILITARISTI CAMPANI è stato chiuso il 09/02/21. I dati presentati sono, quindi, antecedenti a quella data e quindi alcuni di essi dovrebbero essere riaggiornati alla luce dell’approvazione del PNRR e dei dati del SIPRI, che ha pubblicato il nuovo rapporto sulla spesa militare mondiale e sul commercio di armi. Ma i nuovi dati non faranno che rafforzare il ragionamento che abbiamo provato a fare in questo nostro testo; e cioè che il militarismo e la guerra pervadono la nostra società, che essi sono lo strumento con cui una minoranza impone il proprio dominio sulla maggioranza dell’umanità. Sono strumenti che consumano energie, distruggono la natura, seminano morte e distruzione, assorbono risorse utilizzabili per il benessere dell’umanità intera e perciò vanno eliminati dalle nostre vite esattamente come il sistema economico che li usa per difendere i profitti di pochi.
Ciò che ci interessava mettere in evidenza è la necessità di riprendere la mobilitazione contro la guerra e il militarismo, ma anche la necessità di unire le nostre forze con quelle delle realtà che lottano contro lo sfruttamento, contro i disastri ambientali, contro il dominio delle grandi potenze su Paesi più poveri, che lottano al fianco degli immigrati e per la parità di genere.
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Antimilitaristi Campani:
Comitato BDS Campania; Comitato di lotta per la salute mentale - Napoli; Comitato Pace, Disarmo e Smilitarizzazione del Territorio - Campania;
Napoli Città di Pace; Rete campana contro la guerra e il militarismo


NdR. - Il presente ‘dossier’ è frutto della non facile riduzione a quasi la metà dell’opuscolo originale pubblicato dagli ANTIMILITARISTI CAMPANI (75 pagine formato A5), eliminando tabelle, citazioni e riferimenti bibliografici, ma cercando comunque di rispettarne l’integrità del messaggio e la coesione complessiva.
Per chi sia interessato a leggerlo nella sua interezza, l’opuscolo può essere scaricato come documento pdf dal sito: https://www.pacedisarmo.org/pacedisarmo/docs/148.pdf o può essere richiesto, come fascicolo cartaceo, all’indirizzo: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. . (Ermete Ferraro)


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