Al card. Mario Grech, segretario generale del Sinodo dei Vescovi,
Al card. Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza Episcopale Italiana,
Al card. Angelo De Donatis, vicario di Roma.

La nostra Comunità cristiana di base di san Paolo in Roma apprezza l’invito che dalle autorità vaticane e da quelle della Conferenza episcopale italiana è stato rivolto alle comunità ecclesiali affinché tutte, anche quelle marginali, possano dare il loro contributo nel cammino preparatorio del Sinodo generale, che si celebrerà nel 2023, e di quello italiano che si concluderà nel 2025.

Percorsi distinti ma, per molti aspetti, collegati. Per tale motivo noi, con questo nostro apporto, vogliamo collaborare ad ambedue perché – mutatis mutandis – quanto andremo rilevando e proponendo, nel suo piccolo, può servire, ci pare, a riflettere sui due eventi, pur con le loro differenze.
Noi riteniamo che la riforma evangelica della Chiesa cattolica romana non debba essere ricercata in sé stessa, quasi che arrivando ai risultati sperati saremmo salvi; pensiamo, invece, che l’impegno sinodale che essa affronta debba tener conto dei problemi del mondo perché solo così troverà la prospettiva giusta per cambiare radicalmente se stessa, avendo come base il messaggio dell’Evangelo. Una tale “angolazione” ci viene dalla nostra storia, della quale qui richiamiamo qualche passaggio che illumina il nostro concetto di “sinodalità”.

Una storia di emarginazione
Eletto abate del monastero benedettino di san Paolo fuori le mura in Roma nel marzo del 1964, Giovanni Franzoni, in forza di tale carica, divenne “padre” del Vaticano II e partecipò alla terza e quarta sessione di quel Concilio. Quando esso terminò, si dedicò con tutte le sue forze ad attuarlo nel monastero, nella basilica e nel territorio.
Desideroso – come aveva chiesto la costituzione conciliare Gaudium et spes – di essere attento alle gioie e alle sofferenze del mondo – “Ad extra” solidarizzò con gli operai che avevano occupato una vicina fabbrica per salvare il loro posto di lavoro; digiunò, nel 1971, per protestare contro la guerra che era scoppiata tra India e Pakistan, e nel ’72 contro quella in atto tra USA e Vietnam; scrisse una lettera aperta al capo dello Stato italiano per chiedergli di non celebrare più la Festa della Repubblica con una parata delle Forze armate; prese le difese degli obiettori di coscienza alle spese militari; propose la rinuncia al Concordato del 1929 tra Italia e Santa Sede per le evidenti anomalie giuridiche ed ecclesiali che esso aveva innescato; prese le difese dei popoli oppressi, come quello cileno o in particolare quello palestinese; si ispirò alla teologia della Liberazione, che da quel momento divenne un punto importante di riferimento della Comunità. Inoltre incoraggiò la comunità parrocchiale a prendersi cura, con lui, di alcuni ragazzi che erano stati ospiti a Santa Maria della pietà (il manicomio di Roma).
Questo atteggiamento da “samaritano” (colui che – racconta il Vangelo – si ferma per soccorrere una persona bastonata, pur non conoscendola, e solo mosso da compassione e solidarietà umana) fu l’insegnamento costante che Giovanni ci suggerì di fronte alle ingiustizie e alle sofferenze del mondo: chi segue Gesù – ci disse – e vuole testimoniare oggi l’Evangelo, deve assumere la samaritudine come fondamento del suo essere e del suo agire.
Sempre per essere fedele al Concilio, e per avviare ad attuazione la sua costituzione Lumen gentium, “Ad intra” avviò una serie di iniziative per cambiare talune strutture storiche ma non più funzionali della Chiesa romana e le sue liturgie. Partendo dal fatto che il Vaticano II aveva definito la Chiesa come “il popolo di Dio che cammina nella storia”, si adoperò perché la gente comune (i laici, insomma) che normalmente la domenica frequentava la basilica, partecipasse con lui, il sabato sera, alla preparazione dell’omelia che lui avrebbe pronunciato l’indomani alla messa di mezzogiorno. Via via l’invito fu accolto da un numero crescente di persone – donne e uomini, studenti, operai, impiegati, disoccupati, presbìteri, seminaristi, madri di famiglia – e così un centinaio di loro il sabato sera si riuniva nella “sala rossa” del monastero, per riflettere sulle letture bibliche della domenica, sulla loro interpretazione e attuazione.
Giovanni favorì, anche, gli interventi liberi durante la messa, al momento della “preghiera dei fedeli”. Capitò così che una domenica di primavera del ’73 un giovane studente – prendendo spunto da un’operazione spregiudicata compiuta dallo IOR, la banca vaticana, che aveva comportato la deplorazione di molti ambienti bancari – pregò perché un giorno i suoi figli potessero vivere in una Chiesa che non venisse riprovata a motivo di dubbie operazioni finanziarie. Questa “libera preghiera”, che molto indispettì le Autorità del Vaticano e del Vicariato di Roma, fu il pretesto finale da esse addotto per allontanare dall’abbazia Franzoni: questi, infatti, si rifiutò di censurare gli interventi spontanei dei fedeli in basilica. Ma a spingerle verso quella soluzione pesò, e non poco, anche la loro irritazione per la pubblicazione de La terra è di Dio, una “lettera pastorale” datata la vigilia di Pentecoste di quell’anno, nella quale Giovanni denunciava la speculazione edilizia a Roma e le compromissioni, in quel traffico, di Oltretevere (eppure – rileviamo oggi – per molti aspetti quel documento anticipava l’enciclica Laudato si’ di papa Francesco). In tale contesto, il 12 luglio ’73, festa di san Benedetto, Giovanni rinunciò al suo ruolo di abate.
Quanti, donne e uomini, anziani e ragazzi, vollero seguirlo, dopo che lui era stato allontanato dalla basilica, iniziarono a riunirsi in uno stanzone di via Ostiense distante cinquecento metri da san Paolo: nacque così la nostra Comunità cristiana di base. E qui – tanto più dopo che nel ’74 Giovanni fu sospeso a divinis, per aver sostenuto la libertà di coscienza dei cattolici nel referendum sulla legge sul divorzio, e nel ’76 ridotto allo stato laicale per aver annunciato che avrebbe votato Partito comunista alle elezioni politiche di quell’anno, pur non condividendo l’ideologia ateistica di quel partito – la nostra Comunità dovette affrontare molti problemi, teologici e istituzionali, del tutto nuovi, sorti per una ragione molto semplice, e insuperabile: eravamo una comunità emarginata ed esclusa, rispetto alla Chiesa ufficiale. Emarginazione ed esclusione – temi decisivi dei due prossimi Sinodi! – furono, dunque, il contesto in cui dovemmo cercare di vivere, per quanto possibile, e con tutti i nostri limiti, la gioia dell’Evangelo e il nostro impegno di Comunità cristiana immersa nelle contraddizioni della storia.

Ministeri ecclesiali, alla sequela di Gesù
La prima emarginazione che dovemmo affrontare dopo l’uscita dalla basilica fu la proibizione dei sacramenti. Ci era stato proibito, infatti, di amministrare qualsiasi sacramento ad eccezione dell’Eucarestia, che non era “né autorizzata, né proibita”, ci fece sapere il cardinale Ugo Poletti, vicario di Roma. Prendemmo in considerazione solo la non-proibizione e seguitammo a celebrare la nostra Eucarestia nel salone di via Ostiense.
Dopo la sospensione a divinis, Giovanni non avrebbe più potuto presiedere l’Eucaristia. Se egli viveva con sofferenza – anche se mai troppo manifestata – le punizioni che gli erano state inflitte da una Chiesa che lui, nonostante tutto, seguitava ad amare, la Comunità tutta visse quelle sanzioni come una violenza, impostaci per motivi politici, e con prepotenza, dalle Gerarchie.
Che fare? Dovevamo accettare che, privati del nostro presbitero, ci venissero negati l’Eucarestia e gli altri sacramenti? Dovevamo cercarci un altro presbitero, non colpito, magari ancora per poco, da sanzioni canoniche? O accettare un prete “sicuro”, inviatoci dal Vicariato? Queste le domande che ci ponevamo. Non c’era una risposta univoca tra di noi: prevaleva comunque la prudenza, per non alimentare rotture; e c’era la decisione iniziale di Giovanni di obbedire a ciò che gli era stato imposto, sebbene non lo considerasse giusto.
Intanto… nascevano amori e nascevano figli. Come festeggiare questi eventi in comunità? Come sempre succede, fu la vita, il susseguirsi degli eventi, insieme allo studio della Bibbia, a portarci su strade nuove.
Un giovane e una giovane della Comunità, durante una Eucarestia domenicale del novembre 1974, andarono al microfono e dissero: “La Comunità non si può sottrarre dal constatare un fatto: noi due ci vogliamo bene e ci sposiamo”. Il modo in cui erano vestiti (indossavano normalissimi indumenti) non aveva destato alcun sospetto. Ci fu un meravigliato lungo applauso… E così si celebrò in comunità, allora, il loro matrimonio: d’altronde i ministri del matrimonio erano loro, gli sposi, ed erano loro ad assumersi la responsabilità di quel gesto. La Comunità era chiamata a testimone di quell’evento e del loro amore (non trattandosi di un matrimonio concordatario, gli effetti legali sarebbero stati assicurati dal matrimonio civile). Giovanni – che, essendo sospeso a divinis non presiedeva, ma partecipava alla celebrazione, guidata da un altro presbìtero – rimase un poco sorpreso. Poi si rasserenò, e infine si ecclissò un momento e poi se ne venne con un mazzetto di fiori, e tutto sorridente lo donò alla sposa.
Quello stesso mese arrivò in Comunità una coppia di profughi cileni con la loro bambina, di tre mesi, alla quale avevano negato il battesimo perché i genitori erano semplici conviventi. Noi, di fronte a questa sofferenza, e dopo un dibattito che potremo definire “sinodale”, decidemmo di procedere con il battesimo e la piccola fu battezzata.
Queste due celebrazioni aprirono la strada ad altre. Alcuni decisero di celebrare matrimoni anticoncordatari e battezzare i figli; altri preferirono la semplice presentazione delle loro unioni e dei loro neonati. La Comunità benedisse entrambe le modalità. D’altronde, laddove pareri diversi sul da farsi potevano dividerci, ci trovammo uniti nel lasciarci sorprendere e guidare dalla vita - o dal soffio dello Spirito? - per fare un passo avanti, tutti insieme, seppure non senza difficoltà per alcuni di noi.
Dopo circa un anno dalla sospensione a divinis e di presidenza da parte di altri presbìteri della Comunità, questa sollecitò Giovanni a riprendere la celebrazione dalla quale, a nostro avviso, era stato illegittimamente estromesso.
Iniziava così il nostro percorso di “riappropriazione” dei sacramenti, dei quali eravamo stati espropriati. In questo percorso ci accompagnava lo studio della Bibbia, condotto anche invitando esperti ed esegeti per approfondirla, in particolare con il metodo storico-critico. E così abbiamo “scoperto” che mai Gesù negli Evangeli parla di “sacerdote” (iereus, in greco) per la sua comunità, e nemmeno ne parlano le Lettere apostoliche o gli Atti: nel Nuovo Testamento mai si usa questa parola riguardo ai possibili compiti dei discepoli o delle discepole di Cristo: per le comunità cristiane si parla di diaconi, ministri (servitori), di anziani, o di sovraintendenti (vescovi): tutte parole, e concetti, derivanti dal mondo profano, e non da quello sacro. Gesù, del resto, era un laico ed agiva in radicale autonomia rispetto al sacerdozio che reggeva il Tempio di Gerusalemme.
Arrivammo, dunque, alla conclusione che la comunità intera è sì sacerdotale, come afferma la prima Lettera di Pietro, ma che nessuna persona, da sola, lo è. Per tale motivo, la presidenza dell’Eucaristia poteva essere di qualsiasi persona che fosse battezzata. Dunque, Giovanni poteva presiedere, ma non solo lui. In tutto questo travaglio ci fu particolarmente vicino mons. Clemente Riva, vescovo ausiliare di Roma-Sud che, in varie visite presso la Comunità (tra il 1976 e il 1982) affermò – senza con questo sposare tutte le nostre idee e la nostra prassi – di considerarci una comunità ecclesiale presente, con le altre, nel territorio di sua competenza. Insomma, era certificata la nostra – per quanto precaria – esistenza ecclesiale.

L’esclusione delle donne
E le donne? Secondo la dottrina cattolica ufficiale, esse erano e sono escluse ed impedite, per nascita e in radice, dal poter presiedere la Cena del Signore. Una esclusione sulla quale la Comunità si è interrogata, ancora una volta lasciando che le esperienze di vita e la Bibbia ci parlassero. All’inizio del nostro cammino, sebbene tutti/e potessero intervenire, le donne raramente si avvicinavano al microfono, erano più gli uomini a farlo negli spazi di riflessione e commento ai testi biblici e di preghiera. Piano piano, con il tempo, le cose però cambiarono. Le donne presero coraggio, diventando sempre più protagoniste.
Il Convegno nazionale delle Comunità cristiane di base del 1988 a Brescia, dal titolo: “Le scomode figlie di Eva”, segnò un passaggio: da quel momento ci fu un prima e un dopo. Per la prima volta le donne delle Comunità di tutta Italia prepararono un convegno, erano donne a presiedere tutte le assemblee e i gruppi di lavoro. Nella stessa sala in cui si svolgevano le assemblee plenarie, la domenica era prevista la celebrazione eucaristica che avrebbe concluso il convegno. Le donne avrebbero dovuto a quel punto cedere ad altri (=uomini) la presidenza? Non lo fecero; e senza mettersi d’accordo prima.
E così – e certamente fu una delle primissime volte che questo accadde nell’era moderna – mani di donna spezzarono il pane eucaristico. Forse ci fu sorpresa, sicuramente tanta commozione. Quel gesto fatto da donne sapeva di cose semplici, rimandava alla quotidianità, somigliava a quello spezzare il pane di casa in casa delle prime comunità cristiane. Non escludeva ma includeva: era il gesto di tutte e di tutti.
Ma lasciare che tutto ciò succedesse non era frutto di superficialità e inconsapevolezza. Al contrario, era anche il risultato di un approfondimento e di uno studio attento della Bibbia. Studiammo a fondo la questione – sempre con l’aiuto di biblisti e bibliste, provenienti anche da ambienti estranei alla nostra comunità – e arrivammo a una conclusione, davvero raggiunta con un sincero, animato, profondo “confronto sinodale”: se non si può dire storicamente chi fosse presente all’Ultima Cena (negli stessi Vangeli ci sono contraddizioni sul fatto che ci fossero solamente i dodici, e non, invece, anche altri discepoli), per certo sappiamo che nel gruppo più vicino al Maestro c’erano uomini e donne, che condividevano con Lui il cammino. È immaginabile un Gesù che al momento della sua Ultima Cena con loro allontanasse volutamente le donne (che probabilmente avevano preparato quella cena e quel pane)?
Quindi, l’esclusione assoluta delle donne dai “ministeri alti”, ad un certo punto affermatasi nelle Chiese d’Oriente e d’Occidente, non era affatto un mandato di Cristo ma, al contrario, una costruzione storica che rendeva monco e distorto l’Evangelo. Inoltre, ci sono molti indizi – come il cenno di Paolo, nella lettera ai Romani, a una Giunia quale apostola insigne – che aprono delle piste di riflessione, finora quasi inesplorate. Riteniamo che i due Sinodi in vista dei quali raccontiamo la nostra piccola storia, dovrebbero assolutamente approfondirli.
Del resto, il fatto che Gesù risorto appaia a Maria di Magdala, e affidi a lei – donna – la missione di riferire agli apostoli che Lui era risorto, ci sembra un evento fondante della Chiesa di ieri e di domani. Un evento, tuttavia e per sfortuna, per secoli oscurato! Pur definita – già da Tommaso d’Aquino, sette secoli fa – “apostola degli apostoli”, la Maddalena è stata, di fatto, dimenticata: si deve arrivare a papa Francesco per vedere finalmente la sua festa liturgica estesa a tutta la Chiesa!
Culto a parte, seppure ancora oggi le donne siano la maggioranza di chi frequenta le chiese, e in mille modi – laiche, e religiose di tante Congregazioni – sostengano come colonne le più svariate attività cattoliche, esse in pratica non contano; il “potere sacro” è solo in mano maschile. Ma dovrà sempre essere “potere”? E se fosse ripensato alla radice, come “servizio” ascoltando le donne, e la loro esperienza?
In conclusione ci sembra giunto il tempo di riconoscere che la Chiesa, come struttura maschilista e patriarcale, non deriva da un comando di Gesù; essa si è sviluppata,
così com’è, per contingenti ragioni storiche e sociali. Dunque, sotto la guida e l’impulso dello Spirito, non solo è possibile ma necessario cambiarla. Una Chiesa rappacificata con l’universo femminile potrebbe essere all’avanguardia nella lotta contro le moltissime “esclusioni” delle donne nel mondo; ci sono violenze ataviche; ci sono ovunque femminicidi; incombono tremende ingiustizie sociali e politiche.

Perché l’esclusione delle persone LGBT+?
Fin dall’inizio, la nascente Comunità di san Paolo fu frequentata da qualche giovane gay, emarginato nella sua parrocchia, che fu accolto con grande amorevolezza: insomma, da emarginati accogliemmo. Queste persone, però, non sollevarono esplicitamente il problema della Chiesa-istituzione che li condannava. Ciò accadde quando arrivò nella nostra comunità un combattivo ragazzo gay, che denunciò apertamente la “intollerabilità” della condanna dottrinale cattolica verso le persone LGBT+, un problema che, fino ad allora, non avevamo affrontato. Perciò, poi, molte e molti di noi partecipammo al Gay pride del 2000.
Era l’anno del Grande Giubileo. A Roma c’era chi considerava uno scandalo questa coincidenza di eventi… ma, a pensarci bene, il Giubileo biblico era pur l’anno della restituzione delle terre a chi ne era stato espropriato e della liberazione degli schiavi e dei prigionieri. In quel contesto iniziammo a meglio comprendere quanto fosse stata ingiusta la dottrina ufficiale a negare l’identità alle persone LGBT+, a farle sentire sbagliate, nel peccato, figlie di un dio minore. Dunque, divenne normale per noi accoglierle, come accogliemmo le persone divorziate e risposate, rispettosi delle loro scelte.
Il Catechismo definisce “gesti disordinati” i comportamenti sessuali delle persone LGBT+. Ma se tutte le esclusioni sono inaccettabili, quelle basate sull’identità delle persone, sulla loro natura, sono le più opprimenti. Tutti gli studi ci dicono ormai che l’omosessualità e la transessualità non sono scelte. Omosessuali o transessuali si è, non si sceglie di esserlo. Noi, Comunità cristiane di base, siamo stati emarginati dalla Chiesa gerarchica per le nostre scelte; ma l’esclusione delle persone LGBT+ non la si compie per quel che fanno, ma per quel che sono.
Ci rendiamo ben conto che affrontare davvero le questioni delle quali abbiamo sin qui parlato, comporta poi cambiamenti strutturali giganteschi, che si dovranno fare, se si vuole che i Sinodi raggiungano lo scopo che il Popolo di Dio si aspetta. E se queste Assemblee non potranno, per le loro limitate competenze costitutive, compiere le riforme sostanziali (dottrinali, canoniche e pastorali) necessarie, sarà giunto il tempo nel quale un nuovo ed inedito Concilio di “padri” e di “madri” sia convocato per riflettere, e infine deliberare: “Abbiamo deciso, lo Spirito santo e noi…” – così come fecero, agli albori della Chiesa, gli apostoli e gli anziani, come ci insegnano gli Atti al capitolo XV.

Le riforme della Chiesa favoriscono la pace
Le riforme che, con molti altri cenacoli e gruppi sparsi nel mondo, suggeriamo, renderebbero la Chiesa romana più evangelica; e, nel contempo, favorirebbero la giustizia e la pace nel mondo. Infatti, migliaia di comunità locali – che nei cinque continenti vivono nei contesti sociali, culturali e politici più diversi – darebbero un input che, soprattutto in Paesi poco democratici, indirettamente potrebbe indurre nelle società civili rispetto per le donne, accoglienza per le persone “diverse”, volontà di rendere più vivibile e giusta la vita della propria gente.
Una Chiesa pur evangelicamente riformata, e decisa a togliere al suo interno ogni esclusione, non avrà, certo, la pretesa di avere la ricetta e le soluzioni per risolvere tutti gli enormi problemi del mondo; ma, forse, sarà più ascoltata quando leverà la voce perché i poveri vedano riconosciuta la loro dignità; perché il commercio delle armi non caratterizzi più le economie degli Stati potenti che, con quello, infine depredano i Paesi più arretrati; perché si avvii la graduale ma reale limitazione delle armi nucleari ed ABC, per arrivare infine alla loro distruzione; perché si affermi una cultura della nonviolenza; perché i cappellani militari non siano inquadrati nell’esercito; perché si costruiscano ponti, e non muri, tra le varie Società umane; perché la salvezza della Madre-terra sia la bussola di ogni politica; perché il problema dei migranti sia affrontato globalmente, avendo alla base il rispetto per i diritti umani di ogni persona; perché il dialogo ecumenico e inter-religioso cancelli le rivalità tra i cristiani e i credenti.
Del resto, per predicare con credibilità la pace al mondo, la Chiesa romana deve prima di tutto fare la pace in sé stessa, sciogliendo grumi di ingiustizie strutturali e pastorali che, con l’ignorare “diritti umani” elementari quasi ovunque riconosciuti, oscurano la sua testimonianza.
[PER IL SINODO ITALIANO. Vorremmo ricordare che molti, come cittadini e come credenti, si attendono di vedere finalmente la riforma delle clausole più odiose del Concordato fascista, pur innovato nel 1984 ma con inadeguata maturità democratica. E ci riferiamo, in particolare, ai problemi dell’insegnamento della Religione (cattolica) nella scuola e agli effetti civili delle sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio-sacramento nell’ordinamento dello Stato].

Se i due Sinodi semineranno speranza
Noi riteniamo che i due Sinodi – ciascuno di essi nella sua specificità – potrebbero essere un’occasione perché la Chiesa cattolica romana, a livello universale, e a livello italiano, si converta con maggiore determinazione all’Evangelo. Per sé stessa, e per la vita del mondo. Tuttavia, perché sia effettivamente così, si dovrebbe avere il
coraggio, nelle due Assemblee, di orientare la barca verso i porti che lo Spirito santo – il “regista” di un’Assemblea sinodale, come dice Francesco – ci indicherà, seppure siano destinazioni per mete inconsuete, o temute, in quanto obbligherebbero a cambiare profondamente lo status quo. Insomma, si dovrebbero compiere i cambiamenti strutturali ineludibili che emergeranno da un fraterno e franco confronto sinodale.
Se osserviamo con sguardo largo e attento l’intera Ecclesia, vediamo in tante parti del mondo – soprattutto in questi tempi di pandemia – anche molte persone cattoliche (e di altre religioni, fedi, opinioni che agiscono in base alle loro convinzioni etiche) davvero impegnate a donarsi per la vita del mondo: quanti esempi di dedizione, di condivisione, di fraternità, di sororità! Dunque, possiamo avere fondate speranze che i due Sinodi, spronati anche da tali testimonianze, avranno il coraggio di spingere l’intera Chiesa romana ad adeguare le sue strutture storiche perché, nel terzo millennio, meglio esse aiutino a proclamare l’Evangelo delle beatitudini, della povertà, della mitezza, della giustizia e della pace.

Roma, 13 febbraio 2022 La Comunità cristiana di base di san Paolo


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