Gorizia e Nova Gorica quale laboratorio per la pace e la convivenza.
«I Balcani - scrive Predrag Matvejević - vengono spesso identificati a oriente dell’Europa, in funzione... del punto di vista che si adotta. Vista dal centro dell’Europa, questa “zona turbolenta” comincia già a Monaco di Baviera o a Vienna; [...] gli abitanti di queste due città spostano questa “frontiera incerta” verso Lubiana e Zagabria (lo scrittore croato Miroslav Krleža ne vedeva il punto di partenza nel prestigioso Hôtel de l’Esplanade al centro di questa città); mentre gli Sloveni, o gli stessi Croati, la spingono ben più a est, verso Belgrado o Sarajevo [...]. Dal lato orientale ..., persone più avvedute replicano che nei Balcani è nata la stessa Europa».
Il “confine”, tra attraversamenti e separazioni
Gorizia e Nova Gorica rappresentano, per le vicende della loro memoria storica e il sedimento dei rispettivi patrimoni culturali, un simbolo e un epicentro di questo tema che è, al tempo stesso, tema mitteleuropeo, mediterraneo e balcanico, esattamente come Gorizia e Nova Gorica, con l’intero spaccato del limes orientale, rappresentano un crocevia a cavallo tra Mitteleuropa, Mediterraneo e Balcani. È il tema della labilità e della ambivalenza del confine: il confine come luogo di transito e di contatto; come luogo di separazione e di attraversamento; come luogo di incontro e di interazione, come territorio di aderenza tra le diversità.
Il confine, quale spettro topografico e concettuale, resta legato alla vigenza e alle eredità del conflitto e ne alimenta spesso propensioni e ricorsività, in termini tanto di attraversamenti, quanto di separazioni. I Balcani rappresentano, sotto questo profilo, uno scenario di conflitto complesso, drammatico e decisivo per i destini dell’ordine mondiale: rappresentano il territorio in cui la dinamica, reciprocamente interagente, del conflitto e del confine è letteralmente deflagrata. Là dove c’era un solo confine (quello della Jugoslavia socialista), ve ne sono oggi molteplici, dentro e attraverso gli Stati, con sei Paesi (le ex repubbliche jugoslave di Slovenia, Croazia, Serbia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Macedonia del Nord), due entità statuali (in Bosnia-Erzegovina, le due entità istituite dagli Accordi di Dayton del 1995, la Federazione croato-musulmana e la Republika Srpska, la Repubblica serba di Bosnia) e due regioni autonome (in Serbia, a Nord la Vojvodina e a Sud il Kosovo), delle quali, l’una, la Vojvodina, gode di un regime di autonomia, e l’altra, il Kosovo, ha dichiarato unilateralmente la propria indipendenza dopo la guerra del 1999. Quest’ultima, con l’aggressione della NATO alla Jugoslavia, ha rappresentato un vero e proprio paradigma della cosiddetta “guerra umanitaria” e uno spartiacque in relazione al profilo strategico della NATO e alla tenuta del diritto internazionale.
Non solo “tra” ma anche “all’interno di” questi Paesi vi sono dunque dinamiche di conflitto e i casi salienti sono proprio quelli della Bosnia-Erzegovina e del Kosovo, che recepiscono in maniera non solo drammatica ma persino ambivalente la presenza di questi due elementi di interazione (sovente problematica e conflittuale) e di reciprocità (sempre incerta e contraddittoria) tra il confine ed il conflitto. Vi è qui, al contempo, un confine inter-statuale, tra Stati, e un confine infra-statuale, pur essendo il Kosovo non ancora riconosciuto dalla comunità internazionale e non avendo un seggio in Assemblea generale alle Nazioni Unite; vi è la problematica della soggettività e dell’identità, in termini di composizione sociale, etnica e comunitaria, e di dialettica tra le identità, che si manifestano come «identità frammentate», in termini comunitari, etnici e, problematicamente, nazionali; e vi è ancora un ulteriore livello, che si sviluppa attraverso veri e propri «luoghi di controversia», epicentri della dinamica di conflitto, tra i gruppi e nelle aree limitrofe, in cui il confine gioca un ruolo decisivo, attraversando la vita delle comunità, al punto da rappresentare un margine e istituire, non di rado, una frattura.
In Kosovo, dove la questione diventa multiforme ed esplosiva, i confini, fisici e mentali, sono l’epicentro del conflitto irrisolto. Il confine stesso cambia forma e significato a seconda di chi lo nomina: è «confine» per i kosovari albanesi, è «linea di transito amministrativa» per i Serbi del Kosovo. Le due Mitrovica (Mitrovicë per gli albanesi, Kosovska Mitrovica per i serbi) sono il precipitato di queste contraddizioni e rendono il lavoro di pace necessario, complesso, e problematico. Il confine vi assume perfino connotazioni paradossali: nella città divisa di Mitrovica, la separazione, il confine, è segnata paradossalmente, sul fiume Ibar, da un ponte, vale a dire l’elemento che, più di ogni altro, dovrebbe rappresentare il tramite di un collegamento, una reciprocità.
Si tratta di un immaginario simbolico, profondamente concreto, nel momento in cui sul confine si innestano le dinamiche del conflitto, per la ricorsività e l’iconografia che evocano, in aree di crisi, luoghi fisici che possono diventare «luoghi di separazione», come un ponte (accade anche in Bosnia) o un muro (accade, fin troppo spesso, dalla Palestina al Sahara occidentale, dal confine tra gli Stati Uniti e il Messico alla città di Belfast, variamente murata, con un muro, perfino “leggendario”, tra la cattolica Falls Road e la protestante Shankill Road). A Mitrovica non solo un ponte paradossalmente interviene a dividere e a separare, ma funge addirittura da limite e da confine, di fatto, tra le due parti della città e del Kosovo (il Nord a larga maggioranza serba, e il Kosovo centrale, a larga maggioranza albanese, fatte salve le enclaves etniche serbe e la diffusa presenza rom). In questo luogo, ciò che per eccellenza serviva per unire, è diventato viceversa il simbolo della divisione.
Un progetto («Conflict in Cities and the Contested States»), inaugurato nel 2003 e sviluppato dal Dipartimento di Architettura dell’Università di Cambridge, UK, sulle «città divise» ha messo in evidenza i tanti elementi che distinguono o accomunano le città, là dove si produce una dinamica di integrazione e di separazione di tipo “pendolare”, attorno a un confine e da un lato all’altro del confine. Non a caso, il progetto, dedicato alla vita e agli spazi urbani, ha posto i riflettori su città-simbolo come Belfast, Berlino, Beirut, Gerusalemme, Mostar, Nicosia (a Cipro), Tripoli (in Libano) e Vukovar (in Croazia). L’Europa, spesso descritta come il continente di «pace negativa» per eccellenza, almeno nell’immaginario collettivo, è in realtà una terra di molteplici luoghi di divisione e separazione, di confini e conflitti: il Paese Basco, Cipro, i Balcani occidentali; l’Irlanda del Nord e la Catalogna; oggi l’Ucraina; e poi le città di Sarajevo, Mitrovica, Nicosia, e tanti altri contesti divisi.
I Corpi Civili di Pace, pilastro di una difesa difensiva
«Immaginate - scrive Johan Galtung - un Paese che fondi la propria sicurezza attraverso la pace, non allineato, utile agli altri Paesi, invulnerabile, che si occupi di mediazione dei conflitti e dei traumi rilevanti, fortemente dotato di empatia e di progetti equi tra i popoli, munito solamente di armi non provocatorie, pronto a difendere i propri confini e ogni parte del proprio territorio con mezzi di difesa difensiva ... e con un Ministero per la Pace. Un Paese che tenga conto di tutti i punti precedenti è molto improbabile che venga attaccato [...].
«Ora immaginate un Paese con un sistema militare offensivo ad ampio raggio, con alleanze di tipo aggressivo, non utile agli altri Paesi, vulnerabile, che ha in mente la vittoria come unico approccio al conflitto e l’amnesia come unico approccio ai traumi inflitti, uno Stato autistico, votato allo sfruttamento, privo di qualunque difesa difensiva, senza un Ministro per la Pace; in breve, un Paese la cui politica militare non copra nessuno dei punti precedenti. È altamente probabile che attacchi e sia a sua volta attaccato. Un Paese con un punteggio alto non solo è più sicuro, ma è anche un dono per il mondo, circondato da circoli di amicizia in espansione».
Nelle contraddizioni del nostro tempo, segnato dalla guerra, dalla crescente militarizzazione e dall’incessante incremento delle spese militari, dalla condizionante presenza militare perfino nelle scuole, nei luoghi educativi e nelle istituzioni accademiche, dalle grandi violazioni dei diritti umani che si susseguono nelle più diverse aree del pianeta, dalle vecchie e nuove forme di oppressione e di sfruttamento, di mortificazione della democrazia e di catastrofe dell’ecosistema, sempre più si avverte l’esigenza di rinnovare il lavoro per la pace e la giustizia.
Ad essa fanno riferimento le esperienze e le pratiche che guardano alla trasformazione positiva, tanto sul piano strutturale quanto a livello culturale, dell’attuale sistema delle relazioni sociali, nella direzione del primato dell’essere umano e della dignità umana, della liberazione da ogni forma di sopraffazione e di oppressione, del contrasto a ogni forma di violazione e di violenza, della difesa della democrazia e della tutela dei diritti umani, nel senso di «tutti i diritti umani per tutti e tutte», e di salvaguardia e protezione della pace come bene supremo, nel senso della «pace positiva», pace nella pienezza dei diritti umani e nell’affermazione della giustizia sociale.
La società civile organizzata, ispirata e orientata dai valori della pace, dei diritti, della giustizia, può offrire un contributo essenziale in questa direzione: quale fattore di maturazione e di avanzamento della democrazia; quale protagonista nei percorsi del cambiamento, della solidarietà e dell’inclusione sociale; quale attore cruciale dei processi di costruzione della pace e di promozione del processo di pace, a partire dalla prevenzione dei conflitti violenti e dalla realizzazione di iniziative e progetti di peacekeeping civile e di peacebuilding.
«Con il nostro assenso - scrive Nanni Salio - a una difesa militare, peraltro altamente aggressiva e offensiva, consentiamo che le élite che governano le grandi potenze proseguano indisturbate nella loro logica di dominio e nella sfrenata corsa agli armamenti [...]. E quando decidono di ignorare e stracciare anche quel poco di accordi e di diritto internazionale che faticosamente si è riusciti a costruire, ci ritroviamo totalmente impotenti [...].
«L’alternativa alla difesa militare dev’essere pertanto chiara e netta, anche se nel breve periodo può comportare una fase di transizione, di «transarmo», un compromesso che vedrà convivere elementi residuali di un modello di difesa difensiva ... con il costruendo modello di difesa popolare nonviolenta. Ma, al momento, questa ipotesi progettuale non è stata ... recepita neppure dal movimento per la pace, che rischia di ripetere solo slogan retorici».
In questo scenario, la proposta dei Corpi Civili di Pace, declinata tanto in ambito nazionale, quanto a livello europeo e internazionale, assume la forma di una proposta complessiva di società civile di difesa difensiva alternativa alla difesa militare, per la prevenzione e il contrasto della guerra, per la concretizzazione della diplomazia dei popoli, per la promozione e la costruzione della pace. Tale proposta diventa quindi un pilastro della difesa alternativa, della difesa popolare, in linea con le indicazioni di Galtung, puramente difensiva. Essa eredita e fa propria una lunga tradizione di pensiero e di pratiche di società civile e movimenti popolari per la pace, la giustizia e la nonviolenza, dalle Shanti Sena di ispirazione gandhiana alle World Peace Brigades, dai Caschi Bianchi alla promessa, ispirata da Alex Langer e altri/altre, di Corpi Civili di Pace in ambito europeo. Nella storica conferenza di Grindstone Island, Canada (1981) fu lanciata la proposta di «brigate di pace, create per rispondere a bisogni e appelli specifici, allo scopo di intraprendere missioni imparziali, che possano includere iniziative di peacemaking, peacekeeping, secondo una disciplina nonviolenta, e servizio umanitario».
Tali sperimentazioni fanno riferimento a documenti ed esperienze cui tornare per una memoria attiva nel presente, un archivio di acquisizioni e di pratiche capaci di ispirare i percorsi del nostro tempo: a partire dalla Agenda per la Pace (1992) del Segretario generale delle Nazioni Unite Boutros Boutros-Ghali con le definizioni di peace-keeping, peace-making, peace-building e diplomazia preventiva, e quindi con le esperienze di interposizione e di mediazione di pace della società civile, dalle marce per la pace in ex Jugoslavia alle esperienze di interposizione nonviolenta nei conflitti, dall’esperienza dei Parlamenti interetnici di base e delle Ambasciate di pace in zona di conflitto, in particolare in Iraq e in Kosovo, sino alle più recenti sperimentazioni per Corpi Civili di Pace.
«L’Ambasciata di pace - ricordano i Berretti Bianchi - è la presa d’atto dei nuovi compiti del movimento pacifista (oggi che l’intervento armato è di fatto uno strumento della politica dei governi - in particolare di quello americano - e che la NATO tenta di sostituirsi al ruolo dell’ONU) e il tentativo di dotare il movimento pacifista internazionale e, quindi, le popolazioni del nostro pianeta, di uno strumento nuovo di opposizione reale alla guerra. Questo progetto si muove idealmente sulla stessa linea di altri interventi ... che avevano cercato e cercano di opporsi alla guerra costruendo embrioni di forze di interposizione e percorsi di diplomazia popolare».
I Corpi Civili di Pace rappresentano infatti, propriamente, un potente strumento di impegno civile, non armato e nonviolento, “sui” e “nei” conflitti, tanto in ambito locale o “di prossimità”, quanto nello scenario regionale e internazionale: uno strumento per agire “sui” conflitti, per studiarli e comprenderne le moderne modalità di definizione e di articolazione, e per intervenire “nei” conflitti, per contenerne la dinamica, impedirne l’escalazione, prevenirne l’insorgenza, avviarne la trasformazione, superarli nel senso della «costruzione della pace».
Sono numerosi i compiti nei quali i Corpi Civili di Pace si cimentano: dall’interposizione civile non armata alla mediazione, facilitazione e costruzione della fiducia; dall’accompagnamento protettivo al supporto al lavoro degli operatori e delle operatrici di pace locali; dall’azione di sensibilizzazione e advocacy alle attività di educazione alla pace; dal monitoraggio dei diritti umani alla denuncia delle gravi violazioni, nonché al monitoraggio elettorale e dello stato di diritto; dal giornalismo di pace alle misure di lavoro di pace nell’ambito delle iniziative di assistenza umanitaria e di cooperazione economica «sensibile al conflitto»; sino al reintegro degli ex combattenti, al sostegno ai profughi e agli sfollati, alla cooperazione con le forze di società civile, orientate alla pace, nel loro impegno per il superamento del conflitto e per la costruzione della pace.
Di fronte all’estensione e alla complessità di tale impegno, l’intervento non può essere improvvisato; richiede formazione e preparazione degli operatori e delle operatrici; deve attenersi a criteri e modalità di impegno che proteggano non solo la legittimità nonviolenta della missione, ma anche la credibilità e l’imparzialità degli operatori e delle operatrici. Tra i principi che ispirano e orientano la loro azione vanno dunque annoverati: la nonviolenza, come criterio-guida, modalità di approccio al conflitto e alla sua trasformazione, carattere della relazione tra gli operatori e le operatrici e con le parti del conflitto; l’autonomia, sia nel senso dell’affermazione dell’autonomia necessaria della società civile nella definizione degli interventi, sia nel senso della necessaria indipendenza dai condizionamenti politici; la parità di genere, la cooperazione con le popolazioni locali, il rispetto delle culture e dei saperi locali; la non ingerenza nei confronti delle organizzazioni di società civile; l’adozione di uno stile di condotta appropriato, aderente al contesto e rispettoso del luogo e delle persone.
L’intervento dei Corpi Civili di Pace non è infatti la missione salvifica dei depositari del significato autentico delle parole (pace, diritti, nonviolenza), ma è, viceversa, la concretizzazione di un progetto condiviso che, in ogni sua fase, si sviluppa insieme, in cooperazione e in sinergia tra gli operatori e le operatrici di pace dei contesti di provenienza e gli operatori e le operatrici di pace dei contesti di destinazione.
Criteri e principi dell’intervento dei Corpi Civili di Pace
Come le organizzazioni di società civile hanno più volte sperimentato nei loro progetti di interposizione nonviolenta, di mediazione e di promozione della pace, non solo l’intervento si svolge nel quadro di una progettazione condivisa con gli operatori e le operatrici locali, ma può realizzarsi solo su «richiesta leggibile» da parte degli operatori dei contesti di destinazione, che attivano e concretizzano, di conseguenza, la richiesta di un intervento che si svolga in cooperazione e che avvenga a supporto degli operatori e delle operatrici locali nel loro impegno per la de-escalazione, per la prevenzione della guerra e per la costruzione della pace.
In coerenza con tali premesse, i Corpi Civili di Pace possono sviluppare, in ambito civile, relazioni di collaborazione con altre organizzazioni di società civile purché queste abbiano scelto una modalità di azione, di intervento e di lotta sinceramente ispirata ai valori della pace e dei diritti umani, mostrando, al contempo, una potenzialità di «impatto positivo» sul conflitto, ai fini della sua gestione, soluzione e trasformazione costruttiva.
Viceversa, per quanto concerne l’ambito militare, «con attori armati - regolari e non regolari - non sono ammesse forme di collaborazione o sinergia né scorta armata; può esserci dialogo finalizzato alla gestione nonviolenta del conflitto o scambio di informazioni sulla sicurezza, ove questo non pregiudichi la legittimità nonviolenta della missione, in termini di modalità di azione e di ricezione presso le parti», così come evidenzia il documento (2012) su “Identità e criteri degli Interventi Civili di Pace italiani”. Sul campo, dunque, si possono attivare relazioni di collaborazione con altre realtà di società civile, agenzie di organizzazioni internazionali, istituzioni pubbliche, solo se tali rapporti non minano l’indipendenza, l’autonomia e l’imparzialità della missione.
Come tante volte le realtà di società civile hanno saputo concretizzare nelle loro attività e nei loro progetti di prevenzione della violenza e di costruzione della pace, si tratta di essere, quanto più possibile, «neutrali rispetto alle parti in conflitto, ma mai neutrali di fronte alle grandi violazioni dei diritti umani», avendo come bussola la Carta delle Nazioni Unite, la Dichiarazione universale dei diritti umani, i principi fondativi del diritto e della giustizia internazionale, e facendo affidamento su una formazione e una preparazione solide ed efficaci.
Per questo, la formazione degli operatori e delle operatrici è orientata alla maturazione di conoscenze, competenze e capacità, necessarie per metterli in condizione di operare con coerenza, creatività e concretezza. Sono quindi necessarie conoscenze di diritto internazionale e umanitario; diritti umani e giustizia riparativa e di transizione; cooperazione economica e aiuto umanitario; analisi del conflitto e teoria e pratica della gestione del conflitto; peace-keeping, peace-making, peace-building, e strumenti diplomatici di gestione dei conflitti; elementi di sociologia e di antropologia culturale; competenze di progettazione; conoscenze linguistiche e informatiche. Occorre altresì sviluppare la capacità strategica di comprendere la complessità del conflitto e di collegare soggetti-chiave in grado di formare coordinamenti per la prevenzione della violenza e la costruzione del processo di pace.
Un laboratorio di pace e giustizia a Gorizia e Nova Gorica
I Corpi Civili di Pace sono, infatti, una modalità di intervento civile, non armato e nonviolento, posta in essere da squadre di civili, professionisti e volontari, che, come terze parti, sostengono gli attori locali nella prevenzione della violenza, nella gestione e trasformazione del conflitto, nella costruzione della pace. L’impegno della società civile in Italia, nel contesto dell’attivazione di Gorizia e Nova Gorica come Capitale Europea della Cultura 2025, può dunque alimentare e rinnovare la proposta di trasformare Nova Gorica con Gorizia in un epicentro di elaborazione e formazione per Corpi Civili di Pace e, in prospettiva e con altre realtà sulla scena nazionale e internazionale, in un vero e proprio laboratorio internazionale di pace e giustizia.
Cosa serve dunque per fare di Gorizia e Nova Gorica un «laboratorio internazionale di pace»? Occorre agire su entrambi i versanti: da un lato, contrastare la violenza e prevenire la guerra (pace negativa); dall’altro, attrezzare risorse e costruire condizioni per la pace, a partire dai diritti e dalla giustizia (pace positiva). Ciò significa un laboratorio per la previsione e la prevenzione della guerra, e per la formazione e la preparazione di operatori e operatrici. I due versanti non possono essere separati e isolati l’uno dall’altro: se, per un verso, la prevenzione della violenza abilita il contenimento dei fattori (le «war constituencies») che possono scatenare l’escalation e consente l’apertura di possibilità (le «peace constituencies») per la costruzione della pace, solo l’intervento, per altro, di operatori e operatrici formati e preparati può consentire di attivare i meccanismi della prevenzione, di sostenere la rottura della spirale della violenza, di ampliare gli «spazi per la pace».
Bene lo ha messo in evidenza Alberto L’Abate, segnalando che le organizzazioni della società civile «insistono sulla necessità di una completa autonomia dell’intervento civile da quello militare che partono, nelle parole di Jean-Marie Muller, «da due logiche completamente diverse» [...]. Nelle situazioni di crisi internazionale si possono ipotizzare tre fasi: la prima è quella dell’intervento armato; la seconda quella della ricerca di soluzioni politiche; la terza quella della ricostruzione. [...] L’intervento di Corpi Civili di Pace può essere cruciale [nella] prevenzione della scalata del conflitto ..., che deve venire prima delle tre fasi su delineate». Anche questo intervento riguarda entrambi i fattori: ora l’approntamento di metodologie, contenuti teorici ed esperienziali, strumenti e tecniche per la prevenzione della violenza, la mediazione, e la trasformazione dei conflitti in senso costruttivo; ora la costruzione di consenso, consapevolezza e partecipazione, a livello di corpo sociale più ampio e diffuso, intorno ai temi della lotta contro la guerra e della costruzione di una «cultura di pace».
«Il concetto di pace - ricorda ancora Alberto L’Abate - sta cambiando. Ci si sta sempre più rendendo conto che il concetto di pace negativa (come assenza di guerra) è troppo limitativo e impedisce sia di prevedere sia di prevenire i conflitti armati. [...] Tutti dovrebbero fare educazione alla pace, come genitori, come cittadini, come membri di un consesso sociale, come educatori, e in tutti gli ambiti, nella famiglia, nella scuola, nel vivere sociale. [...] Tutti abbiamo delle responsabilità e dei compiti per la costruzione di una cultura di pace». Come ricorda, in definitiva, la Carta (1945) dell’UNESCO «dal momento che le guerre iniziano nella mente degli uomini, è nella mente degli uomini che le difese della pace devono essere costruite».
Riferimenti
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www.unimondo.org/Notizie/Eventi/Convegno-Prevenzione-dei-conflitti-e-corpi-civili-di-pace.
Conflict in Cities and the Contested State Project, “Urban Conflicts from Local to Global”, Briefing Paper 10, University of Cambridge, Cambridge, UK, 2012.
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Alberto L’Abate, “Oltre la pace negativa”, in: Pax Christi, Centro Culturale F. L. Ferrari (a cura di), Costruttori di cultura: l’educazione alla pace, I Quaderni del Ferrari, 09:1998, Modena, 1998.
Predrag Matvejević, “I Balcani”, in: Melita Richter, Lorenzo Dugulin (a cura di), Sguardi e parole migranti, Coordinamento delle Associazioni e delle Comunità degli Immigrati della provincia di Trieste, Trieste, 2005.
Gianmarco Pisa, “Il confine, luogo di conflitti ed attraversamenti”, in: Vittoria Fiorelli (a cura di), Margini e confini. Attraversamenti di metodi e linguaggi tra comunicazione, didattica e possibilità della ricerca, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018.
Gianmarco Pisa, Paesaggi Kosovari, 1998-2018. Il patrimonio culturale come risorsa di progresso e opportunità per la pace, Multimage, Firenze, 2018. Per una panoramica sul progetto in corso per Corpi Civili di Pace in Kosovo nel quadro di IPRI-CCP, si rimanda al sito:
corpicivilidipace.com.
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Nanni Salio, “Un movimento per fermare le guerre e costruire la pace”, in: Annuario della Pace, Asterios, Trieste, 2003.
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