Voglio innanzitutto ringraziare chi ha organizzato questa giornata di studi, e soprattutto chi opera quotidianamente per alzare il livello di attenzione dell’opinione pubblica e dei decisori politici su queste tematiche, in particolare mons. Valentinetti, che nel mondo ecclesiale è un infaticabile animatore di attenzione e di sensibilità.
Porto i saluti del Direttore di Caritas Italiana, don Francesco Soddu, e a testimoniare l’interesse della Caritas per questa riflessione, che tocca alcuni dei fenomeni più importanti del nostro tempo: è mandato della Caritas operare per lo sviluppo umano integrale dell’uomo (ed è questo il nome del nuovo dicastero che ha voluto papa Francesco per coordinare tutte le attenzioni di carattere sociale della Chiesa); e nel fare questo lavorare per identificare e modificare le cause più profonde della povertà.
È forse superfluo ricordare la grandissima attenzione che il mondo ecclesiale ha sempre riservato al tema del debito: a partire dall’impulso fornito da Papa Giovanni Paolo II, a partire già dalla metà degli anni Ottanta, e poi nel 1991, con la Centesimus Annus (è certamente giusto il principio che i debiti debbano essere pagati; non è lecito, però, chiedere o pretendere un pagamento, quando questo verrebbe ad imporre di fatto scelte politiche tali da spingere alla fame e alla disperazione intere popolazioni. Non si può pretendere che i debiti contratti siano pagati con insopportabili sacrifici. CA 35). Nel 1994 con la Tertio Millennio Adveniente, papa Wojtila chiedeva la cancellazione del debito dei Paesi poveri, sollecitando la particolare responsabilità dei cristiani in questo percorso. Seguirono numerosissimi altri appelli su questo tema in occasione del Grande Giubileo del 2000; e anche da parte dei papi successivi, papa Benedetto, e naturalmente papa Francesco, questa particolare attenzione venne sempre confermata.
E come non ricordare la campagna ecclesiale per la riduzione del debito dei Paesi poveri, con l’azione della Fondazione Giustizia e Solidarietà e di tanti organismi ecclesiali e aggregazioni di laici, che ha visto milioni di persone in Italia coinvolte da un progetto di cambiamento realmente e altamente ‘politico’ a sostegno di centinaia di organizzazioni della società civile in Zambia e Guinea?
Perché quest’attenzione da parte della comunità ecclesiale? Perché sia nella prospettiva del magistero sociale che in quella della vita delle comunità cristiane, è chiaro che quello del debito è un tema che incide in profondità nella dignità e nella vita delle persone. È un tema che dietro un’apparenza tecnica, di carattere economico finanziario, parla invece della società, della politica, dei rapporti di giustizia e ingiustizia tra le persone e tra i popoli. Le cose che vengono presentate come tecniche hanno spesso un’apparenza di “neutralità”, che spesso non c’è e che in ogni caso in quanto tale non è “giusta”: si può essere “neutrali” nell’impatto delle politiche nei riguardi dei più poveri e dei più ricchi membri di una comunità sociale?
Il primo elemento che desidero sottolineare è dunque proprio il fatto che per la comunità ecclesiale è normale e doveroso occuparsi di debito e dei temi della giustizia economica, e che dalla dottrina sociale della chiesa può venire un spunto importante per il dialogo tra tutti quelli che hanno a cuore la dignità delle persone.
Con questo contributo, intendo mettere in collegamento questo elemento, tecnico ma non neutrale, del debito, con alcuni elementi che segnano il nostro tempo. Per lungo tempo abbiamo parlato della povertà e della fame come della piaga globale contro cui lottare, e la povertà è stata spesso concepita esclusivamente come povertà economica, contro la quale l’arma più efficace era la crescita dell’economia. L’idea era che se l’economia cresce nel suo insieme, e saranno i più ricchi ad avvantaggiarsene, la ricchezza ‘sgocciolerà’ anche sui più poveri. Quest’idea di “sgocciolamento” (trickle down) è stata estremamente popolare; ma la realtà ci ha mostrato un altro volto, quello di un mondo sempre più profondamente diseguale. Ci ha mostrato il volto di un drenaggio dell’aumento della ricchezza da parte dei più ricchi; e di una compressione della remunerazione del lavoro: nessuno sgocciolamento, ma un serbatoio che si riempie sempre di più…
Sono di pochi giorni fa i dati dell’ultimo rapporto di OXFAM, che riportano alla nostra attenzione come questa diseguaglianza, segno dell’ingiustizia globale, sia ancora in aumento. Come ci dicono gli economisti, non si tratta assolutamente di un fenomeno nuovo; ma spesso è stato trattato sia dall’accademia che dai decisori come un tema un po’ marginale, non veramente degno di attenzione. Meglio occuparsi della ‘povertà’, si diceva, in fondo che problema c’è se i ricchi diventano sempre più ricchi.
Ma oggi, anche grazie all’attenzione di tante organizzazioni della società civile e al lavoro di economisti come Thomas Picketty, si è capito che si tratta invece di una questione profondamente strutturale, che indebolisce le persone e poi le comunità: la concentrazione di potere economico coincide con analoga concentrazione di potere politico e sociale: coloro per i quali è necessario un cambiamento veloce e radicale (i più poveri i più vulnerabili) sono anche coloro che hanno meno possibilità di promuoverlo, in termini di potere e capacità di negoziare. Osservare la povertà è necessario, ma osservare la povertà senza curarsi delle diseguaglianze è un po’ come ignorare le radici stesse della povertà, togliere di mezzo la politica, le questioni relative alla distribuzione del potere, e di come questa distribuzione diseguale si perpetua nella società.
La disuguaglianza è un tema fondamentale e pervasivamente trasversale nella nostra epoca: i suoi segni sono presenti tra paesi, ma anche all’interno di ogni paese, fino ad essere avvertito all’interno delle nostre stesse città. Si può probabilmente dire che la diseguaglianza è alla radice del malessere contemporaneo: è l’insoddisfazione di chi è più vulnerabile a generare quella rabbia sociale, che Pankaj Mishra considera il tratto distintivo del mondo in cui viviamo e che anche il Censis ha recentemente ritrovato rispetto all’Italia di oggi. La disuguaglianza produce il sentimento di chi si vede escluso e respinto, che non trova ascolto, e che trova paradossale sfogo in un nuovo identitarismo o nella ricerca di un leader forte (per assurdo spesso espresso da quelle stesse élite ricche che in realtà non hanno alcun interesse a cambiare i meccanismi di ingiustizia globale).
Sullo sfondo di questo spaventoso squilibrio c’è il tema della nostra “casa comune”: la finitezza del pianeta su cui viviamo, con un uso delle risorse che mette a serio repentaglio le possibilità di sopravvivenza delle generazioni future, all’interno di vincoli resi ogni giorno più stringenti dal cambiamento del clima, causato esso stesso dall’attività dell’uomo. Ed è su questo piano che la diseguaglianza esprime le conseguenze più tragiche: sono i più poveri e vulnerabili a vedere compromessa la loro stessa sopravvivenza. Come dice papa Francesco “[n]on ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale” (LS 139) a cui dobbiamo fare fronte!
Lo sviluppo umano, e questo è il mio secondo punto, deve essere uno sviluppo profondamente integrato, nello “spazio operativo sicuro” del nostro pianeta, nel garantire la dignità, il benessere – ma soprattutto la voce! – di chi si trova ai margini, è escluso dai processi di decisione, non può vivere la prospettiva di una vita realmente dignitosa. Superare le diseguaglianze è un passo essenziale di questo percorso.
Ma in che misura la comunità internazionale è consapevole di questo? Quali proposte vengono avanzate per tentare una soluzione? Qui le risposte sono molto diversificate: da chi pensa che tutto sommato si può migliorare il sistema economico esistente, introducendo correttivi, senza modificarlo in modo radicale. E chi ritiene invece che di fronte ad una situazione come quella attuale non sia possibile che un cambio di passo radicale, e tra essi ancora lo stesso papa Francesco che ci avverte: “Non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il progresso. Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro.” (LS 194)
Entrambe sono posizioni a loro modo realistiche. La prima perché riflette l’equilibrio di chi si sente sostanzialmente al sicuro dalle conseguenze peggiori, e non ha alcun interesse a cambiare. La seconda perché i dati di realtà, ineluttabilmente, ci mostrano ogni giorno il destino a cui l’umanità intera è destinata. Non è un derby “ricchi contro poveri”; la realtà è molto più complessa, ed è necessario guardarsi dalle banalizzazioni, anche perché le sfide di questo pianeta interpellano in continuazione ciascuno di noi. Ma queste contraddizioni spiegano anche la complessità e per certi aspetti la contraddittorietà dei 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile, adottati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2015, sotto il nome di ‘Agenda 2030.
17 obiettivi e 169 “targets” rappresentano però un framework di enorme complessità, adatto sia a giustificare un sostanziale mantenimento dello status quo, con tutti gli aggiustamenti “verdi” del caso… e anche a offrire spunti di reale trasformazione. Si tratta di una tensione di cui è importante essere consapevoli, dato che l’Agenda 2030 rappresenterà in ogni caso la cartina di tornasole per tutte le politiche pubbliche degli prossimi anni. E anche l’Italia ha formulato, come richiesto, la sua Strategia Nazionale per lo Sviluppo Sostenibile, che dal prossimo anno diventa normativa anche per il MEF, nella valutazione delle politiche pubbliche. Qualcosa di estremamente concreto dunque, che rischia naturalmente di essere “tecnicizzato” e sterilizzato; ma che offre anche qualche spazio per contribuire a determinare cosa è “sostenibile” e cosa non lo è.
Nonostante tutte le contraddizioni l’Agenda 2030, esprime elementi interessanti: è la prima volta che tutti i Paesi del mondo raggiungono un consenso su una prospettiva così ampia e comune: essa vincola infatti non solo i Paesi poveri, come era nei precedenti Obiettivi di Sviluppo del Millennio, ma tutti i Paesi del mondo, chiamati a posizionarsi su un percorso di sviluppo integrato sotto il profilo economico, sociale e ambientale. Il tema fondamentale su cui lavorare sarà quello della coerenza delle politiche: in che misura assicuriamo che le singole politiche pubbliche non operino in modo contraddittorio? Ovviamente non è un tema nuovo, ma forse in questo momento abbiamo un piccolo strumento in più per chiedere uno sguardo più ampio.
Il terzo elemento è questo: le risposte della comunità internazionale sono limitate e piene di contraddizioni. Ma è una delle poche cose che ci rimangono, per sostenere la nostra iniziativa a livello locale. L’alternativa è rinunciare anche a quel minimo ambiguo consenso per entrare definitivamente nella jungla.
La questione è adesso cercare di capire quali siano i meccanismi globali alla base dell’ingiustizia. Meccanismi che hanno effetti e ricadute anche nel nostro quotidiano. Tra questi meccanismi è importante segnalare quelli del debito, e più in generale quelli collegati all’universo della finanza: la divergenza tra i meccanismi dell’economia reale (la produzione di beni e servizi necessari per la nostra vita) e dell’economia finanziaria è un fenomeno tra i più gravi e preoccupanti della nostra epoca.
I meccanismi finanziari rappresentano un’area di vasta preoccupazione per molti motivi. In primo luogo per l’esistenza di un’area vastissima di finanza ‘grigia’: finanza non controllata e speculativa che si può soltanto stimare. Solo nell’Eurozona si calcolano attivi finanziari pari a 60 trilioni di Euro (migliaia di miliardi di Euro), 5 o 6 volte il PIL… Ci sono varie ragioni per la crescita di questa immensa bolla finanziaria.
La principale, in qualche modo la sintesi di esse, è la seguente: la finanza ombra esiste sostanzialmente per motivi speculativi, e produce guadagni che beneficiano largamente le fasce più ricche della società; ma sono proprio quelle fasce che non hanno alcun motivo per modificarne le regole; la debolezza dei tentativi pubblici per porre queste dinamiche sotto un controllo più stretto non è altro che la logica conseguenza di questa “convergenza di interessi”. (interessante da notare, quando avviene lo scoppio della bolla speculativa, le perdite connesse sono facilmente redistribuite sull’intera base dei contribuenti poiché sono proprio le risorse pubbliche quelle utilizzate per reagire alle crisi).
I meccanismi della finanza ombra, rappresentano dunque un importante meccanismo di rafforzamento delle diseguaglianze. Allo stesso tempo in un mondo dove il potere finanziario è in molti casi più efficace del potere politico (oppure lo controlla), è del tutto improbabile che quest’ultimo sia in grado di rafforzare i vincoli cui il mercato finanziario stesso viene sottoposto…
La conferenza sulla gestione del debito dell’UNCTAD, tenutasi a Ginevra nello scorso mese di ottobre, ha messo in evidenza lo stato della situazione per quanto riguarda invece il debito dei paesi più poveri. Dopo la lunga stagione dell’iniziativa HIPC ci siamo, forse inconsapevolmente abituati a pensare che il problema del debito sia ormai superato… ma non è vero! Molti osservatori si chiedono perché non sia ancora scoppiata una nuova crisi del debito dei Paesi poveri.
Dopo una prima fase, fin verso il 2008, in cui il debito dei PVS è andato calando, a partire da quella data (più o meno in coincidenza con lo scoppio della crisi finanziaria internazionale), esso ha ricominciato a salire, sia in termini di proporzione con il PIL che nella proporzione servizio del debito/esportazioni.
Ma oltre al livello del debito, a preoccupare è la sua composizione: mentre ai tempi della crisi del debito degli anni Novanta il debito internazionale era largamente debito pubblico (sovrano) nei riguardi di altre istituzioni pubbliche, adesso non è più così. Il debito pubblico nei riguardi di creditori privati era il 41% del totale nel 2000, ed è salito al 62% nel 2016. Il debito verso privati, al contrario di quello nei riguardi di istituzioni pubbliche è difficilmente ‘contrattabile’: un creditore privato (ammesso che sia noto: pensate alla vendita di titoli di stato non nominali, che poi vengono ricontrattati sul mercato secondario…), tenterà sostanzialmente di spremere la situazione per quanto possibile. È anche l’esempio dei “fondi avvoltoio” che quando riescono a entrare in possesso di quote di debito “in sofferenza” dei Paesi poveri, cercano di tenere questi Paesi sulla graticola di interminabili azioni giudiziarie.
Ma anche il debito dei privati è in aumento, e lo è anche per i Paesi più poveri: il debito privato e non garantito per tutti i PVS era il 28% dello stock di debito a lungo termine nel 2000, salendo invece al 49% nel 2015. In Africa Subsahariana, il debito privato è aumentato circa sette volte dal 2000, raggiungendo i 70 miliardi del 2015.
Secondo l’UNCTAD, questo è avvenuto anche a causa di un “pregiudizio positivo” nei riguardi del debito privato, da parte degli organi internazionali di supervisione finanziaria, che ponevano invece stretti vincoli all’indebitamente pubblico. Ma qual è l’effetto della crescita del debito dei privati, potenzialmente altrettanto rischioso? Esistono analisi relative, ad esempio, agli Stati Uniti che mostrano come la crescita del debito privato sia legato a cicli economici negativi. Ma in più molto spesso l’indebitamento privato, soprattutto in tempi di crisi è soggetto a garanzia implicita o esplicita che conduce alla sua assunzione da parte del settore pubblico. Dunque, il tema del debito deve essere assolutamente ripensato prendendo in considerazione questo elemento. Il risultato netto di tutto questo è che, anche secondo il FMI, ci sono sempre più Paesi a rischio crisi per sovra indebitamento, anche tra quelli che avevano goduto dei benefici dell’iniziativa HIPC.
Quinta conclusione: il debito, in particolare quello dei paesi più poveri e vulnerabili, è questione tutt’altro che risolta. Le iniziative di riduzione del debito dell’inizio degli anni 2000 hanno portato dei benefici. Ma assolutamente insufficienti a risolvere la questione una volta per tutte: questione che però nel frattempo ha cambiato volto e rischia di portare a nuove crisi senza che esistano gli strumenti necessari per affrontarla.
Ma qual è la relazione tra il debito e la diseguaglianza? Se l’è cominciato a chiedere, relativamente di recente la Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. Secondo Juan Pablo Bohoslavsky, Esperto indipendente su Debito e Diritti Umani delle Nazioni Unite, esiste una relazione bidirezionale tra diseguaglianze e livelli di debito, soprattutto privato. In particolare la diseguaglianza può favorire la crescita del debito:
- Meccanismi come la “cascata della spesa”, in cui gli strati sociali più poveri cercano di mantenere i propri livelli di consumo, indebitandosi, anche a causa di un fenomeno di emulazione rispetto agli strati sociali più ricchi
- Meccanismi, in cui il surplus di liquidità a disposizione dei ceti più ricchi viene in parte consumato in beni di lusso, e in parte re iniettato nel sistema fornendo una illusoria abbondanza di liquidità, bassi tassi di interesse e disponibilità per impieghi ‘rischiosi’
Esiste un’ulteriore effetto dovuto all’instabilità generata da una situazione di disuguaglianza, e soprattutto dal suo aumento, che favorisce comportamenti di “rent seeking” a breve termine, scoraggiando operazioni di investimento e di ristrutturazione dell’offerta di servizi pubblici. Una crescita del debito privato può essere inoltre considerata un predittore importante della possibilità di incorrere in crisi finanziarie. Infine, come si è accennato, non mancano le prospettive per le quali il debito privato viene “ripubblicizzato”.
A sua volta, il sovraindebitamento pubblico e privato può senza dubbio contribuire all’aumento delle diseguaglianze: ci sono molti casi di questo tipo. Un esempio importante è quello della green revolution: la diffusioni di sementi “ad alto input” con pacchetti tecnologici acquistati a credito, hanno portato molti contadini poveri ad indebitarsi, e a perdere tutto alla prima crisi. I risultato è stato, ad esempio, un impressionante aumento della concentrazione della terra in paesi come l’India e alla diffusione del fenomeno dei ‘contadini suicidi’ tra coloro che avevano perso ogni cosa, a causa di debiti non pagati.
Indebitarsi implica infatti l’assunzione di un rischio, che, soprattutto per le fasce più povere e vulnerabili, può essere difficilmente sostenibile, soprattutto in tempi di crisi.
Quando poi la crisi di sovraindebitamento esplode, è altissimo il rischio che si produca un esito di società ancora più diseguali. Come è ad esempio avvenuto nel corso della crisi finanziaria in Europa. Crisi, spesso spiegata come “eccesso di spesa nel welfare”, secondo un’interpretazione difficilmente sostenibile con i fatti; e che ha condotto al salvataggio del sistema finanziario privato attraverso risorse pubbliche. Ecco un ottimo esempio di come la gestione del debito ha contribuito a esacerbare le diseguaglianze, sostanzialmente riversando sui sistemi pubblici di welfare i costi della crisi (a discapito certamente dei più poveri).
Esiste, e questo è il mio sesto punto, una relazione diretta e bidirezionale tra la crescente diseguaglianza e la dinamica del debito sia pubblico che privato.
Mi avvio a concludere. Con la questione del debito siamo al cuore delle contraddizioni che vive il nostro mondo. Contraddizioni che toccano, e toccano sempre più i più poveri e i più vulnerabili.
Le risposte della comunità internazionale sono ancora piuttosto confuse e poco incisive. Negli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, la questione del debito è trattata sia come possibile fonte di risorse finanziarie, sia (nel caso di sovra indebitamento) come possibile pericolo da evitare, attraverso un monitoraggio del rapporto tra servizio del debito e esportazioni (una misura completamente finanziaria, che difficilmente riesce a definire la questione in modo accettabilmente completo).
Prevedere l’indebitamento come meccanismo finanziario, soprattutto per finanziare infrastrutture, comporta però dei rischi importanti. Il mantra del finanziamento dello sviluppo (e anche della stessa cooperazione italiana…) è attualmente il coinvolgimento del settore privato. Il che avviene attraverso tecniche di blending e di Partnership Pubblico Privato: il blending dovrebbe (dovrebbe…), stimolare l’intervento di investitori privati attraverso la garanzia o la disponibilità di risorse pubbliche con un “effetto leva” che per la verità rimane ancora largamente da dimostrare. Oltre a tutte le questioni poste da questo tipo di interventi (la trasparenza, il valore aggiunto, la garanzia degli obiettivi in termini di sviluppo, gli effetti collaterali) questo genera per il settore pubblico una “garanzia implicita”: se, ad esempio, i costi dovessero aumentare, ben difficilmente gli investitori privati se ne farebbero carico, e sarebbe il settore pubblico a dover fornire ancora le risorse. Questo meccanismo è noto come quello delle “passività non contabilizzate” (off-balance sheet liabilities), documentato, ma ancora tutto da esplorare e soprattutto da tenere realmente in conto quando si propongono nuove politiche e nuovi interventi
È un esempio di come politiche poco accorte (e in questo caso la sempre più diffusa retorica sull’effetto ‘salvifico’ dell’intervento del settore privato nello sviluppo) rischino di essere uno dei fattori scatenanti di una nuova crisi debitoria, anche attraverso una ristrutturazione di obiettivi e mezzi della cooperazione allo sviluppo (come dimostra la recentissima Conferenza Nazionale per la Cooperazione allo Sviluppo, svoltasi a Roma la settimana passata)
Insomma, non tutte le idee sembrano essere ottime idee… Si propongono soluzioni che rischiano di aggravare il problema. Ma, sul piano globale, tutti i tentativi di identificare appropriata soluzione per le crisi di sovra indebitamento nel contesto delle Nazioni Unite, attraverso meccanismi di arbitrato e ristrutturazione del debito eccessivo, hanno visto sempre la fiera opposizione dei paesi cosiddetti sviluppati. La stessa sorte hanno incontrato i tentativi di rendere operativi i principi del “prestito responsabile” pensati per riequilibrare quella che viene posta come una responsabilità esclusiva del debitore (che non riesce a pagare), ma che invece trova forti radici nel comportamento dei creditori.
Il debito non è una questione di tecnica, ma una questione di giustizia, come mette in evidenza la Carta di Sant’Agata dei Goti: si tratta di un documento del 1997 nel quale giuristi, uomini di Chiesa, intellettuali e laici misero a punto una serie di principi giuridici per regolare secondo giustizia la questione del debito, conformemente ai principi generali del diritto. In particolare “il divieto di accordi usurari”, il rispetto “dell’autodeterminazione dei popoli” e il divieto di “un’eccessiva onerosità del debito”. È su questa base che è anche stato avviato un tentativo di portare la questione della legittimità del debito di fronte alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aja, con una proposta promossa dal professor Coppola, dell’Università di Bari.
Esiste dunque la necessità di una forte iniziativa, sui temi oggetto della riflessione di oggi. Tutti noi ricordiamo la grande mobilitazione del 2000, può darsi che serva qualcosa di simile, nei prossimi anni.
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Intervento di Massimo Pallottino, Caritas Italiana al Convegno internazionale - La questione del debito globale
Pescara – 27/01/