D’accordo con papa Francesco: “la buona politica è al servizio della pace”. Ma quale è la buona politica; e quale può esserlo qui e ora per i cattolici italiani?
Si possono formulare risposte generali e un po’generiche. Sul piano del metodo la buona politica è quella che esprime nella misura più ampia possibile i valori della democrazia come espressione della sovranità popolare e come partecipazione alle scelte del potere. Sul piano dei contenuti la buona politica è quella che si orienta con decisione sulla via della costruzione dlla pace, della espansione e della tutela del lavoro, del perseguimento dell’uguaglianza nella libertà dei cittadini e delle loro formazioni sociali.
Sempre in estrema sintesi si può dire che qui in Italia la buona politica è quella scritta a chiarissime lettere nella Costituzione della Repubblica, come compendio di un complesso vissuto storico di ipirzioni diverse e come grande apertura a un’inedita speranza civile.
Ma sin qui il discorso oltre che generico è anche astratto. E per i cattolici, poi, molto complicato. In particolare per essi si tratta di fare i conti con la storia. Non solo quella degli ultimi due secoli ma anche quella degli ultimi decenni.
Il 19 gennaio ricorrono i cento anni dell’appello ai “liberi e forti” con cui don Luigi Sturzo segnò il passaggio dei laici cristiani dalla sottomissione clericale all’autonomia e responsabilità delle scelte del bene comune. Rispondendo a quell’appello, molti cattolici italiani accettarono di rinunciare ad una visione totalitaria delle realtà umane e scelsero di farsi parte attraverso lo strumento del partito. Una forma che ha avuto diverse incarnazioni, la più importante delle qual è stata la Democrazia Cristiana di De Gasperi che ha avuto il consenso popolare nel secondo dopoguerra e l’ha mantenuto fino alla crisi di tangentopoli.
Una vicenda con luci ed ombre, alti e bassi, momenti esaltanti e depressivi, fasi di chiusura autarchica e di disponibilità a convergenze altrimenti impensabili, il tutto ricapitolato nella sanguinosa tragedia di Aldo Moro che ha posto fine, nel 1978, alla capacità di manovra della Dc e avviato il ciclo dell’ingessamento del sistema politico italiano.
Quanto ai cattolici, un tempo associati in robuste strutture capaci di pensiero e di sperimentazione, già prima del manifestarsi della crisi avevano manifestato fermenti per una nuova ricerca che, sulla scia del Concilio e dell’insegnamento di Paolo VI, aveva come oggetto il superamento dell’unità politica dei cattolici e la pratica di un pluralismo delle scelte che meglio pareva corrispondere alle mutate realtà sociali e culturali del paese.
Fare i conti con la storia significa, a questo riguardo, domandarsi perché mai dopo una corale consultazione di tutte le realtà cattoliche italiane, come fu il convegno “Evangelizzazione e promozione umana” del 1976, non si trovò il modo di elaborare una modalità di attuazione del pluralismo che fosse vitale ed efficace. E perché mai vennero disattivate o comunque scoraggiate, se non represse, tutte le imprese avviate per dar seguito ad una tale scelta che pareva confortata da un larghissimo consenso e sostenuta da una vasta partecipazione.
A rileggere le cronache cattoliche di quegli anni si ha l’impressione che mentre le energie più vive apparivano disponibili a predisporre una formazione adatta ai tempi nuovi, l’episcopato e poi il nuovo Papa, Giovanni Paolo II si attestavano su una posizione esattamente opposta. Come fu chiaro per tutti in occasione del Convegno di Loreto (1985) nato sotto il segno della “scelta religiosa” (insegna dell’Azione Cattolica di Vittorio Bachelet) e la figura di una chiesa come “forza sociale” che, nel clima italiano, rinvigoriva le ccomponenti più legate alla tradizione non solo democristiana e sturziana ma anche antecedente ad esse.
Da questa scelta fondamentale derivarono, nel tempo, le suggestioni per un ritorno, mutatis mutandis, all’opera dei congressi (sotto la sigla modernizzante di “retinopera”) ed alla riproposizione di un impegno politicizzante sotto le specie invero ambigue di una corrente chiamata “teodem” . Il tutto poi condensato nella categoria dei “valori non negoziabili” sui quali per lungo tempo è sembrato restringersi l’orizzonte cattolico.
Con l’elezione di papa Francesco è avvenuta la riconquista dell’orizzonte pieno dell’impegno politico di cattolici: con un’economia da liberare dall’incubo dell’esclusione e con una democrazia da vitalizzare come strumento di affermazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Ma qui si è dovuto registrare lo scarto tra l’impulso pontificio e le abitudini nel frattempo contratte dalle agenzie - episcopali e laiche - più accreditate nel mondo dei credenti.
Nel 2014, dopo le tormentate vicende postelettorali del 2013, mi accadde di scrivere un libro su “I cattolici e la politica” (Edb, Bologna) in cui, per esteso, illustravo l’esigenza, per tutti, di fare i conti con il passato in tutte le sue tappe. Comprese, ad esempio, le scomposte operazioni elettoralistiche messe in campo un anno prima con il coinvolgimento della Cei e passate agli atti come “iniziative di Todi”, dal luogo in cui ne avvenne la consumazione.
Ora si annuncia una speciale celebrazione dell’anniversario dei “liberi e forti”. Potrebbe essere l’occasione per una rivisitazione critica delle vicende succedutesi da allora ad oggi.
Non è certo che ciò avvenga. Ma per intanto può essere rassicurante la risposta del Presidente della Cei, il Cardinale Bassetti, a una domanda de “Il fatto Quotidiano”: “Per quello che mi riguarda non c’è alcuna Todi 3 o 4 all’orizzonte, né tantomeno il progetto di un partito di cattolici sponsorizzato dalla Cei”. Non sarà sufficiente, ma è un punto d’avvio necessario.