Ci sono dei tempi, a volte molto lunghi, nei quali le alcune idee acquisiscono “maturità”. A quel punto possono essere accolte come tappe di un percorso che porti a una evoluzione ulteriore.
Applicare i metodi nonviolenti al contrasto alle mafie ha sempre lasciato un po' perplesse molte persone impegnate nel sociale e nelle chiese.
Vorremmo rivisitare alcuni concetti che guidano questa riflessione, iniziata circa 15 anni.
L’intento che ci si proponeva e su cui si lavorò fino al convegno nazionale Superare il sistema mafioso - Il contributo della nonviolenza (Palermo, 2005) , può essere sintetizzato nei seguenti punti:
• Stimolare la ricerca delle scienze umane sul fenomeno mafioso collocandosi in una postazione più interna: si pensava infatti che per contrastare una realtà criminale fosse necessario far evolvere un sistema di cui anche noi ricercatori e cittadini, facciamo parte;
• Uscire da un paradigma esclusivamente giudiziario di contrasto alla mafia e favorire anche una evoluzione del paradigma della legalità dentro cui si muoveva il cosiddetto fronte “anti-mafia”, compresa Libera, nella sua prima stagione;
• Creare un ponte tra la dimensione spirituale che esige un cambiamento interiore di non complicità con le mafie e le azioni collettive per il cambiamento.
Abbiamo segnato una prima tappa con la pubblicazione di un libro a più voci con le riflessioni iniziali cui fece seguito l’organizzazione del convegno. Quest’appuntamento consentì l’incontro di varie persone anche fuori dalla Sicilia.
La nonviolenza non è soltanto un metodo di azione ma anche un modo di concepire la realtà sociale, vista come un organismo in cui le parti “cattive” sono intrecciate profondamente con quelle “sane”.
Questa visione rimanda alla impossibilità di estirpare violentemente una parte della società umana, per quanto essa possa essere, a ragione, giudicata “malata” poiché ogni malattia lascia tracce in tutto l’organismo, pronte a ricostituirsi velocemente.
Sembrerà strano, ma la persona che ci ispirava maggiormente era Giovanni Falcone, il nostro concittadino giudice, che ci aveva lasciato in eredità, quel bellissimo libro-intervista, scritto con Michele Padovani, in cui egli esplicita l’idea che si era fatto sulla mafia:
“La tendenza del mondo occidentale, europeo in particolare, è quella di esorcizzare il male proiettandolo su etnie e su comportamenti che ci appaiono diversi dal nostri. Ma se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia.[…] La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione.
Giovanni Falcone coniugava la sua competenza investigativa con uno straordinario intuito antropologico, che gli consentiva una conoscenza non solamente giudiziaria dell’universo mafioso. Questo modalità di comprensione è molto vicina al pensiero nonviolento.
Se la mafia è sistema, chi cerca di comprenderla non può adottare uno schema dualista (mafia-antimafia). Proprio a partire da queste intuizioni parlammo di “sistema sociale mafioso”, abbozzandone un modello con un centro (l’organizzazione mafiosa) e quattro sotto-sistemi:
• Politico-amministrativo
• Economico
• Culturale
• Affettivo e familiare
Questo modo di leggere la mafia parve eccessivo ad alcuni. In generale si preferiva parlare di “antimafia”. Oggi da quello stesso modo, comincia una lettura critica di quel paradigma: ci si accorge che spesso, anche con tutte le buone intenzioni, si costruiscono retoriche inconcludenti... Oggi quindi, consapevoli che i modelli non sono mai una fotografia della realtà, servono alla sua comprensione e soprattutto alla trasformazione, ci sentiamo di rilanciare l'idea del sistema sociale mafioso. Infatti, solo inscrivendo esplicitamente la mafia dentro la lettura del sistema sociale, appare evidente la sua natura “non residuale”. Il successo della mafia, è stato affermato da varie parti, non nasce da un’evoluzione interna alle organizzazioni mafiose. Esso si inserisce nella differenziazione del sistema sociale globale che a sua volta deve fronteggiare varie tendenze di crisi che ne minano le fondamenta.
Quale sia la crisi del mondo globalizzato è evidente: nonostante gli apparenti successi esso ha una difficoltà intrinseca, poiché il suo stato di perfetto funzionamento si ha nella misura in cui l’uomo è ridotto a cosa.
La mafia può ben costituire la soluzione del problema, perché ha costruito una cultura e sottili meccanismi di introiezione psicologica che fanno leva sulle aree di contiguità affettive e familiari. Essa salda la secolare tradizione locale con le esigenze di sopravvivenza del sistema economico planetario.
Negli studi sulla mafia il sistema politico-amministrativo e in particolare il sistema giudiziario permangono in una posizione centrale mentre invece andrebbe messo più a fuoco il sistema culturale. Oggi sono gli stessi magistrati, forse i più illuminati e intelligenti, a porre in guardia dai limiti del paradigma giudiziario.
Sappiamo tuttavia che una teoria del sistema non è sufficiente se non si accompagna a una teoria dell'azione. Dove sono gli attori del sistema? Come possono essi stessi modificarlo? E soprattutto: che tipo di attori siamo noi che parliamo di mafia? In quale area ci collochiamo? Che funzione possiamo svolgere per modificarlo?
Giovanni Falcone, nello stesso libro, affermava che la mafia ci rassomiglia. Si tratta oggi di capire “quanto” ci rassomiglia, segnare dei punti in una scala di distanziamento. Questo ci introduce finalmente alla nonviolenza…
È qui che dobbiamo costruire il punto di sutura tra una teoria del sistema e una teoria dell’azione. Detto in altri termini passare dalle parole ai fatti, ma senza tuttavia svalutare il valore del pensiero e della riflessività, indispensabili per un agire efficace.
Marinetta Cannito, amica di fede battista, impegnata negli USA nel campo della giustizia rigenerativa, partecipò al convegno di Palermo ed ha recentemente scritto un libro in cui sottolinea l’importanza di un'evoluzione teorica a cui è chiamato il mondo nonviolento. Si tratta di ridefinire il concetto di “soluzione dei conflitti” con quello di “trasformazione”. Ci aiuta per questo l'immagine di un corpo malato, che deve trovare al suo interno le modalità di guarigione. Un corpo guarisce non quando si va mutilando di ogni parte che non funziona, ma quando utilizza le parti sane per compensare o modificare le altre, riportandole al funzionamento originario o, il più delle volte, stimolando l'intero sistema ad assumere nuove modalità di funzionamento che portano a nuovi assetti vitali. Il processo di trasformazione, mai indolore, ha così la sua rilevanza. La sua narrazione non sarà più un elenco interminabile di vittime, ma la storia di esperienze di fuoriuscita, di guarigione, le uniche che possono rendere giustizia alle vittime e alla comunità lacerata. Forse è questo il cammino che le società meridionali dovrebbero intraprendere e su questo terreno vorremmo proporre nei prossimi numeri di Mosaico di pace pensieri e testimonianze.