Cari amici di Pax Christi, mi spiace molto mancare all’appuntamento con voi, ma purtroppo un’impietosa prevaricazione degli eventi strattona gli impegni e li restringe in spazi angusti. Ritornare alle origini delle scelte sortisce sempre l’effetto, magari scomodo ma comunque proficuo, di riverificare il cammino percorso, o meglio il suo senso.
Nel mio caso, l’incontro con voi si scatena – accade sempre così e non so per quale ragione – un’emozione spontanea e forte, probabilmente sprigionata dal profumo dell’amicizia di così lunga durata, ormai, e dunque stagionata, matura. Un’emozione infiammata anche dalla memoria di volti ed esperienze indelebili che hanno segnato la nostra formazione, illuminandola con un’intensità straordinaria, con una passione inguaribile per la ricerca della verità.
Sulle servitù militari vi avrei raccontato i piccoli ma importanti passi che stiamo compiendo per impedire il rovesciamento del sogno di Isaia, per ridurre la pressione dell’economia militare nel nostro territorio e per dilatare gli spazi di “un altro modello di sviluppo”. Vi avrei riassunto gli sforzi per costruire scenari di un futuro più fedeli ai sogni e alle vocazioni di una comunità, che comincia a provare il gusto di impastare con le proprie mani il proprio destino. Una comunità che comincia a non avere paura della propria libertà, anche quando costa fatica e significa attraversare il cammino stretto delle contraddizioni e dei conflitti. Ma soprattutto vi avrei posto una domanda sulla politica, che avverto come urgente. Questa.
Si pensa di poter cambiare la politica operando sulle cose da fare, intervenendo sull’agenda. Così ci si limita a incidere sugli effetti. Invece, il cambiamento profondo, strutturale, che ancora manca alla politica, non riguarda la relazione che intercorre tra istituzioni e cittadini?
Ve l’avrei posta così a bruciapelo, così come la percepisco all’interno di questo laboratorio di cambiamento che stiamo sperimentando nel governo della regione.
Fino a quando non avremo inciso sulla geometria di quella relazione, trasformando la piramide verticale del potere in una rete orizzontale di scambi comunicativi, la politica farà fatica a colmare il suo scarto con la realtà e non solo con le persone.
La politica sarà un mezzo non congruente con il fine della pace. Semplicemente.
Ecco, il cambiamento essenziale per la politica riguarda la condivisione del potere da parte dei cittadini.
La vera servitù militare di cui liberarsi è questa concezione del potere come dominio gerarchico, come comando e controllo della società. Ed è una servitù – vi assicuro – molto più radicata di quanto possiamo immaginare nelle culture politiche, nel costume burocratico ma anche nella testa delle persone.
Smilitarizzare la politica significa allargare gli spazi della partecipazione attiva dei cittadini.
Quando le istituzioni accettano la sfida della partecipazione, allora raccolgono in termini di maggiore efficacia delle loro politiche pubbliche, perché, condividendo le decisioni e le scelte, mobilitano molte più energie sociali per il cambiamento. Quando le istituzioni, al contrario, si rinchiudono nel fortilizio del potere, dilatano la frattura dalla società, si isolano, dunque incidono meno, molto meno.
Queste le inquietudini, su cui magari potremmo aprire un confronto anche dopo l’assemblea.
Vi auguro di svolgere un confronto appassionato e profondo.
Un abbraccio
Guglielmo Minervini
Molfetta, aprile 2006