Tutte le mattine quando esco dal carcere accarezzo subito con lo sguardo ogni cosa che i miei occhi riescono a vedere. La prima cosa che faccio è alzare la testa e osservare intensamente il cielo, come se fosse una bella donna. Poi mi metto in viaggio per raggiungere la struttura della Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da Don Oreste Benzi, dove ora continuo a scontare la mia pena, ma in modo utile, aiutando bambini e adulti disabili.
Questa mattina ho assistito per qualche ora Pio, un ragazzo con varie difficoltà motorie e cognitive. Non parla, forse neppure sente, ma sorride spesso. E quando lo fa mi riempie il cuore di luce. Mentre lo accudivo ho sfogliato qualche quotidiano e la notizia dell’approvazione alla Camera della legge sulla legittima difesa mi ha sbigottito, perché, secondo i nostri legislatori, per difendere le proprie cose si potrebbe ammazzare, se è notte...
Ma quello che mi ha ancor più rattristato e indignato è stata la notizia dell’ennesimo suicidio di un detenuto, un uomo anziano, di ben 76 anni, italiano, nel carcere di Parma.
E poi quella di un ragazzo di 33 anni, suicida nel carcere di Saluzzo.
Ovviamente queste notizie non hanno avuto nessun risalto, soprattutto rispetto alla precedente. Eppure io mi chiedo: ma il suicidio di un detenuto non rientra forse anche questo nella legittima difesa?
Non ci posso fare nulla: anche se io continuo a starci solo di notte, le notizie dei detenuti che si suicidano in carcere mi fanno stare male.
Nella mia ultima tesi, ho dedicato un capitolo ai suicidi in carcere, intitolandolo: “Il suicidio in carcere: devianza, scelta o necessità?”
Dalla mia ricerca ne è venuto fuori che, in percentuale, non c’è al mondo altro posto dove uomini e donne si tolgono la vita come nel pianeta carcere.
Una volontaria in carcere mi ha domandato perché un detenuto decide di suicidarsi e io le ho risposto con un’altra domanda: «Perché un detenuto non si dovrebbe suicidare?».
Credo che sotto certi aspetti sia più “normale” e razionale chi si suicida, rispetto a chi continua a vivere nella sofferenza. Ho sempre compreso i prigionieri che scelgono di farla finita, perché quando la vita ti offre solo infelicità è durissima continuare a vivere.
Alcuni detenuti si tolgono la vita perché l’Assassino dei Sogni (come io chiamo il carcere) non risponde mai ai loro appelli disperati; altri lo fanno per ritornare a essere uomini liberi, anche se liberano solo lo spirito. Alcuni s’impiccano alle sbarre della loro finestra perché fuori non hanno niente e nessuno ad attenderli.
Credo, insomma, che molti detenuti si tolgano la vita in carcere non perché siano stanchi di vivere, ma perché amano tanto la vita e non accettano di vederla appassire e distruggere dentro le mura di un penitenziario.
E allora non è forse anche questa una forma di legittima difesa?
Uccidersi non è facile, ma vivere nelle patrie galere italiane è ancora più difficile.
Per questo nelle carceri italiane si continua a morire.
E nessuno fa nulla. Quasi nessuno parla o scrive del perché in carcere siano così in tanti a togliersi la vita.
I nostri politici dovrebbero sapere che in carcere si muore in tanti modi: di malattia, di solitudine, di sofferenza, di ottusa burocrazia e d’illegalità. Riuscire a vivere nelle galere italiane è diventato un lusso che alcuni detenuti non si possono permettere. Per questo a volte ammazzarsi diventa una vera e propria necessità.
E questa non è una libera scelta, come alcuni cinici potrebbero pensare, ma è legittima difesa contro l'emarginazione e la disperazione.
Maggio 2017