“È una domanda da ricchi!”. Soltanto il sorriso bonario sotto i baffoni ben curati e la tenerezza dello sguardo offrivano la giusta chiave di lettura per quella risposta che diversamente sarebbe potuta suonare dura o persino ideologica.
P. Tilo Sánchez ci stava regalando uno dei suoi rarissimi momenti di riposo, o forse sarebbe più corretto dire che lo stava concedendo a se stesso, soltanto per offrire a noi un giorno di serenità, dopo tanti passati a mostrarci i segni dell’oppressione sul suo popolo.
Ce ne stavamo quindi sdraiati sul bagnasciuga di una incontaminata spiaggia salvadoregna e i ricordi della rivoluzione si mischiavano spontaneamente ad alcune analisi sul presente: mancavano pochi giorni al fatidico 11 settembre 2001, ma soprattutto da poche settimane s’era tenuto a Genova quel G8 della vergogna, che avrebbe lasciato un senso di insicurezza e impotenza in quanti volevano leggere la realtà con lucidità, senza pessimismo ma neppure facili irenismi.
Gli avevo perciò chiesto, quasi a bruciapelo: «Ma secondo te, è ragionevole sperare di riuscirci?»: sottointeso, a cambiare le cose, il mondo, l’ingiustizia del sistema. Quella fu appunto la risposta: «È una domanda da ricchi! Gli schiavi non hanno mai potuto permettersi il lusso di farsela. Loro possono soltanto lottare per cercare di salvarsi».
Questo era P. Tilo: un uomo che guardava le cose con gli occhi del popolo; e poiché il popolo è tutt’altro che omogeneo, li guardava con gli occhi della parte più oppressa.
«Ideologico!» obbietterà qualcuno. Può darsi, ma dell’ideologia di chi molto prima di lui aveva proclamato: «beati voi poveri… ma guai a voi ricchi» (Lc 6,20.24). Fin da giovinetto infatti Tilo s’era accorto che il suo desiderio di servire il popolo calzava perfettamente con l’insegnamento di Gesù, ed è precisamente e soltanto in quel sodalizio che vanno cercate le radici della sua vocazione sacerdotale, come di qualsiasi cosa avrebbe fatto nel corso di tutta la vita, in forza di e non nonostante quella fedeltà.
Per questo ritengo che ricordarlo semplicemente come un «prete guerrigliero», sarebbe alquanto riduttivo. Per lui, come per gran parte della sua gente (concretamente dei suoi parrocchiani) la guerriglia fu una scelta obbligata, l’estrema ratio; e perciò lo si può considerare a ragione l’emblema di quella generazione di cristiani impegnati che lottarono per la liberazione e la giustizia, non in nome di un’ideologia, bensì del vangelo. Certo, si può essere d’accordo oppure no. Il primo a non condividere quella scelta e a tentare fin all’ultimo un’impossibile mediazione fu proprio Mons. Romero, che però poco alla volta si vide costretto a riconoscerne perlomeno le ragioni.
Non vi riuscirono invece coloro che per anni si ostinarono a giudicarle da lontano (soprattutto dentro la Chiesa) e continuano a ripetere come un mantra: «i comunisti salvadoregni strumentalizzano Mons. Romero, citando le sue frasi fuori contesto».
Cechi e guide di cechi! Non hanno capito – o voluto capire! – che non si trattava di comunisti in mala fede, pronti a distorcere le parole d’un santo vescovo per propaganda, bensì di cristiani (catechisti, agenti di pastorale, operatori caritas, religiose...) che essendo cresciuti in parrocchia, alla scuola del loro pastore, pur vedendosi obbligati a combattere come mai avrebbero immaginato né voluto, continuarono a riferirsi al suo insegnamento.
Per questo la lettera scritta da P. Tilo a Mons. Arturo Rivera y Damas (Arcivescovo di San Salvador, sincero collaboratore e successore di Mons. Romero), per spiegargli le ragioni della sua decisione, non soltanto aiuta a conoscere meglio lui, che fu sacerdote sino alla fine «per servire il suo popolo», ma rende pure giustizia ad un’intera generazione
di cristiani, che ha pagato con sacrifici eroici la propria fedeltà al vangelo e agli oppressi.
LETTERA A MONSIGNOR RIVERA Y DAMAS DI PADRE RUTILIO SÁNCHEZ
Febbraio 1981
Stimatissimo e amato Monsignor Arturo Rivera y Damas: Riceva un saluto filiale. Monsignore: È la prima volta che le scrivo; quasi sempre i miei problemi e le mie richieste gliele ho presentate personalmente, ma ora le circostanze me lo impediscono e lo faccio per mezzo di questa lettera.
Dopo il nostro ultimo incontro, volando da Madrid a Lisbona, in cui abbiamo parlato in modo così bello e fraterno, ho riflettuto molto sui temi che abbiamo toccato. Uno dei temi è stata la situazione spirituale del popolo salvadoregno. Arrivammo al punto di paragonare le sofferenze dei poveri contadini e operai alle sofferenze degli Israeliti in Egitto, davanti al Faraone. Gli dissi che i salvadoregni in quel senso avevano meno speranza, perché gli israeliti sognavano di tornare alla loro terra e che i salvadoregni non hanno terra o Patria diversa da quella che gli serve da tomba e in cui non possono vivere, e quando escono per cercare rifugio sono così maltrattati che la loro situazione diventa doppiamente tragica.
Inoltre, ricordo che abbiamo parlato degli sforzi del nostro popolo per liberarsi dall'oppressione in cui ha vissuto fin dalla Colonia e che, come al tempo delle piaghe d'Egitto, i nostri Faraoni hanno riso e hanno represso con sangue e fuoco adornando quelle morti con promesse vane che non furono mai mantenute; che l'ingratitudine del Faraone fu così grande che Yahweh - Dio degli eserciti - fu costretto a fare giustizia di propria mano, quando mandò l'Angelo Sterminatore a eseguirla sui primogenito di tutto l'Egitto; che non possiamo rimanere indifferenti oggi quando il popolo salvadoregno, che vive la sua Bibbia — di passione, morte e risurrezione — e vede quella posizione divina esemplare, ha deciso di esercitare il sacro diritto a difendersi e a difendere le generazioni future, di proteggere gli anziani impotenti e i bambini indifesi, ricorrendo all'uso delle armi, dopo aver compiuto tutti gli sforzi pacifici possibili e aver sofferto nella propria carne più di sette piaghe, per colpa di sfruttatori e governanti crudeli, egoisti e irresponsabili che abbiamo avuto in El Salvador.
Prima di diventare sacerdote, tutta la mia giovinezza l’avevo dedicata al servizio dei miei fratelli. Come contadino, figlio di contadini, sento che il sacerdozio di cui Dio mi ha onorato senza meritarlo, non potrei realizzarlo senza l'accompagnamento che ho svolto finora. Gli attentati - più di otto - contro la mia vita, da cui mi hanno salvato la Comunità e i Parrocchiani, fanno sì che la mia vita non mi appartenga più, ma appartenga a quel popolo sofferente, pacifico, fraterno e laborioso.
Lei sa come nei primi mesi dell'anno Ottanta, e soprattutto dopo l'omicidio del profeta salvadoregno Mons. Oscar Romero, la mia vita normale divenne impossibile; i miei ultimi cinque anni di persecuzione si fecero più terribili e culminarono con due invasioni dei fatidici "Boinas Negras", del Battaglione dell'aviazione, alla canonica di San Martín. Durante quelle invasioni, tutti i miei effetti personali sono stati rubati, sono stati picchiati, fatti scomparire e assassinati i miei fratelli catechisti e in seguito sono stati uccisi dodici membri del Consiglio Parrocchiale.
Tutto questo mi portò a parlare con lei il 12 maggio per chiederle protezione. L'unica alternativa che mi offrì fu lasciare il paese. È così che ho lasciato la mia Patria per un po'.
Ricordo che in quell'occasione, chiedendo la sua benedizione, gli spiegai che il mio sacerdozio lo avrei sempre dedicato alla ricerca della liberazione del mio popolo; che non potevo essere sacerdote senza sentire l'obbligo di dedicarmi, nel luogo in cui vivevo, al servizio della pace e della libertà dei salvadoregni. Non dimenticherò mai il gesto paterno che fece consegnandomi una lettera di raccomandazione per essere accettato come sacerdote in qualsiasi diocesi.
In Messico, mi unii al Fronte Democratico Rivoluzionario (FDR) di El Salvador. Non ho mai abbandonato il mio sacerdozio, e Dio mi ha dato l'opportunità di denunciare davanti alle nazioni il genocidio, l'ingiustizia, la repressione contro i poveri lavoratori del mio popolo. Passarono diciotto mesi: viaggiai per l'Europa e l'America adempiendo la missione, impegnativa e sacerdotale, di annunciare la speranza e la verità della Rivoluzione Popolare Salvadoregna.
Ora, caro Monsignore, credo che sia giunto il momento di progredire nella mia vita di impegno. Ho ricevuto bellissimi doni da Dio e il più grande è servire il mio popolo in mezzo a grandi sacrifici. In onore a tanti martiri, devo rendere ogni giorno più concreto quell'amore per i miei fratelli e specialmente per i salvadoregni più poveri.
Credo nel sacerdozio, come segno di servizio efficace nella comunità. Credo in Gesù- Popolo-Cristo, capace di insegnarci a trasformare la società da crudele a umana e condurci alla pienezza, e come suo discepolo, senza abbandonare il mio Sacramento e renderlo totalmente profetico, ho deciso, con totale disinteresse per la gloria umana, di incardinarmi nuovamente nelle Comunità di El Salvador.
So che non potrò avere una sede parrocchiale, ma so che le necessità sacramentali sono urgenti. Mediante la consolazione agli orfani e ai tristi, la comunione e la confessione ai moribondi, il catechismo a un gran numero di bambini orfani (in definitiva quelle valli e quelle montagne richiedono impegno e lotta di liberazione...) potrò accompagnare quelle pecore, oggi senza pastori. I loro cuori e le loro anime hanno bisogno della forza della Cena del Signore; molti bambini sono nati e sono senza battesimo... voglio essere lì. Una guerra non si vince solo sparando; è necessario l'impegno di tutti i cristiani; cercherò di realizzare quanto dice l'apostolo Paolo: (l'ho messo nell’immagine della mia ordinazione)
«Il sacerdote è: un uomo preso tra gli uomini per servire gli uomini».
Istruirò, assisterò e curerò i malati, trasporterò i feriti; quei piccoli ranch e quelle grotte saranno i templi dove celebreremo l'Eucaristia-Resurrezione del falegname di Nazareth, figlio di Giuseppe e Maria.
Voglio chiederle, come quando ho lasciato il Paese, la sua benedizione di pastore, padre responsabile di quegli uomini battezzati nella nostra Fede, per essere lì ad accompagnarli. Hanno bisogno della presenza dell'Eucaristia e della testimonianza di Fede.
La Chiesa di tutti i tempi ha creduto che sia un dovere sacerdotale e profetico essere presente nei luoghi e nei momenti più critici del popolo ed è possibile esserci da cristiani solo quando si vive una presenza «in giustizia e fedeltà». E sono pienamente convinto, in coscienza, che oggi la giustizia e la fedeltà sono con i combattenti dell'FMLN. E’ anche in questa lotta di liberazione il posto dell'annuncio della Buona Novella... Per questo spero che questa decisione non possa essere condannata dalla Chiesa, dal Papa o da Lei. Vado a cercare la pecora ferita che si è persa sulla montagna.
Desidero che questa lettera la legga nel Presbiterio della nostra arcidiocesi di cui faccio parte e vi prego di comprendere la mia decisione. È la decisione più serena e materiale che ho preso nella mia vita; non si tratta di nessun estremismo. Mi sono anche consultato con i miei fratelli e amici, laici e sacerdoti delle nostre comunità che continuano a vivere la fede in terre straniere e nei rifugi. Per me è un passo verso un nuovo impegno nella linea della mia vocazione sacerdotale, quindi non intendo criticare nessuno. Sarebbe negativo denigrare la Chiesa di Cristo o rinunciare alla mia fede, al mio sacerdozio o all'Eucaristia, portando a motivazione l'anti-testimonianza ricevuta da alcuni confratelli sacerdoti o vescovi.
Intendo solo prendere la croce e seguire Gesù nei burroni, sui colli, nelle trincee dove si vive lo spirito e la lettera delle Beatitudini, creando le basi del Regno di Dio, un mondo dove ci sia il pane per tutti, vestiti per i cenciosi e dove possiamo seppellire i nostri morti che non moriranno più prima del tempo a causa della fame o della violenza e dove ci sia consolazione per i tristi e scuole per il futuro.
Mi congedo come sacerdote, cercatore di nuove fedeltà evangeliche e come fratello responsabile di tutti gli uomini... e dicendovi con gioia: «A presto».
Che il mio saluto e il mio abbraccio siano veritieri. José Rutilio Sánchez., Pbro.