Chi scrive queste righe è ancora convinto che le passioni possano salvare la vita. A me è successo, continua ad accadere. E continuo a vederlo intorno a me, in tante storie personali. Parlo delle passioni più grandi, più nobili: ma anche di quelle che si possono rubricare come minori. La musica, l’arte, il cinema, il teatro…solo in apparenza sono minori. Dipende da che ruolo hanno avuto, e perché, nei nostri giorni.
Premessa necessaria riflettendo sull'entusiasmo – e comunque, un acceso dibattito – che si è mosso intorno a Don’t Look Up, il film di Adam McKay passato velocemente in sala per poi approdare dove era destinato, sulla piattaforma Netflix, che l’ha prodotto. Nella paradigmatica vicenda di una cometa che sta per colpire la Terra, gli sforzi di chi si rende conto del pericolo contro l’idiozia delle autorità statunitensi che minimizzano prima, e poi cercano di trarre profitto dal cataclisma, si legge facilmente tutta la preoccupazione di molti per l’involuzione della politica, dei sistemi mediatici, della capacità di popoli interi di prendere coscienza dei problemi globali. Qui il soggetto parla di un corpo celeste che può distruggere il pianeta (con ben altri intenti il cinema nordamericano aveva affrontato il tema qualche anno fa, con prodotti di largo consumo come Deep Impact o Armageddon) ma è facile pensare a contesti meno fantasiosi, terribilmente reali, come la crisi dell’ecosistema o le pandemie. Questo film non è quindi un’opera di fantascienza distopica. È una impietosa e attendibile analisi della crisi culturale che attanaglia la nostra contemporaneità: che da culturale, diviene, inevitabilmente, politica. L’intento non è nuovo per McKay, che in due suoi film precedenti ha già affrontato l’apocalittica vicenda della bolla speculativa che ha prostrato – ma non annientata nei suoi aspetti peggiori – l’economia globale nel 2008\2009 e il declino etico della presidenza statunitense durante le amministrazioni Bush, parlandone attraverso la biografia di Dick Cheney. Ne La grande scommessa e in Vice con un linguaggio cinematografico molto brillante si fa digerire allo spettatore progressista e antiliberista il boccone amaro di passaggi storici terribili. Oddio, digerire no…diciamo inghiottire con un sorriso stentato.
Per cui, come accennavo sopra, tra le persone che conosco e che mi sono consimili per sensibilità sociopolitica Don’t Look Up è stato salutato come una metafora, efficace e graffiante, della politica peggiore che possiamo immaginare, e vivere: nella speranza che la sua visione possa muovere un livello di consapevolezza che raggiunga molti e faccia pensare. La passione per il cinema giustifica la convinzione che un film possa perseguire un tale effetto, che il cinema – e gli altri media – ci possano quindi salvare la vita? Una possibile risposta va oltre i miei modesti mezzi. La prospettiva suggerita dal titolo del film – slogan della presidentessa USA Janie Orlean per contrastare chi chiede di guardare in alto per rendersi conto che la cometa non solo esiste davvero, ma sta arrivando ad annientare il mondo – evoca una dimensione in cui non siamo più capaci di vedere quello che davvero accade, totalmente accecati da un sistema di comunicazione di massa che ci fa vedere solo quanto vogliono farci vedere, in ultima analisi quel che noi stessi desideriamo vedere per compiacere il nostro ego (si veda a riguardo un documentario Netflix, The social dilemma: non dormirete bene per un paio di notti). Si rassegnino quelli che, come me, continuano a far riferimento al grande insegnamento di Emmanuel Kant nel suo Critica della ragion pratica: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza”. Sono tempi duri. Impossibile non pensare che ne usciremo.
Ci stiamo illudendo a riguardo? Ci chiedono di non guardare in alto, per smarrire il senso etico e quindi essere facilmente asserviti ai poteri di turno: ci stanno riuscendo? Il film di McKay ha il merito di mostrarci il re nudo, l’elefante in mezzo alla stanza che non abbiamo il coraggio di considerare. È la sceneggiatura più politica di questo regista, anche se neanche Vice e La grande scommessa (superiori, secondo me, dal punto di vista cinematografico) si tiravano indietro nell’analisi di una classe politica, che da Nixon (qui il suo ritratto campeggia nello Studio Ovale alle spalle di una presidentessa illustrata con i tratti di Trump) in poi semina inquietudini a piene mani e certezze di mal governo e ingiustizia globale, esportata con abbondanza di mezzi, bellici e non. Ma non chiediamo a un film di toglierci la responsabilità di tornare, noi stessi, a farla, quella azione politica che esecriamo in tanti suoi rappresentanti. Niente ci toglie la responsabilità di essere parte di questa contemporaneità. E con essa la radicata speranza che se si rimane intelligenti, critici e capaci di sognare una realtà altra non siamo sconfitti. La partita è ancora aperta.