Lavoro e diritti i temi al centro.
Il colloquio fra il giurista Colaianni e il vescovo Satriano, che anticipa la via intrapresa dalla comunità pastorale con il Sinodo. “. Superiamo autoreferenzialità e clericalismo: ostacolano la vicinanza alla gente”
(Fonte: Repubblica Bari, 15 febbraio 2022)
Giuseppe Satriano è da poco più di un anno il vescovo di Bari. Al suo nome sul sito dell’arcidiocesi è anteposto il tradizionale “S.E. mons.” ma in calce ai messaggi che vi sono riportati la firma è semplicemente“ don Giuseppe, vescovo”. E, a dialogare con lui, si percepisce subito che è il “don” che corrisponde alla sua personalità. Lo incontro alla “casa del clero”, dove attualmente abita mescolandosi ai preti della diocesi che lì sono ospitati.
Nicola Colaianni. La vertenza della Bosch fa da detonatore della crisi dell’occupazione a Bari. La transizione ecologica, come a suo tempo l’industrializzazione, crea nuovi poveri: 259mila in età lavorativa, calcolano i sindacati. 4mila posti di lavoro a rischio. È una buona nuova che con un comunicato il vescovo abbia condiviso queste preoccupazioni.
Giuseppe Satriano. Argomenti come questo credo siano parte dell’agenda pastorale della Chiesa. Il vescovo è chiamato a essere sentinella del suo popolo. Sono centinaia le famiglie in allarme. Ciò preoccupa anche la comunità ecclesiale. Il cercare di esserci come vescovo credo sia importante per svegliare le coscienze, quelle dei fedeli come quelle delle istituzioni, e non solo. Da qualche mese, con Caritas e chi si occupa di problemi del lavoro, stiamo studiando l’attivazione di un piccolo microcredito come segno di vicinanza a chi si ritrova nella fatica di riavviare piccoli percorsi lavorativi.
N.C. In effetti, la Chiesa in uscita, come dice papa Francesco, incontra la città e i suoi problemi. Legalità, sicurezza, buon andamento delle amministrazioni pubbliche. Pensiamo alla corruzione che si è diffusa anche in Regione, per giunta nel campo della protezione civile. E naturalmente al male endemico delle mafie. Ma su questo non di rado si registra un’afasia della Chiesa a Bari, come se la pastorale fosse indifferente al contesto sociale, standardizzata.
G.S. Da tempo la Chiesa, denuncia malaffare e corruzione, fuori ma anche dentro di essa. Sta di fatto che pur conservando alcune comuni linee d’impegno i vissuti pastorali sono diversi per realtà culturali e situazioni ambientali. Il papa nella Evangelii gaudium invita la Chiesa a una pastorale missionaria, esortando ad aprire percorsi capaci di toccare la vita, l’umano, prendendosi cura delle ferite spirituali e materiali della nostra gente. Su questa linea molti sono i segnali di prossimità messi in atto ovunque, anche nella nostra Chiesa di Bari-Bitonto. Certamente tanti sono i ritardi su cui lavorare. La sfida è vincere ogni forma di autoreferenzialità, di clericalismo che ostacola una reale vicinanza alla gente.
N.C. Ha detto: “Vincere ogni forma di autoreferenzialità”. È il compito del Sinodo. A Bari c’è n’è stato uno, più di vent'anni fa, ma non ha lasciato traccia. E questa volta? Domando perché a Bari – non solo, anche altrove - la Chiesa pare un po’ affaticata, appagata dal “si è sempre fatto così”. Ce la farà a star dietro a questo papa camminatore, per il quale il cammino si fa camminando, come dice Antonio Machado, il poeta che gli è caro?
G.S. Tema del Sinodo che è appena iniziato è, in maniera significativa, la “sinodalità”: ovvero il riflettere sullo stile che come Chiesa abbiamo nel confrontarci e nel camminare insieme. In altre parole non si desidera elaborare documenti ma mettere a tema uno stile pastorale che riattivi i canali di partecipazione abbozzati dal Concilio, ma che non hanno avuto piena attuazione. Il Cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia non vuole essere uno strumento rigido, ingessato, ma uno spazio per valorizzare tutti e vivere un profondo discernimento comunitario. È una scommessa di Chiesa che, pur avendo registrato qualche lentezza in fase di partenza, ora ci vede impegnati nel cercare di vivere al meglio questa opportunità di crescita.
N.C. Il termine “scommessa” fa venire alla memoria la parabola evangelica dei talenti e il duro rimprovero del padrone al servo che sotterra l’unico talento per paura di perderlo investendolo. Anche la Chiesa sembra sotterrare il talento del Vangelo per evitare il rischio della scommessa.
G.S. Talvolta può dare questa sensazione, ma così non è. Ovviamente serve coraggio. Bisogna esporsi, osare il Vangelo. L’invito è a non cercare un nido ma esporsi al vento dello Spirito, affrontando l’inedito di Dio, senza conoscere dove lo Spirito ti conduce. È questa la sfida, la scommessa ricca di profezia che il Sinodo chiede alla Chiesa: camminare insieme, senza una meta predefinita che non sia l’amore per l’altro; far passare il futuro per le strettoie del presente.
N.C. Perciò, disse il Papa ai vescovi già nel 2015 a Firenze, non serve cercare soluzioni in “condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative”. La programmata discussione in piccoli gruppi dovrebbe aiutare ad essere concreti, senza rifugiarsi in appelli privi di riscontro. Non bisogna nascondersi però gli ostacoli sulla strada. Per andare mano nella mano occorre da un lato la credibilità di chi offre la mano e dall’altra la disponibilità a stringerla, la recettibilità. Lei ha già accennato al clericalismo, una rigidità che ovviamente allontana l’altro. Parliamo ora degli abusi sessuali, che minano la credibilità della Chiesa. Perché non si fa un’indagine anche in Italia, affidata ad una commissione esterna, come invece in Francia, Germania, Nord America?
G.S. Ci stiamo riflettendo e si sta camminando in tal senso. Intanto diciamo che la Chiesa italiana ha posto in essere centri di ascolto per minori abusati, aperti in ogni diocesi. Molte di esse sono impegnate sul piano educativo della prevenzione. Quello che ci sembra importante è inquadrare e contestualizzare bene il fenomeno, evitando dannosi atteggiamenti giustizialisti. Il fenomeno è grave e non riguarda solo la Chiesa ma ogni realtà umana abitata dai minori. Il problema ha una radice culturale ed educativa. Fino ad alcuni decenni fa era taciuto ovunque e poco si faceva per affrontarlo. Oggi, accanto alla giusta punizione del colpevole e la vicinanza indiscussa alla vittima, va affiancato un notevole impegno sul capo educativo della prevenzione. Anche all'interno dei nostri seminari vi è un più accurato discernimento riguardo alle vocazioni e un cambiamento di stile nella formazione dei giovani in cammino verso il sacerdozio.
N.C. Passiamo ai problemi di ricezione. C’è uno scisma sommerso, specialmente nell'etica personale e familiare, perché la fede non è più un riferimento di vita.
Come annunciare un’etica altruistica se il parametro è il benessere personale? Si rimane sposati o si convive finché si va d’accordo; nella bioetica conta l’efficacia della tecnica. Nei rapporti sociali diamo ospitalità all’immigrato solo se possiamo sfruttarne la forza lavoro. Il disumano diventa ragionevole, lei ha detto. Il papa parla di mondanità spirituale.
G.S. San Giovanni Paolo II ebbe a scrivere sul materialismo pratico come il vero pericolo del terzo millennio, per la fede e l’umanità. Viviamo in un tempo di post verità, il relativismo etico e il principio di autodeterminazione che lo sostiene sono evidenti. Il nichilismo è una delle derive di questo tempo. Bello il discorso d’insediamento del presidente Mattarella che torna ad insistere sul valore costituzionale della dignità della persona. Oggi, troppo spesso, ci ritroviamo a legittimare scelte disumane ritenute opportune, legittime, vedi la morte di migranti a cui è negato un porto. In questo quadro, però, un dato antropologico positivo sembra resistere: il bisogno di relazione.
“Nessuno si salva da solo” ha detto il papa la sera di quel 27 marzo 2020. Da qui l’impegno, come Chiesa, ad incontrare le persone sulla soglia della loro vita, ascoltando le storie senza giudicare, senza escludere.
Lungi da forme di sterile proselitismo siamo chiamati a metterci accanto, in ascolto, testimoniando la vicinanza di un Dio che è amore. È interessante, a tal proposito, cogliere come si apre e si chiude la narrazione degli Atti degli Apostoli. La Chiesa primitiva non nasce nel Tempio ma in una casa, il Cenacolo, mentre l’ultima scena raffigura Paolo in una casa a Roma – presa in affitto! - nella quale egli accoglie, ascolta ed evangelizza. Una bella dimensione di autentica prossimità.
N.C. Proprio Mattarella, e qualche giorno prima David Sassoli, esponenti del cattolicesimo democratico, ci hanno rinfrancato in questo momento arido delle istituzioni con il loro sentimento alto della politica e della Costituzione. Tuttavia, l’insistenza negli ultimi decenni sui progetti culturali e sui valori non negoziabili non ha certo incoraggiato a procedere lungo quel solco in cui la fede incontra la politica. Per sfuggire all’irrilevanza e inserire elementi etici nella legislazione e nell’amministrazione occorre essere capaci di fare i conti con la politica da cattolici adulti, come disse Prodi al cardinale Ruini, in autonomia.
G.S. In riferimento a questo, nella Chiesa ritengo sia stato mancante un impegno educativo, di formazione delle coscienze. I cammini di fede hanno perso incisività sul piano sociale e sul tema del bene comune, fuggendo la dimensione politica attiva. È rimasto una sorta di interventismo sociale non sorretto da una formazione profonda delle coscienze. Anche in questo campo, penso, la sfida primaria non è tanto creare schieramenti, ma tornare ad una formazione alla cittadinanza attiva che profumi di vangelo, di scelte serie, autorevoli, capaci di sposare le sfide sociali del momento, sapendo dialogare con ogni uomo di buona volontà.
N.C. Un contributo, insomma, a praticare e custodire la democrazia. Le leggo, per concludere, una frase che si trova nel decreto di venerabilità di don Tonino Bello: “sopportò le difficoltà e le accuse di quanti disapprovavano le sue affermazioni e iniziative”. Erano quelle che don Tonino prendeva in piena autonomia, coniugando Vangelo e realtà sociale e politica. Proprio per questa condotta luminosa anche un giornale laico, come Repubblica, lo ha ricordato in un libro di autori vari, credenti e non. Possiamo dire che è un punto di riferimento anche per il vescovo di Bari ?
G.S. Non solo per me ma per tutto il corpo episcopale don Tonino è un segno di virtù, coltivate con perseveranza. Aveva conosciuto la realtà operaia con l’Onarmo a Bologna; era stato accanto al suo vescovo al Concilio. Divenuto vescovo egli stesso, s’è preso cura del suo popolo, sposando ogni situazione di fatica della sua gente. Denunciò la logica degli sfratti e, al tempo stesso, accolse gli sfrattati in episcopio. Così fu per il documento sulla pace contro gli F104 a Gioia o il poligono di tiro di Torre di Nebbia o gli scioperi alle ferriere di Giovinazzo. Oggi però dobbiamo stare attenti a farne un eroe, un santino di cui raccontare ammirati gesti straordinari ma irraggiungibili. Il suo straordinario, non sembri un gioco di parole, era fare l’ordinario del cristiano, straordinariamente bene, con amore vero. Quello che ammiro in don Tonino è la capacità di accogliere e mettersi in ascolto dell’altro, da qui il passo successivo diventa naturale, la vita dell’altro diventa un segno che ti trasforma e trasfigura la vita.