La percezione di un’immigrazione montante e drammatica è un dato di senso comune così potente e comunemente accettato da non essere mai posto in discussione. Lo stesso accade per il rapporto tra immigrazione e povertà.
E pochi osano avanzare dubbi nei confronti dell’inossidabile slogan “aiutiamoli a casa loro”. In realtà anche chi vorrebbe stare dalla parte degli immigrati o almeno assumere una posizione equilibrata accetta l’inquadramento del fenomeno fornito da un senso comune largamente ostile. Il primo passo per un approccio serio alla questione consiste invece nel conoscere qualche dato fondamentale e interpretarlo adeguatamente.
Maurizio Ambrosini, università degli studi di Milano
(Ufficio nazionale per l'Ecumenismo e il dialogo religioso)
Info: Ufficio nazionale Ecumenismo e Dialogo Interreligioso
- Identificare gli immigrati: una questione non banale
L’immigrazione è antica come l’umanità, ma in epoca moderna è stata definita e regolata in rapporto al concetto di nazione e all’istituzione degli Stati nazionali. La costruzione delle identità nazionali si è basata sull’idea di comunità omogenee, solidali al loro interno e racchiuse entro confini ben definiti. Gli immigrati internazionali hanno sempre rappresentato un inciampo rispetto ai progetti di formazione di società coese sotto l’insegna della bandiera nazionale: sono stranieri, portatori generalmente di lingue e abitudini diverse da quelle localmente prevalenti, che vengono a insediarsi sul territorio della nazione (Ambrosini, 2014).
A partire da questa premessa, possiamo introdurre il concetto di immigrato così come viene definito dall’ONU: una persona che si è spostata in un paese diverso da quello di residenza abituale e che vive in quel paese da più di un anno. La definizione include tre elementi: l’attraversamento di un confine nazionale; lo spostamento in un altro paese, a diverso da quello in cui il soggetto è nato o ha vissuto abitualmente nel periodo precedente il trasferimento; una permanenza prolungata nel nuovo paese, fissata convenzionalmente in almeno un anno. Intende chiarire così che l’immigrato non è un turista, un partecipante a un congresso di pochi giorni, un operatore commerciale che accede a una fiera o viaggia per incontrare dei clienti.
Nella vita quotidiana però la definizione assume una declinazione operativa sensibilmente diversa. Di fatto noi definiamo come “immigrati” solo una parte degli stranieri che risiedono stabilmente e lavorano nel nostro paese. Ne sono esentati non solo i cittadini francesi o tedeschi, ma pure statunitensi, giapponesi e coreani, anche quando ricadono nella definizione convenzionale di immigrato prima riportata. Raramente si contesta a un cittadino statunitense o giapponese il diritto di entrare, uscire e circolare nel nostro paese. Gli si consente di portare con sé la propria famiglia. Il riconoscimento dei suoi titoli di studio, benché non proprio agevole, gode di un trattamento preferenziale rispetto a quello a cui sono sottoposti i titoli in possesso dei cittadini di paesi più deboli.
Lo stesso vale per il termine extracomunitari, un concetto giuridico (non appartenenti all’Unione europea), diventato invece sinonimo di “immigrati”, con conseguenze paradossali: non si applica agli statunitensi, ma molti continuano a usarlo per i rumeni. Di fatto il termine ha recuperato la sua valenza etimologica: noi chiamiamo extracomunitari coloro che non fanno parte della nostra comunità intesa in senso lato, di cittadini del Nord del mondo: della nostra comunità di benestanti, se la vediamo in una prospettiva globale. Immigrati (ed extracomunitari) sono dunque ai nostri occhi soltanto gli stranieri provenienti da Paesi che classifichiamo come poveri, mai quelli originari di Paesi sviluppati. Il concetto contiene quindi un’implicita valenza peggiorativa: in quanto poveri, questi stranieri sono minacciosi, perché potrebbero volerci portare via qualcosa, oppure sono bisognosi di assistenza, e quindi suscettibili di rappresentare un carico per la nazione; e comunque sono considerati meno evoluti e civilizzati di noi.
C’è però un’interessante eccezione: si riferisce ai cittadini di paesi di per sé classificabili come luoghi di emigrazione, ossia poveri e arretrati, ma individualmente riscattati dall’eccellenza nello sport, nella musica, nell’arte, o quanto meno negli affari. Neanche a essi si applica l’etichetta di “immigrati”: il loro successo li ha affrancati da quella condizione di povertà che si associa intrinsecamente alla nozione di immigrato. Come ha detto qualcuno, “la ricchezza sbianca”. Il calciatore africano o l’uomo d’affari medio-orientale non allarma particolarmente le società riceventi, e anche le sue eventuali diversità, religiose o alimentari, sono ampiamente tollerate. La stessa rappresentazione della diversità, e della sua eventuale minaccia per l’identità culturale della società ricevente, non sembra coinvolgere i benestanti.
Possiamo quindi affermare che l’impiego del concetto di immigrato allude alla percezione di una doppia alterità: una nazionalità straniera e una condizione di povertà. Generalmente, quando un individuo o un gruppo riesce a liberarsi di uno di questi due stigmi, cessa di essere considerato un immigrato.
- Gli immigrati e i flussi migratori sono diversi e più vari di come li rappresentiamo.
Possiamo poi distinguere su scala internazionale, al seguito di Wihtol de Wenden (2016), quattro distinti flussi migratori. Il primo va dal Nord al Nord del mondo, e interessa circa 50 milioni di persone: in maggioranza giovani qualificati che hanno nei luoghi di arrivo gli stessi diritti di cui godono nei Paesi di origine. Alcuni si trovano nella peculiare condizione dei frontalieri, abitando in un paese e lavorando in un altro. Altri circolano, vivendo la mobilità come stile di vita. In generale anche quando s’insediano in modo permanente questi residenti in paesi stranieri non sono definiti immigrati, si preferisce parlare per esempio di professionisti “mobili”: la mobilità si riferisce agli spostamenti dei privilegiati, l’immigrazione agli analoghi spostamenti dei deboli. Tuttavia occorre riconoscere che l’abolizione delle frontiere interne nell’area Schengen ha realizzato uno spazio di libera circolazione delle persone che non ha eguali nel mondo, anche se oggi molti tendono a dimenticarlo o a rinnegarne il valore.
Un flusso corrispondente va dal Sud al Sud del mondo e coinvolge circa 70 milioni di persone. Sono spostamenti solitamente più facili di quelli diretti verso i paesi del Nord globale, ma danno accesso a pochi diritti, non solo politici ma anche civili e sociali: per es. con riguardo al ricongiungimento familiare, alla tutela contro trattamenti ingiusti, a volte anche alla libertà religiosa. Un caso rilevante di polo di attrazione di una cospicua immigrazione è quello dei Paesi della regione del Golfo Persico, ma si tratta anche di un caso particolarmente deplorevole in materia di riconoscimento dei diritti degli immigrati. Nel Sud del mondo in generale comunque i migranti godono nei paesi riceventi di diritti altrettanto scarsi di quelli di cui fruivano nei Paesi di origine. Più o meno lo stesso numero di persone si sposta sull’asse Sud-Nord del mondo, anche se questi sono gli unici che prendiamo in considerazione quando parliamo di immigrati. Qui un fenomeno degno di nota è la crescita del numero di donne, che sono ormai globalmente quasi la metà degli immigrati internazionali, e togliendo l’Africa sarebbero la maggioranza. Un altro aspetto importante è la crescita di migrazioni irregolari, in relazione all’inasprimento delle restrizioni frapposte all’attraversamento delle frontiere.
Un ultimo fenomeno minoritario (20 milioni di persone), ma in crescita, concerne gli spostamenti dal Nord verso il Sud del mondo. Anche in questo caso, raramente si usa il termine immigrazione, si preferisce per esempio parlare di espatriati. Può trattarsi di anziani che cercano luoghi più soleggiati e meno costosi per godersi la pensione, di giovani incuriositi dall’altrove o alla ricerca di opportunità, di manager, professionisti o cooperanti. Tutti costoro incontrano raramente problemi all’ingresso, in virtù dei loro passaporti forti, conservano i diritti sociali e politici di cui godevano nei paesi di origine, possono muoversi agevolmente attraverso le frontiere senza temere di essere etichettati e perseguiti come migranti irregolari, ma possono essere esclusi da alcuni diritti, come quello di proprietà, nei paesi in cui risiedono.
Va introdotta a questo punto un’altra precisazione: il termine generale “immigrati” è sempre meno adeguato per cogliere le varie articolazioni delle popolazioni che si spostano attraverso i confini e si insediano in maniera relativamente stabile in altri Paesi. Oltre ai tradizionali immigrati per lavoro, o “migranti economici”, come oggi si tende a definirli, troviamo gli immigrati stagionali, che entrano per brevi periodi, chiamati per soddisfare le esigenze di settori come l’agricoltura o l’industria alberghiera. Abbiamo poi gli immigrati qualificati e gli imprenditori, molto in vista nei documenti ufficiali sulle politiche migratorie: il settore sanitario è probabilmente quello che su scala globale ne usufruisce maggiormente. In parte simili a loro sono gli studenti, essi pure coinvolti in una crescente mobilità internazionale, ma spesso anche sospettati, per esempio nel Regno Unito, di essere cercatori di lavoro sotto mentite spoglie. Negli Stati Uniti sono circa un milione, malgrado i costi degli studi e i vincoli imposti dall’amministrazione Trump, in Canada superano i 300.000, nel Regno Unito sfiorano i 400.000. È un caso di immigrazione pressoché invisibile sotto il profilo sociale e mediatico. Al polo opposto dei percorsi biografici, emerge il già richiamato fenomeno di emigrazione di pensionati. Alle migrazioni per lavoro seguono i ricongiungimenti familiari e gli ingressi per matrimonio: da anni questo è in realtà il principale canale d’ingresso in molti paesi sviluppati, come gli Stati Uniti e la Francia. Alcuni paesi hanno introdotto delle restrizioni, ma le convenzioni sui diritti dell’infanzia e della famiglia nei paesi democratici sono una barriera contro le limitazioni dei ricongiungimenti familiari . Il crescente riconoscimento pubblico delle unioni di fatto e delle unioni omosessuali complica ancora di più gli sforzi di delimitazione del concetto di famiglia e dei legittimi pretendenti al ricongiungimento.
- Siamo invasi dai rifugiati?
La guerra in Siria e Iraq ha costretto alla fuga circa cinque milioni di profughi. Solo una modesta minoranza secondo i dati dell’UNHCR (2016; 2017), mediamente i più attrezzati e selezionati, arrivano in Europa, ma questo basta a scatenare paure e rifiuti. In realtà l’84% delle persone costrette a lasciare le proprie case (65,6 milioni nel 2016, 20 al minuto, la metà circa minorenni) trova accoglienza in paesi del terzo mondo. 40,3 milioni sono sfollati interni, accolti in altre regioni dello stesso paese. Gli altri 25 milioni sono perlopiù bene o male insediati nei paesi limitrofi. Meno del 10% arriva in Europa. Il Libano ha accolto più rifugiati siriani dei 28 paesi dell’UE messi insieme, con un’incidenza stimata oggi intorno ai 169 ogni 1.000 abitanti, oltre a
460.000 palestinesi conteggiati a parte, mentre la Giordania supera gli 80 su 1.000 e la Turchia sfiora i 40. Per offrire dei termini di paragone, si può ricordare che la Svezia è sopravanzata dal Ciad con circa 35 rifugiati ogni 1.000 abitanti, l’Italia si colloca a quota 3, con circa 180.000 rifugiati accolti a fine 2016. I termini di paragone in termini assoluti sono 2,9 milioni per la Turchia, 1,4 milioni per il Pakistan, 1 milione per il Libano, 980.000 per l’Iran, 940.000 per l’Uganda, 790.000 per l’Etiopia, mentre solo la Germania è in una posizione relativamente elevata in graduatoria con 670.000 persone accolte nel 2016. I paesi più poveri del mondo, tutti situati in Africa (Camerun, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Kenya, Sudan, Uganda) accolgono 4,9 milioni di rifugiati internazionali, pari al 28% del totale (UNHCR, 2017). Eppure in Europa e in Italia predomina l’idea dell’invasione di una folla incalcolabile di richiedenti asilo.
Considerazioni analoghe valgono per l’immigrazione in generale: il discorso pubblico ripete ogni giorno che siamo di fronte a un fenomeno gigantesco, in tumultuoso aumento, che proverrebbe principalmente dall’Africa e dal Medio Oriente e sarebbe composto soprattutto da maschi mussulmani. I dati disponibili ci dicono invece che l’immigrazione in Italia dopo anni di crescita è sostanzialmente stazionaria (appena +52.000 nel 2015), intorno ai 5,5 milioni di persone, che diventano 5,9 milioni tenendo conto delle stime sulle presenze irregolari (Fondazione Ismu 2016). Gli immigrati sono arrivati per lavoro in un primo tempo, poi per ricongiungimento familiare, con circa un milione di minori e 2,3 milioni di occupati regolari. Pochissimi per asilo, va ribadito: il 3% del totale. Come se non bastasse, le statistiche dicono che l’immigrazione in Italia è prevalentemente europea, femminile e proveniente da paesi di tradizione cristiana (tab.1).
Tabella 1. Rappresentazione e realtà dell’immigrazione
Rappresentazione corrente |
Evidenza statistica |
Immigrazione in drammatico aumento |
Immigrazione stazionaria (5,5-5,9 milioni di persone) |
Asilo come causa prevalente |
Lavoro (prima) e famiglia (poi) come cause prevalenti. Asilo marginale (180.000 persone attualmente accolte nel sistema di protezione: circa 3% del totale) |
Provenienza dall’Africa e dal Medio Oriente |
Prevalentemente europea |
Largamente maschile |
Prevalentemente femminile |
Quasi sempre musulmana |
Proveniente in maggioranza da Paesi di tradizione cristiana |
La fig.1 presenta in modo molto chiaro la caduta dell’incremento dell’immigrazione proveniente da Paesi esterni all’Unione europea: in netto calo già nel 2014, nel 2015 l’incremento è stato nullo. La crisi economica sta condizionando le strategie dei migranti, e in modo particolare i nuovi arrivi. Mentre per circa trent’anni il mercato ha assorbito manodopera immigrata, obbligando governi di ogni colore a varare ben sette sanatorie in 25 anni, ora il sistema economico sta comunicando il messaggio che nella fase attuale non ha bisogno di nuovi lavoratori, Persino i ricongiungimenti familiari risentono dell’avversa congiuntura economica e le stesse nascite da genitori immigrati sono leggermente calate negli ultimi due anni. L’immigrazione in Italia nel suo complesso sta cercando di resistere alla persistente crisi economica e di mantenere per quanto possibile l’insediamento costruito negli anni precedenti.
Un problema su cui riflettere è dunque la divaricazione tra realtà e rappresentazione, l’attenzione selettiva verso una sola componente dei processi migratori, quella dei rifugiati, la confusione tra asilo e immigrazione in generale. Arrivi molto visibili, certo drammatici ma anche drammatizzati, hanno occupato il centro della scena, offuscando le altre componenti, molto più rilevanti, di un universo complesso e sfaccettato come quello delle migrazioni. Per dare qualche termine di paragone, a fronte di 180.000 rifugiati gli immigrati titolari di partita IVA sono circa 550.000, le persone che lavorano presso le famiglie italiane sono stimate in circa 1,6 milioni, i cittadini stranieri che hanno ottenuto la naturalizzazione hanno raggiunto nel 2015 la cifra di 178.000 (IDOS, 2016). Per di più, gli sbarchi solo negli ultimi due anni si stanno traducendo prevalentemente in richieste di asilo in Italia: in precedenza la maggioranza passava le Alpi per chiedere protezione internazionale in altri paesi. Nel 2014, su 170.000 sbarcati meno di 70.000 avevano richiesto protezione internazionale al nostro governo. Le loro aspirazioni si incontravano con la tradizionale politica italiana in materia: favorire i transiti verso Nord, evitando il più possibile d’impegnarsi nell’assicurare protezione sul territorio nazionale. Ora le domande di protezione internazionale sono sensibilmente cresciute: 86.722 nel 2015, 98.177 a ottobre 2016. Da qui all’invasione c’è ancora comunque molta strada. Il governo italiano è molto attivo nei salvataggi in mare, e le navi della marina militare e della guardia costiera hanno l’indubbio merito di aver salvato migliaia di vite umane, con il contributo nella fase attuale di navi equipaggiate da organizzazioni umanitarie, da privati cittadini e dalla marina di altri paesi: un’attività così notevole da aver innescato le note polemiche sui salvataggi in mare da parte delle ONG. Polemiche peraltro non suffragate da prove e non seguite da provvedimenti giudiziari, ma già efficaci nel limitare il raggio di azione dei salvataggi. Il punto cruciale consiste invece nelle accresciute difficoltà del passaggio verso Nord, giacché i Paesi dell’Europa centro-settentrionale fanno pressione perché i rifugiati vengano identificati e accolti nei Paesi di primo approdo, anche prelevando forzatamente le impronte digitali presso i cosiddetti hotspot. Gli accordi di redistribuzione faticosamente raggiunti nell’autunno 2015, e non con tutti i Paesi membri dell’Unione Europea, di fatto finora sono stati onorati pochissimo, con poche migliaia di reinsediamenti. In Italia per contro, la gestione dell’asilo continua a oscillare tra l’idea di un’“emergenza” da fronteggiare con interventi straordinari e quella di un fenomeno che va affrontato mediante l’allestimento di un “sistema” organico di accoglienza (Marchetti, 2014).
Pur con queste precisazioni, l’enfasi sulla necessità di contenere i flussi non deriva da un’analisi obiettiva dei dati, ma dall’impatto che ha sull’opinione pubblica la visione televisiva dei salvataggi, dei naufragi e degli sbarchi sulle coste delle regioni meridionali. Alcuni attori politici si sono impadroniti dell’argomento, facendone materia di polemica e propaganda. D’altro canto, l’approdo dal mare di persone in cerca di asilo ha tutte le caratteristiche per scatenare le ansie e i fantasmi delle società riceventi: si tratta di stranieri che arrivano senza chiedere permesso e senza essere stati invitati, non hanno regolari documenti, e per di più una volta sbarcati chiedono assistenza e non possono essere respinti. Il vulnus nei confronti dell’idea di sovranità nazionale, di controllo dei confini e di sicurezza nei confronti di intrusioni dall’esterno non potrebbe essere più clamoroso.
- Stiamo per essere sommersi dalla povertà del Terzo Mondo
Anche l’idea largamente diffusa di un nesso diretto tra povertà e migrazioni è ugualmente approssimativa. Certo, le disuguaglianze tra regioni del mondo, anche confinanti, spiegano una parte delle motivazioni a partire. Anzi, si può dire che i confini sono il maggiore fattore di disuguaglianza su scala globale. Pesano più dell’istruzione, del genere, dell’età, del retaggio familiare. Un bracciante agricolo nell’Europa meridionale guadagna più di un medico in Africa:
questo fatto rappresenta un incentivo alla mobilità attraverso i confini.
Nel complesso però i migranti internazionali sono una piccola frazione dell’umanità: rappresentano all’incirca il 3,3% della popolazione mondiale: in cifre, intorno ai 244 milioni su oltre 7 miliardi di esseri umani (IDOS, 2016): una persona ogni 33. 76 milioni di essi, pari al 31,4%, risiedono in Europa, che è anche però terra di origine di 59 milioni di emigranti. Ciò significa che le popolazioni povere del mondo hanno in realtà un accesso assai limitato alle migrazioni internazionali, e soprattutto alle migrazioni verso il Nord globale. Il temuto sviluppo demografico dell’Africa non si traduce in spostamenti massicci di popolazione verso l’Europa o altre regioni sviluppate. I movimenti di popolazione nel mondo avvengono soprattutto tra Paesi limitrofi o comunque all’interno dello stesso continente (87% nel caso della mobilità africana), con la sola eccezione dell’America settentrionale, che attrae immigrati dall’America centro-meridionale e dagli altri continenti. In questo scenario, la povertà in senso assoluto ha un rapporto negativo con le migrazioni internazionali, tanto più sulle lunghe distanze. Le migrazioni sono processi selettivi, che richiedono risorse economiche, culturali e sociali: occorre denaro per partire, che le famiglie investono nella speranza di ricavarne dei ritorni sotto forma di rimesse; occorre una visione di un mondo diverso, in cui riuscire a inserirsi pur non conoscendolo; occorrono risorse caratteriali, ossia il coraggio di partire per cercare fortuna in Paesi lontani, di cui spesso non si conosce neanche la lingua, di affrontare vessazioni, discriminazioni, solitudini, imprevisti di ogni tipo; occorrono risorse sociali, rappresentate specialmente da parenti e conoscenti già insediati e in grado di favorire l’insediamento dei nuovi arrivati. Come ha detto qualcuno, i poverissimi dell’Africa di norma non riescono neanche ad arrivare al capoluogo del loro distretto. Di conseguenza, la popolazione in Africa potrà anche aumentare, ma senza una sufficiente dotazione di risorse e senza una domanda di lavoro almeno implicita da parte dell’Europa, non arriverà fino alle nostre coste. I migranti dunque come regola non provengono dai Paesi più poveri del mondo. Certo, gli immigrati arrivano soprattutto per migliorare le loro condizioni economiche e sociali, inseguendo l’aspirazione a una vita migliore di quella che conducevano in patria. Ma questo miglioramento è appunto comparativo, e ha come base una certa dotazione di risorse. Lo mostra con una certa evidenza uno sguardo all’elenco dei Paesi da cui provengono. Per l’Italia, la graduatoria delle provenienze vede nell’ordine: Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina, Filippine, Moldova (tab.2). Nessuno di questi è annoverato tra i paesi più poveri del mondo, quelli che occupano le ultime posizioni nella graduatoria basata sull’indice di sviluppo umano dell’ONU: un complesso di indicatori che comprendono non solo il reddito, ma anche altre importanti variabili come i tassi di alfabetizzazione, la speranza di vita alla nascita, il numero di posti-letto in ospedale in proporzione agli abitanti. In generale i migranti provengono prevalentemente da paesi collocati nelle posizioni intermedie della graduatoria. Per esempio negli Stati Uniti di oggi provengono in maggioranza dal Messico.
Tab. 2. Numero di stranieri residenti in Italia, % sul totale dei residenti stranieri, % femminile per nazionalità. Primi 7 paesi, 2015
2015
Nazione |
Residenti
(in migliaia) |
% sul totale dei residenti stranieri |
% donne sui residenti |
1 Romania |
1.151 |
22,9 |
57,2 |
2 Albania |
468 |
9,3 |
48,4 |
3 Marocco |
437 |
8,7 |
46,0 |
4 Cina |
271 |
5,4 |
49,4 |
5 Ucraina |
230 |
4,6 |
78,8 |
6 Filippine |
166 |
3,3 |
56,9 |
7 Moldova |
142 |
2,8 |
66,5 |
Fonte: Idos, Dossier statistico immigrazione, 2016
Per le stesse ragioni, i migranti non sono i più poveri dei loro paesi: mediamente, sono meno poveri di chi rimane. E più vengono da lontano, più sono selezionati socialmente. Raramente troviamo immigrati provenienti da molto lontano nei dormitori per i senza dimora, nelle mense dei poveri, precariamente accampati sotto i portici, o anche in carcere. Chi arriva da più lontano, fra l’altro, necessita di un progetto più definito e di lunga durata, non può permettersi di fare sperimentazioni o andirivieni: deve essere determinato a rimanere e a lavorare per ripagare almeno le spese sostenute e gli eventuali prestiti ricevuti. Ha anche bisogno di teste di ponte più solide, ossia di parenti o connazionali affidabili che lo accolgano e lo aiutino a sistemarsi. Lo stesso vale per i rifugiati: i siriani giunti in Germania, come ha notato la cancelliera Merkel, sono in maggioranza istruiti e professionalmente qualificati.
Anche l’idea che l’incidenza degli immigrati sulla popolazione sia particolarmente elevata nei paesi più avanzati non trova conferma nei dati statistici. I valori più elevati sono raggiunti dagli Emirati Arabi Uniti (88,4%), seguiti dal Qatar (75,5%), dal Kuwait (73,6%), dal Bahrein (51,1%), da Singapore (45,4%). In Europa, a parte il caso anomalo del Lussemburgo (44,0%), la percentuale maggiore di stranieri rispetto ai residenti è fatta segnare dalla Svizzera (29,4%), seguita dall’Austria (17,5%) e dalla Svezia (16,8%). Questi dati ci dicono anche che non è mai stata provata un’altra leggenda popolare, quella di una presunta “soglia di tolleranza”, ossia di un’incidenza dell’immigrazione sulla popolazione residente superata la quale scoppierebbero automaticamente dei conflitti tra vecchi e nuovi residenti. Si noti che tra i paesi ad alta incidenza di immigrati ve ne sono di piccoli e di grandi, di molto popolati e con bassa densità di popolazione. Generalmente sono comunque paesi ad alto reddito: difficile individuare delle costanti, ma si osserva una relazione positiva tra benessere e immigrazione straniera, anziché il contrario. La stessa relazione si osserva all’interno del nostro Paese: le aree con maggiore incidenza dell’immigrazione sono quelle con redditi più alti e disoccupazione più bassa. Purtroppo, come spesso avviene, il dibattito pubblico prescinde da questi dati conoscitivi. Semmai, cerca i dati che confermano le visioni preconcette: per esempio, enfatizza l’aumento relativo delle richieste di asilo a turno in Europa o in Italia, tacendo sul Libano o sulla Turchia, come pure sui dati complessivi sull’immigrazione prima richiamati. Nel 2015 enfatizzava l’aumento degli arrivi in Europa, nel 2016 trascura l’Europa per dire che gli arrivi sono cresciuti del 18% in Italia. Un caso per certi versi opposto è quello di una categoria di emigranti emersa nel dibattito recente, quella dei rifugiati ambientali. Il concetto sta conoscendo una certa fortuna, perché consente di collegare la crescente sensibilità ecologica, la preoccupazione per i cambiamenti climatici e la protezione di popolazioni vulnerabili del Sud del mondo. Ora, è senz’altro vero che ci sono nel mondo popolazioni costrette a spostarsi per cause ambientali, direttamente indotte come nel caso della costruzione di dighe o di installazioni petrolifere, o provocate da desertificazioni, alluvioni, avvelenamenti del suolo e delle acque. Ma che questi spostamenti forzati si traducano in migrazioni internazionali, soprattutto sulle lunghe distanze, è molto più dubbio. È più probabile che i contadini scacciati dalla loro terra ingrossino le megalopoli del Terzo Mondo, anziché arrivare in Europa. Va aggiunto che l’esodo dal mondo rurale è una tendenza strutturale, difficile da rovesciare, nei Paesi in cui la popolazione impegnata nell’agricoltura supera il 50% dell’occupazione complessiva.
5.Aiutiamoli a casa loro?
Un’altra idea molto diffusa, ma poco approfondita, riguarda la promozione dello sviluppo come alternativa all’emigrazione. Ossia l’idea sintetizzabile nel noto slogan “aiutiamoli a casa loro”. È un’idea semplice, accattivante, apparentemente molto logica, ma in realtà fallace. Prima di tutto, presuppone che l’emigrazione sia provocata dalla povertà, ma abbiamo visto che questo è meno vero di quanto si pensi. Se gli immigrati non arrivano dai Paesi più poveri, dovremmo paradossalmente aiutare i paesi in posizione intermedia sulla base degli indici di sviluppo, anziché quelli più bisognosi. In secondo luogo, gli studi sull’argomento mostrano che in una prima fase lo sviluppo fa aumentare la propensione a emigrare, perché cresce il numero delle persone che dispongono delle risorse per partire. Le aspirazioni a un maggior benessere aumentano prima e più rapidamente delle opportunità locali di realizzarle. Solo in un secondo tempo le migrazioni rallentano, finché a un certo punto il fenomeno s’inverte: il raggiunto benessere fa sì che i paesi che in precedenza erano luoghi di origine di emigranti diventino luoghi di approdo di immigrati, provenienti da paesi che a quel punto risultano meno sviluppati. Così è avvenuto in Italia, ma dobbiamo ricordare che abbiamo impiegato un secolo a invertire il segno dei movimenti migratori, dalla prevalenza di quelli in uscita alla primazia di quelli in entrata.
L’emigrazione non è facile da contrastare neppure con generose politiche di sostegno allo sviluppo e di cooperazione internazionale, anche perché un altro fenomeno incentiva le partenze e la permanenza all’estero delle persone: le rimesse degli emigranti. Si tratta di 586 miliardi di dollari nel 2015, 616 nel 2016, secondo le stime della Banca Mondiale, basate sui soli canali ufficiali di trasferimento di valuta. L’andamento italiano è più altalenante, ma nel 2014 ha registrato l’invio di 5,3 miliardi di euro (Caritas e Migrantes, 2016: 33). A livello macro, 26 paesi del mondo hanno un’incidenza delle rimesse sul PIL che supera il10%. I primi in classifica sono Tagikistan (36,6%), Kirghizistan (30,3%), Nepal (29,2%) (Caritas e Migrantes, 2016: 32). A livello micro, le rimesse arrivano direttamente nelle tasche delle famiglie, saltando l’intermediazione di apparati pubblici e imprese private. Sono soldi che consentono di migliorare istruzione, alimentazione, abitazione dei componenti delle famiglie degli emigranti, in modo particolare dei figli. Hanno anche però effetti negativi. I critici osservano che le rimesse alimentano un sviluppo drogato e dipendente dall’esterno, senza promuovere un’infrastruttura produttiva locale, tranne qualche attività direttamente connessa con l’industria delle migrazioni: money transfer, vendita di cellulari e schede telefoniche, internet points, agenzie di viaggi, produzione e vendita di prodotti locali richiesti dagli emigranti, quello che è stato definito nostalgic trade. Poiché gli emigranti tipicamente investono in terreni e case, come simbolo del loro successo, le rimesse fanno lavorare l’industria edilizia. Fanno però salire i prezzi e svantaggiano chi non ha parenti all’estero, alimentando così nuove partenze. Difficile negare però che le rimesse allevino i disagi e migliorino le condizioni di vita delle famiglie che le ricevono.
Il sostegno allo sviluppo dovrebbe realizzare rapidamente delle alternative per competere
con la dinamica propulsiva del nesso emigrazione-rimesse-nuova emigrazione, il che però nel breve periodo è praticamente impossibile. Dunque le politiche di sviluppo dei paesi svantaggiati sono giuste e auspicabili, la cooperazione internazionale è un’attività encomiabile, produttrice di legami, scambi culturali e posti di lavoro su entrambi i versanti del rapporto tra paesi donatori e paesi beneficiari, ma subordinare tutto questo al controllo delle migrazioni è una strategia di dubbia efficacia, certamente improduttiva nel breve periodo, oltre che eticamente discutibile. Di fatto, gli aiuti in cambio del contrasto delle partenze significano finanziare dei governi affinché usino le maniere forti per impedire l’emigrazione dei loro giovani cittadini alla ricerca di un futuro migliore, oppure (più spesso) fermino il transito di migranti e persone in cerca di asilo provenienti da altri Paesi: l’UE ha recentemente premiato il Niger per questo discutibile lavoro. Da ultimo, il presunto buon senso dell’ “aiutiamoli a casa loro” dimentica un aspetto di capitale importanza: il bisogno che le società sviluppate hanno del lavoro degli immigrati. Basti pensare alle centinaia di migliaia di anziani assistiti a domicilio da altrettante assistenti familiari, dette comunemente badanti (Ambrosini, 2013). Secondo una ricerca promossa dal Ministero del Lavoro, 1,6 milioni di immigrati lavorano in vario modo al servizio delle famiglie italiane. Per offrire un termine di confronto, gli addetti al Servizio Sanitario Nazionale sono circa 400.000.
Se i Paesi che attualmente esportano queste lavoratrici verso l’Italia dovessero conoscere uno sviluppo tale da inaridire le partenze, non cesserebbero i nostri fabbisogni. In mancanza di alternative di cui per ora non si vedono neppure i presupposti, andremmo semplicemente a cercare lavoratrici disponibili in altri paesi, diversi da quelli che attualmente ce le forniscono.
- 6. Conclusioni: qualche suggerimento per gli operatori pastorali
Concludendo, vorrei formulare qualche sommesso suggerimento agli operatori pastorali. Il primo è di non accettare la retorica dell’immigrazione come ondata inarrestabile di popolazione africana impoverita o sradicata dai cambiamenti climatici. Abbiamo visto che i numeri dicono altro. Dall’Africa arrivano pochi migranti e non si vede come ne potrebbero arrivare di più in futuro, specialmente dalle aree più povere.
Il secondo e correlato suggerimento riguarda l’uso dell’argomento basato sul senso di colpa: ossia la visione dell’immigrazione come esito della nostra indifferenza o anche del nostro sfruttamento nei confronti dell’Africa o di altre regioni del mondo. L’Occidente ha di certo molte colpe, ma pensare che l’immigrazione sia una patologia indotta dall’ingiustizia globale è sbagliato. Prima di tutto perché l’immigrazione non è una patologia, e giova allo sviluppo dei paesi riceventi. Dunque anche lo slogan “Aiutiamoli a casa loro”, che sembra portare acqua al mulino della solidarietà tra i popoli, è ingannevole e pericoloso.
Terzo suggerimento: non confondere immigrazione e asilo, non mescolare sbarchi e immigrazione. Va ribadito: i richiedenti asilo sono una piccola quota rispetto agli immigrati, e gli sbarchi nemmeno oggi si traducono sempre e immediatamente in richieste di asilo. Chi non presenta domanda di asilo non aspira a una vita da fantasma nel nostro paese, ma cerca di valicare le Alpi. Per essere più chiaro: non è una minaccia, ci sta facendo un favore. Gli immigrati irregolari, i cosiddetti “clandestini” sono perlopiù donne che lavorano presso le famiglie italiane: talmente utili che riusciamo a scordarcene, quando si tratta di verificare la regolarità del soggiorno.
Quarto: non parlare di immigrazione in generale, ma di categorie specifiche. Se si segmenta la massa amorfa e temuta dell’immigrazione e si focalizza l’attenzione su gruppi ben individuati, almeno una parte delle ansie può sgonfiarsi. E’ molto meglio parlare di cittadini europei mobili, di studenti, di infermiere, di assistenti familiari dette volgarmente badanti, di investitori, di gente che lavora in occupazioni lasciate scoperte dagli italiani, di persone che fuggono da guerre e persecuzioni. Alla fine dell’esercizio, ci si accorgerà che dell’immigrazione incontenibile e temuta resterà ben poco. Da ultimo, se bisogna parlare di rifugiati, citare il dato ripetuto incessantemente dalle
istituzioni che se ne occupano: l’84% trova asilo in paesi del Terzo Mondo, l’Europa in realtà si difende dai propri impegni umanitari.
Riferimenti bibliografici
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