Uscire dal sistema guerra
Chi, nel dibattito sinodale, critica la difesa dalla guerra con la guerra, dalle armi con le armi, non disconosce affatto il dovere-diritto dell'aggredito di difendersi coi mezzi possibili.
Così fu anche giustificabile la Resistenza armata al nazi-fascismo (però ci fu anche un'ampia Resistenza non armata, nonostante la poca esperienza a questo riguardo). Ma nell'era atomica l'etica della difesa è cambiata sostanzialmente. Già nella prima edizione, 1952, Primo Mazzolari scriveva: "Se facessimo la resistenza come l'abbiamo fatta ieri, con l'animo di oggi, saremmo in peccato" (p. 149 dell'edizione critica di Tu non uccidere, EDB, 2015). Il fatto è che è cambiato e cambia "l'animo", quindi l'etica e la politica. La difesa bellica dell'Ucraina non è solo una difesa coi mezzi a quel popolo possibili, ma è anche occasione ampiamente utilizzata dall'industria e dalla mentalità militarista, dalla imperante retrograda cultura di guerra, e dagli espansionismi imperiali contrapposti. Diamo agli Ucraini tutto l'aiuto umano possibile, ma sviluppiamo con forza - come ha detto il vescovo Luigi Bettazzi, il 7 maggio scorso nella "Staffetta per la pace", a Ivrea - "la mentalità nonviolenta, la diplomazia internazionale, l'interposizione umana nonviolenta, come a Sarajevo nel 1992" (il video è presso il Mir) . Non giudichiamo la difesa ucraina dell'aggressione russa, ma guardiamo e lavoriamo per uscire in avanti dalla disumana politica della guerra. La vittoria bellica non premia diritto e giustizia, ma soltanto la maggiore distruzione di vite umane. E' ormai necessario, sviluppando la cultura preventiva e l'organizzazione ed esperienza dei corpi civili di pace, procedere verso l'abolizione storica della istituzione guerra, verso il disarmo, perché l'umanità possa difendersi dalla propria follia. Questo è il diritto maggiore, di tutti noi, anzitutto di chi soffre l'offesa della guerra. Speriamo che il Sinodo, nel dichiararsi su pace, guerra, giustizia, sia sensibile e chiaro in questa direzione.
Enrico Peyretti
La forza della nonviolenza
Cari tutti, riguardo al cantiere sinodale "Pace, giustizia e cura della casa comune", si propone la riflessione sul "dovere di proteggere" dalla guerra chi dalla guerra è aggredito.
Se l'obiettivo dell'umanizzazione è l'abolizione stessa della istituzione guerra (la quale è istituzione pensata, voluta, attrezzata per uccidere, e non un episodio, non un atto inconsulto, non uno scoppio d'ira omicida), è pur vero che, fin quando la guerra è tragicamente presente, il diritto offeso deve essere difeso. Come?
Troppo facilmente e stoltamente il pensiero del potere sa vedere soltanto guerra contro guerra, armi contro armi, prigioniero di una sotto-visione dell'umano. Tanto più che tale politica è condizionata da un'economia del profitto privo di senso morale, che ha nella produzione e consumo delle armi, anche dei grandi armamenti, una fonte di lucro molto abbondante. E se fai le armi, devi dimostrarne necessario l'uso. La semplificazione ingannevole non sa vedere altro. Senza una forte reazione critica umanizzatrice la guerra ti fa prigioniero della guerra, sconfitto nella mente prima che nel trionfo della morte.
Fino a prima dell'era atomica era pensabile, nelle strette del realismo statico, la "guerra giusta", come difesa dalla guerra ingiusta. Tale è stata a lungo anche la dottrina cristiana, fino a sacralizzare l'omicidio di guerra (San Bernardo: "malicidio" e non omicidio!!!). Dopo il 6 agosto 1945 la dottrina morale sulla guerra è tutta un'altra: non vale più la precedente. La guerra ormai è "alienum a ratione", è assurdità (non difende alcun diritto e tutti li offende) ed è male aggiunto a male. Offende tanto la ragione quanto la coscienza umana. Il cammino sinodale non può ignorare questo cammino dello spirito cristiano evangelico.
La nonviolenza forte e attiva, che ha in Gandhi il maggiore maestro pratico, è l'alternativa alla guerra diventata impossibile difesa dalla guerra. La cultura dominante e condizionata dai poteri è sorda alla storia reale delle lotte giuste nonviolente, statisticamente più efficaci e meno costose in vite umane e in sofferenze, rispetto alla difesa armata. Chi vuole conoscere la storia ampia delle lotte nonviolente, ha ormai documentazione abbondante, se la cerca.
E' vero (lo dice Gandhi stesso) che la violenza per un causa giusta è migliore della viltà, ma non è efficace e non ottiene giustizia! La competizione delle armi omicide fa vincere non chi difende il diritto, ma chi ammazza e distrugge di più. L'opposizione e la rivolta armata può essere generosa, ma è ormai sbagliata, stolta, controproducente.
Ora, se l'anima morta della guerra è l'uccidere vite umane e distruggere condizioni di vita umana, e ormai l'esistenza stessa dell'umanità, la vittoria sulla guerra è la sapiente uscita dalla riproduzione della guerra-alla-guerra. E' possibile questa uscita.
Il cuore della strategia nonviolenta, che ha inventato e praticato centinaia di tecniche (v. Sharp, Capitini, Galtung, Semelin, ecc. ecc.) è la disobbedienza al potere violento. Possono cominciare piccoli numeri, ma un poplo offeso o invaso, scopre la propria difesa efficace con la non-collaborazione, neppure passiva, al dominio. Ogni potere consiste tutto e solo nell'essere obbedito, non è una forza magica. Se fa bene, collaboriamo, se è violento paralizziamolo con la disobbedienza massiccia. Un popolo consapevole, educato, non imbrogliato dai guerrafondai col mito tragico della vittoria, può difendersi così, con vere possibiltà di efficacia, senza cadere nel raddoppio mortale della guerra. Un padrone senza servi non è padrone.
Nel caso dell'aggressione ingiustificabile della Russia all'Ucraina, seguente a vaste responsabilità precedenti, abbiamo tutti vissuto il doloroso dilemma: armare la difesa ucraina, o lavorare per uscire dalla trappola della guerra riprodotta come nero destino insuperabile, e dalla propaganda di una vittoria della forza mortale e non del diritto? Anche chi ha disapprovato la grande (e speculativa) fornitura di armi (neppure risolutiva), ha vissuto il dilemma morale, ma lo ha risolto come sto dicendo, perché non ignaro, e semmai studioso e ammiratore dei popoli che hanno saputo affermare i diritti umani con la "forza della verità" cioè la dignità umana che sostituisce la politica di vita vera alla politica vile del dominio e alla risposta violenta alla violenza.
Aiutiamoci tutti nella liberazione dalla guerra, sempre anti-vita. Questo tema è centrale per la coscienza cristiana (non solo ecclesiastica) oggi impegnata nella revisione sinodale.
Enrico Peyretti
Il realismo della pace
Care amiche, distinguo nella vostra lettera due parti.
La prima, cioè l’argomentazione generale (che considero tradizionale e statica) e la seconda cioè la domanda proposta (che appare problematica e aperta alla riflessione-sperimentazione).
La prima contiene argomenti poco attenti alla storia e al significato della nonviolenza che voi esprimete in modo gentile, anche se potevate risparmiarvi l’insinuazione riguardante la violenza dei nonviolenti (argomento tipico di chi, alla Orwell, rovescia le posizioni e chiama pace la guerra e guerra la pace). So che non la pensate così ma sento che occorre riflettere a fondo misurandosi con la realtà delle guerre oggi.
Per me il disarmo non è un orizzonte auspicato ma una politica di riduzione e di riconversione della produzione e del commercio delle armi, una politica di convivenza geopolitica basata sulla sicurezza garantita proprio dal disarmo. Nemmeno la nonviolenza è un orizzonte o un auspicio ma è forza storica, civile e politica, sperimentata efficacemente in molte occasioni (non solo in India ma in Danimarca, in Sud Africa, Stati Uniti, Sud America, in vari paesi africani e asiatici, ed è in continua sperimentazione).
Il magistero dei papi è su questa linea, dalla Pacem in terris alla Fratelli tutti. Anche il “Compendio della dottrina sociale della Chiesa” colloca il dovere della difesa all’interno di “rigorose condizioni” e di un contesto da valutare. In ambito ecumenico non si è arrivati a posizioni comuni perché troppe chiese sono legate a ideologie nazionalistiche, a logiche fondamentaliste o a versioni parziali edulcorate della Parola e della figura di Gesù Cristo. La stessa Onu ha prodotto una strumentazione giuridica tendenzialmente nonviolenta (Boutros Ghali 1992) delineando anche un ruolo decisivo per le donne come protagoniste della pace. L’Onu riconosce il diritto di autotutela ma afferma contemporaneamente che le nazioni hanno il diritto-dovere di cercare la pace, di fermare i conflitti, di “interporsi” tra i contendenti (cosa che spesso non si fa, non si vuole fare). Così l’Europa, l’Osce…
Il problema, allora, non è la difesa dell’aggredito (necessaria e doverosa) ma quale difesa; ed è difficile se non impossibile oggi concepire una difesa armata (una “guerra giusta”) nel contesto geopolitico internazionale carico di corresponsabilità e di volontà di potenza. Occorre muoversi per costruire l’alternativa alla “persistenza” della guerra, per uscire dalla preistoria delle guerre, per passare dall’utopia (distopia) delle guerre al realismo della pace. Il problema è grande, drammatico e delicato e avrebbe bisogno, come avevo accennato, di svilupparlo con calma nei prossimi mesi (possiamo sempre farlo).
La seconda parte, cioè la domanda proposta e riproposta (anche se era meglio presentarla subito), può essere utile perché problematica, quasi paradossale: contiene l’ammissione che violenza genera violenza, perpetua i conflitti e che è necessario prevenire o non entrare nella “spirale di morte”, attivando, cioè, così io intendo, forme di difesa non armata, rigenerando la sovranità del diritto con una riforma dell’Onu, con nuove volontà politiche e con la mobilitazione della società civile. Grazie per la vostra attenzione. Un caro saluto. Buon cammino.
Sergio Paronetto