Cari ragazzi,

un nuovo anno scolastico ci sta aspettando e, per affrontarlo al meglio, bisogna partire equipaggiati, come per un’escursione in montagna o un viaggio particolarmente impegnativo: scarpe comode e robuste, zaino non troppo pesante, acqua a volontà e, soprattutto, tanta energia e voglia di farcela. Per questo è importante che abbiate trascorso un’estate sì di riposo, ma ricca di incontri ed esperienze che abbiano acceso in voi nuove scintille d’interesse, che vi abbiano regalato nuova carica vitale insomma. A me è successo, e vorrei che così fosse stato anche per voi. Per offrirvi il mio benvenuto, ho scelto di condividere attraverso queste righe un’esperienza estiva che ha messo radici tra i miei pensieri e riflessioni, difficile, penso e allo stesso tempo spero, da sradicare. Nel vostro linguaggio, una sorta di tatuaggio permanente, disegnato ben più in profondità che sulla pelle.

Ho trascorso una settimana come volontaria al Campo “Io ci sto”, a Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia. Per raccontarvi l’esperienza, userò ed espanderò le stesse parole che hanno dato il nome al campo, le parole già dicono tutto.

Io. Pronome di prima persona singolare. Tranquilli, non è mia intenzione ora fare grammatica. A prima vista questo io sembra prendersi un po’ troppo spazio: io ho scelto, io c’ero, io ho visto, io ho fatto.

È vero, il partecipare al campo parte da una scelta personale che diventa azione e implica responsabilità individuale. Immagino sorga in voi spontanea la domanda del perché, perché non ha trascorso quella settimana al mare, in montagna o in una città elettrizzante come New York. Vi rispondo con una motivazione semplice: per conoscere, per vedere con i miei occhi, per toccare con mano, per capire qualcosa in più. Ma ci sono i giornali, la tv, internet. Sono cose dette e ridette, trite e ritrite, non se ne può più. Lo ribadisco, non è la stessa cosa. Leggere, documentarsi, informarsi è vitale per orientarci in una realtà complessa come quella che stiamo vivendo, l’ho sempre detto. Ma non è sufficiente per comprendere: non sto parlando della testa, del cervello. Mi riferisco al cuore. Comprendere ha la stessa radice di compassione, prendere con, patire con: l’altro lo prendi con te, lo porti dentro di te e vivi, patisci con lui. Ecco allora che l’io non è più solo, è uno dei tanti, proprio come molti eravamo a trascorrere insieme la quotidianità, fatta di servizio, preparazione dei pasti, pulizia dei locali, momenti di riflessione e dialogo. Un io che diventa noi , un gruppo di giovani (ragazzi e ragazze della vostra età o poco più grandi) e adulti accomunati dalla forte passione di andate incontro a dei tu che di solito la gente non ha piacere di incontrare, di trovarli seduti accanto sull’autobus, di vederli arrivare in massa a occupare le nostre case, a invadere i nostri paesi e città, a rubare i nostri posti di lavoro. Non è un errore di ripetizione enfatizzare l’aggettivo possessivo, nostro, ma è perché noi tendiamo sempre a dividere le cose, il mondo in nostro e loro, a delimitare confini ben chiari, a innalzare muri. I tu di cui parlo sono i migranti, i profughi, i rifugiati, coloro che definiamo i clandestini e di cui non conosciamo la storia, la famiglia, il paese. La maggior parte di noi non ha una vaga idea di dove siano il Gambia, il Ghana, il Burundi, la Costa d’Avorio in quell’enorme continente che è l’Africa. Semplicemente ignoriamo, e la cosa non ci suscita particolari preoccupazioni.

Ma, in fin dei conti, sono stati proprio questi tu invisibili a investirci con la forza dirompente dell’accoglienza. Loro sono stati i primi. Come? Con la spontaneità disarmante di un “Ciao. Come stai?”, con un sorriso, di quelli luminosi, a trentadue denti, un abbaglio di denti bianchissimi ad emergere dal volto nero, con una stretta di mano salda, quasi da far male.

E l’io, l’io che va, che fa, che si pensa primo nella gara dell’accoglienza, diventa un tu scompigliato da una folata di letizia inaspettata. L’aria nuova sveglia e rinfranca chi ha trascorso troppo tempo chiuso a respirare l’aria viziata della stanza del proprio io, senza avere il coraggio di aprire la finestra del cambiamento per affacciarsi e incontrare il volto del tu, nostro dirimpettaio.

Ci sto. I significati che il dizionario elenca sotto la voce del verbo stare sono legati a “essere saldo, fermarsi, rimanere. Dimorare”. Nei caldi pomeriggi dell’agosto pugliese, accalcati in pulmini da nove posti, ci spostavamo da Siponto, sul mare, verso le zone interne della provincia per raggiungere Borgo Mezzanone, dove avremmo prestato servizio. Nel percorrere vie sconnesse, dissestate, più simili a capezzagne asfaltate che a strade, prive di segnaletica stradale o lampioni per l’illuminazione, lo sguardo incontrava solo fazzoletti di campi coltivati che si estendevano a perdita d’occhio ed enormi pale eoliche, che rompevano la monotonia e la nudità del paesaggio.

A poca distanza da Borgo Mezzanone, si trova il punto d’arrivo del nostro viaggio: la Pista. Viene chiamata così perché, durante l’ultima guerra, veniva usata per il decollo e l’atterraggio degli aerei, ma successivamente è caduta in disuso e si è trasformata in terra di dimora per i migranti provenienti da diversi paesi del mondo, dell’Africa e dell’Asia soprattutto.

Ci fermiamo qui, condividiamo una piccola parte del nostro tempo con loro: alcuni di noi si rendono disponibili a riparare biciclette, cambiare camere d’aria, sistemare freni e catena, altri, come me, insegnano italiano. L’aula è una struttura fresca di costruzione, non ancora ultimata che ho imparato poi essere una chiesa. A dirlo, c’è un piccolo Crocifisso appeso alla parete spoglia dove sono ben visibili mattoni e cemento; ci sono le aperture per la porta e le finestre che mancano del tutto. La prima volta che sono entrata qui ero disorientata. Non sono abituata ad aule così: qui lavagna, gessi, mappe linguistiche e altri strumenti didattici sono una fantasia. Bisogna ingegnarsi e provvedere con i pochi e poveri strumenti che hai a disposizione, giusto qualche tavolino, alcune sedie e panche che a volte non bastano, per cui si sta davvero uno attaccato all’altro, gomito a gomito. I libri su cui scrivere, penne e matite le abbiamo portate noi. Lavoriamo per gruppi di livello e si sente un gran vociare, chi ripete le sillabe in coro, chi applaude, chi scoppia in una risata di gruppo perché la parola uscita dal gioco del telefono non ha nulla a che fare con quella suggerita all’inizio. Rimaniamo con loro finché non è troppo tardi per rientrare e a ricordarcelo è la luce del sole, che, prima folgorante, si stempera nei colori caldi di tramonti sensazionali. Ogni volta che ce ne andiamo, diventiamo sempre più sicuri, saldi nel voler ritornare l’indomani e ricominciare daccapo.

Negli incontri fatti in Pista sta il senso del viaggio. Dell’aver lasciato casa per raggiungere un luogo all’altro capo dell’Italia. Degli scomodi viaggi in pulmino da Siponto alla Pista, nonostante il caldo soffocante e la stanchezza. Del camminare sulla strada deturpata, invasa da ammassi di spazzatura puzzolente, sfregiata da schegge di vetro, rottami di televisori e apparecchi elettronici, ricoperta da scarti, pezzi di plastica e gomma, scarpe rotte e parti lacere d’indumenti, per raggiungere la scuola d’italiano. Per questo, quando ci è stato chiesto quale oggetto o simbolo potesse meglio rappresentare l’esperienza del campo, ho scelto le scarpe che ogni giorno indossavo in Pista. Sono lì a testimoniare lo sforzo, la fatica del mio camminare, l’uscire dalla stanza ristretta del mio io per andare incontro al migrante e offrirgli qualcosa che mi rappresentasse.

Con i migranti. Migranti, migrazione: un tema caldo, bollente degli ultimi tempi, se ne parla in continuazione. For or against? A favore o contro? Il dibattito che a volte propongo in classe sulle questioni di attualità ora non mi interessa. Voglio invece raccontarvi di un gioco che ci è stato proposto in una delle mattinate di formazione al campo. Ha a che fare con una gigantesca mappa geografica dove sono riportate solo alcune parti del mondo: Africa, Asia, Europa, Americhe e Oceania escluse. Una simulazione per provare a capire qualcosa di più sulle tratte seguite dai migranti per raggiungere l’Europa. Siamo stati divisi in squadre e ad ogni squadra è stata affidata una carta d’identità rappresentativa di un uomo, una donna intenzionati a lasciare il proprio paese, la maggior parte perseguitati perché lottavano per il riconoscimento dei diritti civili. Alla mia squadra era capitata la figura di un giovane pakistano vessato in patria proprio per i motivi sopraddetti. L’obiettivo? Raggiungere l’Inghilterra per unirsi ad alcuni familiari. Non ci arriverà mai.

Dopo più di un’ora di gioco a malapena era riuscito ad arrivare in Turchia. Contrattare la somma di denaro per l’attraversata con un cinico trafficate, un’umiliazione: non siamo riusciti ad abbassare la quota se non di poco. Troppi imprevisti, incidenti, troppe volte abbiamo saltato turni, eravamo quasi sempre immobili. Ma la cosa più drammatica è stato l’aver colto che non eravamo stati sfortunati, un caso su cento ad aver la sorte avversa. Maltrattamenti, torture, imprigionamenti, il versamento continuo di soldi, disguidi burocratici, spostamenti avvolti nell’incognito sono pane quotidiano di qualsiasi migrante voglia affrontare il viaggio della speranza. Abbiamo provato frustrazione, senso di sconfitta. E pensare che era solo un gioco. E quando, invece, al posto delle pedine e dei dadi, ci sono persone? La vita? Mi piacerebbe proporre questa simulazione anche a voi, forse vi aiuterebbe ad uscire non solo dalla monotonia di lezioni a volte sterili, ma anche ad uscire da voi stessi immedesimandovi in un tu diverso, appartenente ad un’altra cultura, ad un’altra realtà, spostereste il vostro punto di vista, ripulendo il vostro modo di vedere dalle ombre di stereotipi superficiali.

Profughi, migranti, rifugiati. Ho fatto loro scuola d’italiano. Ho solo cambiato lingua d’insegnamento, ma la sostanza rimane la stessa. Sì, l’inglese, un po’ di francese mi sono stati utili, soprattutto quando Moussa, Djabi, Mustapha, Alì, Prince, Mohammed faticavano a capire il significato di una parola italiana. Ma queste non sono le loro lingue. Allora ho pensato allo sradicamento dell’identità di questi popoli e alle ferite dolorose causate dal colonialismo. Fate ricerca, provate a rintracciare le radici dei viaggi per mare e per terra di migliaia di persone, oggi. Potrei suggerirvi un paio di titoli, The White Man’s burden di R.Kipling e Cuore di tenebra di J.Conrad, solo per iniziare.

A proposito di letture, in questo periodo d’inizio anno scolastico, sono stata attratta dall’approfondire la figura di Don Lorenzo Milani, di cui ricorre il cinquantesimo anniversario dalla scomparsa. Un sacerdote di frontiera, un educatore che, negli anni del dopoguerra, dopo aver compiuto la scelta radicale di lasciarsi alle spalle il passato di figlio di una ricca famiglia borghese e di Pierino benestante, si era preso cura dei ragazzi poveri, figli dei contadini analfabeti capaci di parlare solo dialetto, una squadra di bocciati dalla scuola e dalla società e abbandonati lungo le strade dell’emarginazione. I care era il suo motto, mi interessa. Ci scommetterei. Sì, oggi don Milani, al posto dei bambini trasandati, sporchi, con il moccolo al naso, avrebbe accanto a sé minori stranieri non accompagnati, ragazzi migranti giunti in Italia orfani, ragazze madri, adulti profughi e richiedenti asilo della Pista. Lì istituirebbe un’altra Barbiana , farebbe scuola d’italiano, li aiuterebbe a capire l’importanza di conoscere i propri diritti come lavoratori, lotterebbe per la loro integrazione, scriverebbe lettere ai governanti perché la legge sullo Ius Soli venga finalmente approvata.

In Pista. Non è difficile pensare, sentendo questa parola, al mondo dello sport, delle corse, mondo che senza dubbio conoscete molto bene. Chi, da ragazzo, non si è mai ritrovato a competere con un compagno in una gara a piedi, in bici, in moto? In pista si concorre, ci si affronta, ci sono i vincenti e i perdenti, tra cui non si vorrebbe mai essere. Nella Pista di Borgo Mezzanone non ho incontrato perdenti. Forse per alcuni di voi mi sto sbagliando, chi vive in Pista non sa cosa fare della vita, è un reietto, vive come un animale in mezzo al degrado, allo schifo. Ma vi assicuro, non è così. Ho conosciuto gente ancora in corsa, che non ha abbandonato la gara della vita e lo fa in modo straordinario. Perché ha la forza e il coraggio di alzarsi all’alba per raggiungere, dopo aver percorso chilometri e chilometri in bicicletta, o a piedi, se si ritrova con la gomma della bici bucata, i campi dove raccogliere pomodori tutto il giorno sotto un sole che spacca la testa per una paga insignificante. Perché si alza al mattino con il tarlo di aiutare la propria famiglia a casa, in Costa d’Avorio, Ghana, Senegal, spedendo quel po’ di soldi racimolati per fare studiare i figli, per garantire loro una vita accettabile. Perché è gente che ha sogni che li riempie e i loro sogni bastano a tal punto da capire che l’italiano lo deve imparare bene, perché senza la conoscenza della lingua non potrà mai integrarsi e progredire a livello sociale. Perché, davanti all’ennesimo errore linguistico, non si arrende e non getta la spugna, ma va avanti ascoltando, chiedendo e ripetendo di nuovo. Perché è gente a cui il sudore della fatica non dà fastidio, gente che, nonostante la bruttezza, lo schifo del putridume dei rifiuti da cui è circondata, si accende di vita quando ti incontra, incarnando un’umanità sconcertante. Perché, infine, è gente che, pur vivendo in baracche fatiscenti e catapecchie arrangiate e tirate su con pezzi di cartone, lamiere, vecchie porte e altre chincaglierie, non si è ripiegata su sé stessa, ma è capace di trasformare un luogo disgraziato e abbandonato da tutti in un’oasi di bellezza, dove sgorga l’acqua della gratuità, dello scambio umano, dell’umanità.

Ci sarebbe molto ancora da dire, ma mi fermo qui. Spero davvero che questa lettera vi abbia suggerito qualcosa, si sia infilata da qualche parte tra i vostri pensieri disordinati ma, soprattutto, possa esservi d’aiuto, in qualche modo, a scoprire energie inaspettate, ad avere qualche dubbio in più, ad indossare un nuovo paio di occhiali per vedere certe cose in modo diverso.

Come vi ho già detto, bisogna partire equipaggiati. In questi giorni che precedono il fatidico suono della campanella usate bene il vostro tempo per controllare se manca qualcosa, o se tutto è a posto.

Poi non resta che partire…


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