Luigi Adami cercava i volti. Non gli bastavano i libri, che raccoglieva e catalogava con cura e passione (una notte, ospite a casa sua, andai a curiosare fra le mensole di una libreria dove stavano affastellati manuali di teologia con cassette di canti anarchici, saggi di economia critica e documenti sulla teologia della liberazione).
Lui cercava la vita, la parola, l'incarnazione del bene, la testimonianza, la libertà nella fedeltà alla coscienza plasmata da quella sorgente cristiana che tanto più è cristiana quanto più e umana (ossia libera dalle categorie clericali o dogmatiche). E di questa vita lui ha fatto “popolo”, ossia comunità. Perché don Luigi aveva una vocazione tutta speciale, che poi è l'espressione massima della santità: sapeva irrigare i campi verdeggianti della relazione, delle amicizie, delle conoscenze, degli abbracci. Sapeva curare la vigna dell'alterità, sapeva far coabitare volti, che altrimenti sarebbero rimasti nella loro singolarità mimetica. E forse è questa una risposta all'enigma che mi sono sempre portato dietro: “Perché un uomo così saggio, così profondo, così vero, così dotto, così empatico, così “altro da sé” come don Luigi, sia finito in un posto così remoto, così periferico, così fuori mano, cos' nascosto, come San Zeno di Colognola ai Colli?”. E la risposta potrebbe essere questa: forse perché è in queste periferie agricole che il profeta sa costruire la comunità, sa tessere legami indissolubili, sa irradiare nella cultura popolare il respiro etico della solidarietà e della giustizia. In fin dei conti, se ci pensiamo bene, i profeti sono sempre cresciuti nei luoghi più remoti della storia. E si sono sempre trovati, incontrati, stimati, amati. Perché don Luigi sentiva il bisogno continuo di recarsi a Barbiana sulla tomba di don Milani? Perché Barbiana era un po' come San Zeno di Colognola, ossia periferia contadina, agricola. Barbiana era in montagna, Colognola a piè dei colli. Ma l'ambiente è più o meno lo stesso, tanto più che da Colognola si sale, verso Giazza, sui monti Lessini, dove don Luigi andava sempre volentieri a ricordare un altro prete martire di periferia, don Domenico Mercante, preso in ostaggio, proprio alla fine della guerra, da una compagnia di nazisti in fuga e poi ucciso, insieme ad un giovane soldato meranese, Leonhard Dallasega, che si rifiutò di sparare.
Conobbi don Luigi alla fine degli anni Novanta proprio perché mi venne a cercare per presentarmi uno spettacolo di una compagnia teatrale locale, dedicato a questa vicenda di cui mi ero occupato quando lavoravo al settimane diocesano di Bolzano. E siamo sempre stati legati, fin da subito, da un vincolo profondissimo. Appena potevo, scendevo a trovarlo e me ne tornavo a casa pieno di fotocopie, librettini, cartoline, opuscoli, foto e quasi sempre con il segno di un potente scappellotto di pace, che ti dava così, affettuosamente, per ringraziarti della visita.
Ma anche l'amicizia di don Luigi con Padre Balducci e Padre David Maria Turoldo nasce da questo riconoscimento del margine, perché entrambi erano nati e cresciuti in luoghi agricoli di periferia, Balducci a Santa Fiora sul Monte Amiata in un contesto di lavoro duro, con il padre minatore e lui stesso costretto a fare lavori umili per far quadrare i conti di casa: «A dodici anni – scrive in un famoso testo - invece di predicare come Gesù nel tempio, indossai la piccola tuta ed entrai nell'officina di un fabbroferraio. Per quasi sei mesi feci le mie otto ore di lavoro quotidiano: aiutavo a ferrare i cavalli o gli asini a costruire reti da letto, a saldare pezzi di ferro, a modellare i prodotti...». Anche Turoldo è nato e cresciuto nella periferia friulana a Coderno, in un contesto poverissimo, fatto di pianti, strazi e tanta fame. La mamma piangeva schiantata dalla fatica e dalla miseria: « Un pianto invece ti straziava / quando il freddo e la fame / ci rendeva astiosi e con canne / di granturco e vincastri di palude / ci dovevi scaldare la poca minestra / e la casa nera di fuliggine...». Quanto grande e fedele è stato l'amore che don Luigi ha nutrito per questi due profeti della chiesa orizzontale! Quante iniziative, quanti incontri, ogni anno alla pieve di Colognola, con tantissima gente che seguiva questo appuntamento oramai diventato una tradizione per la commemorazione della morte di Padre David.
Ecco, don Luigi ha saputo fare del margine il centro della vita. Ha inseguito Oscar Arnulfo Romero fecondando la categoria biblica di popolo. E di lì è venuto tutto. Di lì si è dipanata la tela del dialogo ecumenico e interreligioso, i rapporti con il patriarcato russo, quelli con la chiesa valdese, con le altre chiese protestanti, perfino con le esperienze marginali della chiesa hutterita tirolese che abbiamo avuto l'occasione di incontrare insieme in un evento organizzato a Bolzano. E poi gli indios del Guatemala, aiutati dalla parrocchia di don Luigi attraverso l'amicizia con Padre Clemente Peneleu e la premio Nobel per la Pace Rigoberta Menchù. E la creazione del Gruppo per il pluralismo e il dialogo, che lo ha accompagnato sempre attraverso esperienze, incontri, viaggi alla scoperta dell'alterità e della convivialità delle differenze.
La sua chiesa non aveva nulla di clericale. Perfino le mura interne rivelavano i segni della vita e della storia. Credo sia l'unica chiesa in Italia che al posto di affreschi della tradizione cristiana classica (Madonne, Cristi, crocifissioni, visitazioni ecc) aveva deciso di inserire figure dell'oggi (proprio nelle mura del transetto), amici e maestri come Balducci, Turoldo, Mazzolari, don Tonino Bello, Leonhard Dallasega, Pérez Esquivel, Rigoberta Menchù ecc. Perché o la fede è una fede nuda (come dice il titolo di un suo bel libro), aperta e viva o che che cosa è? «Dico subito – afferma don Luigi in un suo scritto del 2008 – che non ho certezze chiare e distinte, non ho diagnosi sicure e definitive, non ho ricette rassicuranti e pacificanti. Ho solo fatti ed esperienze da cui cogliere, induttivamente, con probabilità e provvisorietà, osservazioni, considerazioni, suggestioni, suggerimenti, intuizioni, sogni...».
Don Luigi ci ha lasciato improvvisamente sabato 22 luglio. Aveva 88 anni. Da qualche anno si era ritirato in parrocchia con ruoli secondari, dopo aver guidato la chiesa per cinquant'anni, Una vita densa e intensa, non priva di sofferenze come i lunghi anni passati da giovane in sanatorio per farsi curare dalla Tbc (era legatissimo da una rapporto fraterno a un mio cugino frate francescano trentino, Modesto Comina, con cui aveva condiviso, nella stessa stanza di sanatorio, le lunghe e faticose giornate di cure e di recupero psicofisico). Lascia un grande vuoto non solo nel Veronese. Un vuoto che ora va colmato con attenzione e impegno affinché quella storia grande, che don Luigi ha incarnato, non venga dispersa e guastata. Che i suoi luoghi, i suoi ambienti, i suoi libri e i suoi affreschi dell'oggi non vadano sciupati dalla sindrome di livellamento del passato, così presente nei passaggi traumatici delle consegne ecclesiali. Perché quella oramai è una storia di un popolo, nato e cresciuto intorno alla guida di un padre che non voleva essere né padre né guida. Una storia on the road, che aspetta ancora di trovare le prossime tappe nel lungo transito della vita.
Grazie don Luigi per tutto quello che ci hai donato e per la cura che hai messo per far crescere l'amore in quel centro nevralgico della periferia che è la relazione umana. “Hai seminato l'amore come il mais”, direbbe un altro vescovo che amavi, l'ecuadoriano Leonidas Proaño.