“Bisogna ripensare l’intera vicenda del Medio Oriente per poter inventare un assetto di pace che garantisca Israele e il popolo palestinese. Ma, per fare questo, non vi sono scorciatoie. Occorre prima sapere e capire, anche perché si può fare del male pensando di fare del bene. E la prima massima per chi vuole il bene è capire, cioè la cosa più dolorosa che esista”.
David Meghnagi, storico israeliano, psicoanalista, autore di vari libri sullo Stato di Israele (in “L’antisemita che è ancora in noi”, Micromega 2/91).
Con queste parole David Meghnagi, dopo la guerra del Golfo (1991) chiude una sua riflessione sulla questione mediorientale, in particolare sul conflitto israelopalestinese. Un invito che, per tutti coloro che amano la nonviolenza e la ricerca della verità anche in senso gandhiano (Satjagraha), non può certo essere disatteso. Ecco allora l’esigenza di conoscere le ragioni degli uni e degli altri, cioè delle parti in conflitto, perché, senza questo obbligo morale e insieme politico, non ci potrà essere una “solidarietà” intellettualmente meditata e dunque duratura rispetto alle parti in guerra.
In questa impervia ma necessaria strada, per capire le ragioni di un conflitto così drammatico che sembra non avere mai fine e che dal 7 ottobre ha raggiunto un livello grande di morte e distruzione di vite e cose, non ci sarà di seguito un freddo e ormai abitudinario “bollettino” di guerra, anche per l’impossibilità di essere aggiornati, cambiando ogni giorno il quadro di questa “sporca guerra”.
Doveroso il riferimento alla tragedia e alla condizione degli oltre 200 ostaggi, persone di vari Paesi che Hamas trattiene come arma di ricatto e come veri e propri “scudi umani”.
Domani – e così ogni giorno – il numero delle vittime sarà diverso e ci informeranno su quante le persone sono vittime di questa “sporca” guerra, purtroppo animata da uno spirito di “vendetta” non certo giustificabile. I media, ormai, lo fanno come fosse una cronaca sportiva o quasi come cronaca “nera”, dato che le cifre delle vittime e delle distruzioni del giorno successivo saranno tragicamente diverse e sempre tendenti a crescere in maniera esponenziale.
Sarà David Grossman, scrittore e non uomo politico, come lui stesso ci tiene a sottolineare, pur israeliano (rappresenta una delle voci più critiche verso la politica del governo israeliano, assieme a uomini di indiscutibile cultura come lo stesso Meghnagi, Amos Oz, Abram B. Yehoshua), ad accompagnarci in questo difficile percorso per capire le ragioni dei due contendenti.
Grossma ha pagato personalmente e con grande sofferenza le sue convinzioni di pace, accettando con dignità la perdita del giovane figlio Uri, caduto il 22 agosto del 2006 nelle ultime ore della seconda guerra del Libano. Nel personaggio protagonista del suo libro, “A un cerbiatto somiglia il mio amore”, traspare chiaramente la figura del figlio Uri. Nella sua laica e commovente orazione funebre, Grossman ricorda al figlio Uri che “Non c’è giorno senza che cominci con il ‘Non’. Non verrà più Uri. Non parleremo. Non rideremo più. Non ci sarà più Uri...”.
Il lettore di Mosaico di pace, nel seguito dell’intervento, non troverà numeri delle vittime, dei luoghi colpiti dai bombardamenti, non troverà l’attribuire o meno le varie responsabilità dei tragici eccidi attribuiti o a Israele o ad Hamas. A questo ci pensa l'informazione dei media che ha già oscurato la narrazione di altre guerre atroci, come quella dell’invasione della Russia contro l’Ucraina.
Ma se si è partiti dal famoso asserto di uno “Stato senza territorio e un territorio senza Stato”, riferendosi a Israele e ai Palestinesi e se successivamente ci si è posti l’obiettivo di creare “Due popoli, Due Stati che vivano in pace a fianco l’uno all’altro”, forse la guerra che ora si sta duramente combattendo a Gaza ha messo la parola fine a questa speranza di una civile convivenza. Era forse l’unico modo per terminare una volta per sempre il conflitto israelopalestinese. Dopo la divisione della terra di Israele operata dall’Onu nel 1948, in cui si assegnava a Israele il 52% del territorio e il restante 48% ai palestinesi, i quali, ora – dopo tre guerre perdute (1948, 1967, 1973) e potendo usufruire solamente del 18% del territorio – non possono ancora dichiarare che lo Stato di Palestina sia libero e indipendente.
Dopo oltre settanta anni tutto sembra rimanere come prima. È sempre Grossman che, con una “metafora” (e, si sa, spesso le metafore anticipano ciò che poi si realizza veramente nella realtà), ci richiama alla possibilità di un conflitto senza fine, come in effetti sta avvenendo a Gaza.
Grossman con uno di suoi primi libri, “Il vento giallo” ci prefigura ciò che sta succedendo a Gaza così martoriata, ma senza dimenticare l’attacco imprevedibile e terribile sferrato da Hamas, che non vuole difendere il popolo palestinese, che certo non lo rappresenta. Hamas “non propone soluzioni” ma vuole mettere il dito nella piaga per accendere un segnale d’allarme, mostrando quali potrebbero essere le conseguenze. Certo, l’Intifada non ha niente a che vedere rispetto a ciò che in questi giorni sta accadendo a Gaza, ma rimane l’“obbligo morale” di conoscere e di capire sino in fondo le ragioni di questo conflitto.
In tempi non sospetti molti giornalisti, commentatori politici, arabi e israeliani, hanno cercato di dare un senso all’Intifada, non attraverso i morti, i feriti, le tragedie quotidiane ma cercando di scavare nel profondo, cogliendo gli aspetti più importanti e le eventuali “ricadute” di un movimento popolare che è stato un fatto storico unico.
Si è trattato di una sfida lanciata a Israele da Arafat, cercando di realizzare il “massimo del livello inferiore dell’uso della forza”. Non è un caso se i veri protagonisti di questa particolare Intifada, di questo “risveglio”, furono proprio “i ragazzi delle pietre”, con l’unico scopo di lanciare con le loro fionde la bandiera palestinese in ogni dove e con qualsiasi metodo nonviolento: solo i ragazzi possono concretizzare la “sfida” lanciata da Arafat.
Per fare “memoria” non possiamo non citare Igor Man, giornalista, scrittore che ebbe a definirsi: soltanto un cronista che ha scarpinato per il mondo, inciampando di continuo nelle guerre, anche se tutte le volte che ho attraversato una guerra, ho incontrato una immensa domanda di pace. E mi ha colpito il fatto che siano stati soprattutto i bambini, gli adolescenti, a sognare la pace, a cantarla, a “pretenderla”. E a conferma di questa volontà Igor Man, ci riporta alcune pagine del diario di un ragazzo di dodici anni, ucciso da un proiettile di plastica lanciato da un soldato israeliano durante l’Intifada.
Alcuni pensieri che erano, invero, una poesia:
“Sorridi papà
Dammi la mano
laviamoci il sangue
scorso invano
nelle acque chiare del Giordano
Voglio ridere nel gaio mattino
così come sono:
un semplice bambino!”
È necessario mettere il dito nella piaga. Per questo nasce (1988), soltanto un anno dopo, l’inizio dell’Intifada (1987), il primo libro di Grossman, “Il vento giallo”, che sarà in poco tempo considerato come un vero e proprio “bestsellers”. Grossman riporta ciò che Abu Karb, un vecchio palestinese, gli racconta su cosa è il “vento giallo”. “È un vento giallo che viene dall’Est e dal deserto, tremendamente caldo e tutti scappano a rifugiarsi nelle grotte ma negli anfratti delle rocce raggiunge i malvagi e i crudeli operatori del male. Ma quando questo vento sarà passato, tutta la terra sarà coperta di cadaveri e sarà ricoperta da una coltre gialla.”
Non è forse questa metafora che oggi ci riporta nella realtà drammatica di Gaza?