Cento anni fa, il 28 giugno 1924 nasceva Danilo Dolci, una grandissima figura dell’Italia del Dopoguerra. Lottò per un’Italia diversa, migliore, che combatteva la corruzione, che intendeva valorizzare le risorse degli individui, che faceva parlare le persone e che creava connessioni. Tutte parole chiave del suo lavoro sociale e educativo. Divenne uno degli italiani più famosi a livello internazionale fra gli anni Cinquanta e Sessanta, più volte candidato al Nobel per la Pace, con riconoscimenti e traduzioni dei suoi libri in tutto il mondo. Fu pioniere in tanti modi.
Agli inizi degli anni Cinquanta, recatosi nella Sicilia occidentale per combattere le situazioni di degrado e miseria della popolazione locale, introdusse la nonviolenza di Gandhi in un’area estremamente critica portando il digiuno come metodo di protesta e di resistenza a fronte dei bambini e delle bambine che morivano di fame.
Inventò, qualche anno dopo, lo sciopero alla rovescia: con centinaia di disoccupati e insieme ad alcuni sindacalisti andò a sistemare una strada sgarrupata. Per questo furono arrestati e Danilo Dolci rimase in carcere due mesi. Al processo venne difeso dai grandi giuristi italiani che avevano fatto nascere la nostra Costituzione, come Piero Calamandrei.
Nella stessa zona, fu impegnatissimo a promuovere lo sviluppo locale dal basso. Grazie ai comitati e alle cooperative riuscì a creare la famosa diga sullo Jato per non disperdere l’acqua.
Furono gli anni anche della battaglia contro la mafia in una delle zone d’Italia più sensibili a questa criminosità. Per la prima volta, raccogliendo centinaia di testimonianze, arrivò a denunciare il livello politico di Cosa Nostra, costringendo il governo di Aldo Moro a far dimettere un sottosegretario e un ministro. Fu il primo a spingersi così in là, ma, nonostante la documentazione presentata, venne querelato, processato e condannato a due anni e mezzo di reclusione. Dopo questa condanna, diventò per lui sempre più difficile mantenere una presenza pubblica significativa.
Nel 1970, a Partinico, due anni dopo il terremoto del Belice, per denunciare le condizioni spaventose in cui la gente ancora viveva, diede vita alla prima radio libera italiana, la Radio dei poveri cristi (da cui il libro di poesie Il limone lunare) che trasmise per trentasei ore finché venne smantellata dall’intervento di cento carabinieri che distrussero la postazione eliminando ogni traccia di questa presenza resistenziale.
Ogni sua azione fu portata avanti con le tecniche gandhiane, sempre senza violenza. questa la subì più volte.
Gli ultimi anni della sua vita furono dedicati quasi esclusivamente ai temi educativi con la nascita del Centro di Mirto per bambini dai tre ai sei anni, una scuola sperimentale che ottenne il sostegno di tutti i più grandi pedagogisti del mondo, compreso Paulo Freire con cui era particolarmente amico. Il Centro, immerso nella natura e da cui ancora oggi si vede il mare, venne progettato da grandi architetti.
In quegli stessi anni, iniziò il suo lungo viaggio nelle scuole italiane con la famosa domanda che rivolgeva ai ragazzi e alle ragazze: «Qual è il tuo sogno?». Oltre a tanti altri laboratori.
Le nostre strade si incrociarono agli inizi degli anni Ottanta, avevo 25 anni. Per me, obiettore di coscienza che già conoscevo la sua opera, l’incontro si rivelò decisivo. Restammo in contatto per quasi un decennio, sostenne le mie iniziative e mi inserì spesso nei suoi libri. Il ricordo più nitido è legato al suo ascolto: dopo aver ricevuto tante prediche, trovare un maestro come Danilo che aveva fatto dell’ascolto la sua prerogativa, fu per me un salto evolutivo da cui non mi sono più staccato. Da quel momento divenne il mio maestro. In quegli anni mi accompagnò nelle mie scelte, compresa quella di aprire il Centro Psicopedagogico (CPP).
I cent’anni dalla sua nascita sono un’occasione per rimettere in circuito la sua grande figura. Il suo impegno nel cambiare il mondo e renderlo migliore non può essere dimenticato.
Una levatrice aiuta a far nascere la nuova vita che una persona ha in sé. Così il domandarsi, il domandare cosa è la speranza, l’amore, la vita, tende a far nascere una risposta in quanto ciascuno ha sperato, amato, vissuto, cioè già possiede in sé i semi della risposta.
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