Lo smottamento elettorale a destra verificatosi con le elezioni del Parlamento Europeo non indica soltanto una significativa modifica degli equilibri politici interni all’Unione Europea ma una tendenza complessiva che si è andata rafforzando da almeno un decennio e che la guerra in Ucraina, guerra nel cuore dell’Europa, ha piuttosto favorito invece che attenuato.
Il fatto poi che a subire in modo più evidente un “quasi” ribaltamento dei rapporti di forza tra europeisti e antieuropeisti siano i due Paesi leader come Francia e Germania, anche se in misura diversa, ci dice che non basta più minimizzare il fenomeno e proporre solo misure di adattamento.
Il paradosso nuovo e più drammatico è che l’Europa della guerra e del riarmo fino alla vittoria contro la Russia ha perso il suo baricentro rappresentato dall’asse franco-tedesco non a favore della pace ma piuttosto a danno dell’Europa della democrazia e dello Stato di Diritto. Insomma la logica di guerra e la logica dell’Europa fortezza tanto cara a tutte le destre si stanno legittimando a vicenda, mangiando la democrazia e lo stesso percorso di integrazione politica dell’Unione Europea che, così, rimanendo poco più che una semplice somma di nazioni e nazionalismi è e sarà sempre più tenuta insieme dalla tenaglia militarista della Nato e costretta dentro una maggiore subalternità all’Alleanza atlantica.
Non illudiamoci che l’annunciato ritorno al potere di Trump, dato vincitore alle prossime presidenziali di novembre negli Stati Uniti, possa con il suo isolazionismo e il suo disimpegno dall’Europa migliorare le cose. Anzi potrebbero persino peggiorare sia perché l’Unione Europea sarebbe sollecitata a riarmarsi da sé ancora di più, sia perché la politica della “Deterrenza Nucleare estesa” è condivisa tanto dai democratici che dai repubblicani, sia perché nello scontro sempre più aspro che si prepara con la Cina, non solo sul piano tecnologico ed economico-commerciale, Trump o chi per esso deve avere con sé tutti gli Stati europei e indo-asiatici che fanno parte della Nato globale. C’è infine un dato che scorre sotto le posizioni geopolitiche ufficiali e che è troppo sottovalutato: la trasformazione profonda in atto nelle società occidentali dove le democrazie e i diritti non si espandono più e invece si affermano culture intolleranti, tendenze reazionarie e razziste, pratiche discriminatorie che potremmo definire di “suprematismo identitario e fondamentalista” tipico delle nuove destre in Italia, in Francia, in Germania ma anche negli Stati Uniti e in Russia. Dugin è l’ideologo estremista e reazionario che condivide pensieri politici e filosofie con Putin, la destra lepenista, i sostenitori di Trump che hanno dato l’assalto a Capitol Hill.
Se apriamo finalmente gli occhi dovremmo accorgerci che siamo in presenza di una vera e propria deriva complessiva, anche culturale e sociale, che già ha cominciato a snaturare la natura istituzionale della stessa Unione Europea esaltandone il carattere intergovernativo a spese di quello comunitario e che sul piano politico si caratterizza come regressione neonazionalista e persino razzista, non certo solo per colpa delle classi popolari che in parte la condividono ma soprattutto per attori politici che la alimentano costantemente da tempo arrivando persino a immaginare deportazioni di massa degli immigrati.
In questo senso l’Italia ha fatto da battistrada con l’andata al governo di Giorgia Meloni dopo l’irresponsabile rottura del campo largo alle elezioni politiche del 25 settembre 2022 che ne ha reso il successo ancora più ampio. Ora tocca alla Francia di Macron subire lo smacco più bruciante con l’affermazione della destra lepenista rappresentata dall’astro nascente Jordan Bardella, presidente del Rassemblement National e vicepresidente del gruppo europeo “Identità e democrazia” cui appartiene anche la Lega di Salvini.
Diverso ma non rassicurante il caso tedesco dove il governo formato da socialdemocratici, verdi e liberali guidato del cancelliere Olaf Scholz esce elettoralmente sconfitto in tutte le sue componenti alla prova europea e il successo dell’estrema destra di Alternative fur Deutschland, fondata nel 2013 e ora diventata secondo partito in Germania, viene contenuto dal contemporaneo successo della CDU, Unione Cristiano-Democratica tedesca, fondata da Konrad Adenauer nel 1945, ora di gran lunga primo partito in Germania e guida del PPE, il più forte gruppo politico-parlamentare anche al nuovo Parlamento Europeo.
In questo quadro si può capire che, grazie alla tenuta dei partiti di orientamento socialista e liberale nei Paesi del Nord e dell’Est Europa, la CDU di Germania sia orientata a riconfermare per il Parlamento Europeo e per la Commissione Europea l’alleanza tra le tre famiglie politiche europee composte dai tre gruppi europarlamentari tradizionalmente “europeisti” e tuttora più numerosi: i popolari, i socialisti e democratici ( di cui fa parte il PD), i liberali di Renew Europe (di cui fa parte Macron), anche se tra questi ultimi e il gruppo dei conservatori “euroscettici”, l’ECR guidato in Europa da Giorgia Meloni, è in atto una rincorsa ad acquisire altri europarlamentari per superarsi a vicenda e piazzarsi al terzo posto per forza rappresentativa.
In questa prima fase post elettorale è evidente che, di fronte all’incognita francese e all’azzardo di Macron di indire elezioni politiche anticipate, a dare le carte sugli equilibri istituzionali europei sia la Germania e in particolare la CDU tedesca, orientata com’è a riconfermare a presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen molto probabilmente con la stessa maggioranza che l’ha sostenuta nei 5 anni precedenti. Maggioranza ritenuta affidabile anche, se non soprattutto, per quell’atlantismo tornato prepotentemente da due anni a ispirare le politiche di sicurezza e di riarmo dell’Unione Europea nei confronti dello scontro con la Russia, scontro da potenziare e rilanciare in continuazione come economia di guerra e domani ad allargare a chi come la Cina viene sempre più considerata la vera avversaria dell’Occidente. Non è un caso che per la segreteria generale della Nato sia individuato come successore di Stoltenberg l’olandese Mark Rutte, liberale conservatore, irriducibile sostenitore della guerra in Ucraina fino alla vittoria contro la Russia e da Primo Ministro promotore della rottura di importanti rapporti commerciali con la Cina limitando la vendita e l’esportazione di semiconduttori avanzati indispensabili per la produzione di chip.
Dunque partita chiusa, almeno sul piano delle nomine? Solo in parte, perché la stessa nomina di Ursula Von der Leyen deve poter contare secondo il Trattato di Lisbona non solo sul voto finale a maggioranza assoluta del Parlamento Europeo ma sulla indicazione del suo nome concordata e promossa da una “maggioranza qualificata” di governi nazionali, per l’esattezza dai governi di almeno 15 Stati su 27 purchè rappresentativi del 65% della popolazione complessiva. E’ aperta poi la nomina dei Commissari tuttora indicati dai governi nazionali che, se esaminati uno alla volta e approvati dal nuovo Parlamento Europeo, andranno a formare la nuova Commissione Europea; su ruolo e qualità di queste nomine si può aprire un braccio di ferro da parte dei Governi nazionali di destra o centrodestra che sono fuori o si sentono esclusi dalla “maggioranza qualificata” e tuttavia vogliono proporre candidati vicini alle proprie posizioni. Infine non va dimenticato che il Consiglio Europeo, composto dai capi di Stato e di Governo dei 27 Paesi dell’Unione, si ritrova a fine giugno proprio per negoziare il pacchetto dei tre Presidenti della Commissione, del Parlamento e dello stesso Consiglio più la nomina dell’Alto rappresentante della Politica estera, confrontandosi con i gruppi politici delle maggiori famiglie europee, facendo comunque valere che, secondo gli attuali Trattati fondativi dell’Unione Europea, la dimensione intergovernativa rimane preminente perché continua a mantenere il potere di veto sulle principali decisioni assunte da Commissione Europea e Parlamento Europeo.
Non è detto dunque che a fine giugno i giochi saranno chiusi. C’è infatti chi ha interesse a siglare accordi intergovernativi solo dopo avere registrato l’esito delle elezioni politiche in Francia, paese chiave nelle dinamiche europee. Dobbiamo riconoscere che le elezioni anticipate in Francia non sono proprio una piccola cosa riguardo alle possibili conseguenze sia interne che esterne. E’ legittimo pensare che la partita, se non riaperta, potrà essere ulteriormente modificata dal risultato elettorale in Francia dove il presidente Macron, in carica fino al 2027 e forte dei poteri che gli attribuisce la Costituzione, conta di poter neutralizzare la destra lepenista anche se questa riuscisse a conquistare il governo vincendo le elezioni nazionali a doppio turno del 30 giugno e del 7 luglio .
Non basta addomesticare le destre nazionaliste
L’azzardo di Macron ha una sua razionalità, al di là della presunzione del personaggio. Come è accaduto in Italia dove Giorgia Meloni si è perfettamente allineata in politica estera alla fedeltà atlantica e nelle altre materie all’impostazione tecnocratica e neoliberista di Draghi, a maggior ragione in Francia Macron pensa che il duo che guida il Rassemblement National, Marine Le Pen e Jordan Bardella, lasceranno cadere le residue simpatie putiniane e pur di stare al potere si conformeranno alle logiche politiche dell’atlantismo e a quelle militari della Nato. Non solo: dovranno misurarsi con le perduranti proteste sociali dei francesi e con l’insoddisfazione di tanti settori produttivi stretti nella morsa della ristrettezza delle risorse finanziarie cui accedere e dalla competizione globale sempre più aspra. Infine, differenza non da poco con il caso italiano, Macron ha poteri ben più ampi del presidente Mattarella. Ad esempio nel settore della Difesa e in politica estera è lui e non il rappresentante del governo francese a partecipare alle riunioni del Consiglio Europeo e decidere insieme agli altri 26 capi di Stato e di governo gli orientamenti da assumere.
Non è detto che questo calcolo possa riuscire non solo perché in Francia si sta realizzando una grande e positiva novità con la inedita e responsabile convergenza di tutte le forze di sinistra in un’unica alleanza popolare e antifascista capace anch’essa di superare il 30% dei consensi elettorali e addirittura affermarsi al secondo turno in molti collegi uninominali, ma perché l’azzardo di Macron di convivere con la destra lepenista al potere per neutralizzarla e sgonfiarne il consenso non si misura abbastanza con la pericolosità e la ferocia dei processi di rivalsa innescati a livello sociale e politico da queste destre che prefigurano un totalitarismo neoliberale autoritario, capace di concentrazione di potere e di manipolazione della realtà dei fatti e dell’informazione, di fascinazione da un lato e di repressione del dissenso e di discriminazione e violenza capillare verso più deboli dall’altro.
Come ha scritto nel libro “Pensiero istituente” il filosofo Roberto Esposito “le catastrofi antiche e recenti, compreso il fascismo in tutte le sue varianti macro e micrologiche, non derivano da un inganno delle masse a opera di qualcun altro, ma da una deviazione perversa del loro stesso desiderio. Alla sua origine la sorprendente tendenza degli uomini, rilevata da Spinoza, a combattere per la propria servitù come se si trattasse della propria salvezza”.
L’amico e compianto Giovanni Bianchi, già presidente nazionale delle Acli, usava un bel termine che era anche un invito a non giocare con il fuoco, a non pensare di cavalcare le logiche peggiori del capitalismo, del nazionalismo, del razzismo pensando di “addomesticarle”. Ecco, attenzione: di fronte a questa deriva non basta più ricorrere ad “argini” per fermarle né tanto meno ricorrere a forme più o meno astute e ciniche di addomesticamento.
All’unità europea serve la pace e non la guerra!
Quando ci si incammina nel sistema guerra, quando ci si illude di poter governare gli spiriti animali del suprematismo nazionalista e razzista, già si è imboccata una china senza uscite di sicurezza che siano davvero praticabili e democratiche, se per democrazia si intende ancora la libertà di voto e il pluralismo politico e delle idee, la salvaguardia dell’equilibrio dei poteri con pesi e contrappesi, la promozione dei diritti umani e il rispetto di tutte le minoranze, il riconoscimento dell’aspirazione dei popoli alla pace e all’autodeterminazione.
Nel caso poi di affidare l’autonomia strategica, la riforma dei Trattati istitutivi e la maggiore integrazione e unità politica dell’Unione Europea al processo del riarmo, all’economia di guerra, alla creazione dell’esercito comune europeo e alla esternalizzazione dei confini, significa che il progetto europeo sta cambiando direzione, binario, stazione di arrivo: non più Europa cerniera, Europa all’avanguardia nella transizione ecologica, Europa potenza civile e modello di convivenza e riconoscimento dell’universalità dei diritti. Ma Europa Fortezza, Europa militarizzata e nuova potenza militare, Europa levatrice della possibile terza guerra mondiale.
Dobbiamo riconoscere che realisticamente di fronte a quest’onda nera che può sconvolgere l’Europa delle democrazie, erigere “argini” può servire ma non se rimangono come obiettivi strategici principali gli obiettivi militaristi e bellicisti. All’ombra di questi obiettivi cresce il culto della forza, la costruzione ideologica del “nemico”, il rifiuto della conversione ecologica, l’esaltazione della propria identità come assoluta e superiore a tutte le altre.
Dentro la logica dell’argine c’è insieme una necessità e una grave inadeguatezza. La necessità è quella che si deve agire dentro il quadro politico e sociale attuale sia a livello europeo sia a livello nazionale e persino locale per tentare di modificarlo dall’interno perché se si punta esclusivamente sull’utopia del “dovere essere” rischiamo di non incidere sulla situazione presente. D’altro canto restare culturalmente e politicamente dentro la sola logica di riduzione del danno e del contenimento della destra senza progettare un’alternativa è ugualmente insufficiente.
Per questo non va giudicato con disprezzo per le prossime cariche dell’Unione Europea il nuovo compromesso Ursula sempre che la maggioranza tra popolari, socialisti e democratici, liberali tenga come posizione europeista pure ridotta ai minimi termini. Per questo va salutato positivamente in Francia la costituzione di un Nuovo Fronte Popolare di sinistra, ecologista, antirazzista e impegnato sul piano sociale per il salario minimo e la pensione a 60 anni anche se sul terreno pacifista del tutto rinunciatario riguardo alla guerra in Ucraina, per fortuna non per quanto riguarda Gaza e il diritto del popolo palestinese ad un proprio Stato. Compromesso finalizzato a presentare candidati comuni nei 577 collegi elettorali e a superare divisioni tra le 4 componenti politiche principali che lo formano – socialisti, verdi, comunisti, insoumis - fino alle recenti elezioni europee presentatesi in liste separate e spesso in polemica e concorrenza tra di loro.
Per un federalismo della pace e dell’ecologia integrale
Colpisce che in questa Europa la transizione ecologica sia considerata sempre più un impaccio che una opportunità e che le forze ecologiste abbiano subito una consistente riduzione di peso elettorale proprio nel Parlamento Europeo. Colpisce ancora di più che la cultura della pace, della nonviolenza, della soluzione politica dei conflitti sia considerata solo e soltanto “estremismo”.
Allora bisogna ripartire da qui, dal sistema pace come alternativo al sistema guerra. E agire sia sul terreno delle Istituzioni europee e nazionali tenendo conto del quadro politico esistente per forzarlo dall’interno, sia agendo sul terreno sociale e culturale all’esterno del quadro dato per mobilitare movimenti e società civile nella prospettiva pacifista di “Fratelli Tutti”: servono tutte due queste dimensioni, leva interna e leva esterna, per affermare come principio e come visione “se vuoi la pace, prepara la pace”.
Questo comporta non rinunciare all’obiettivo di contribuire alla Riforma dei Trattati istitutivi dell’Unione Europea attraverso l’indizione di una apposita Convenzione aperta e affidando al nuovo Parlamento Europeo un compito costituente per una maggiore integrazione politica dell’Unione Europea che superi su tante materie il voto all’unanimità. Con una importante correzione: il processo federativo non sia basato sul riarmo e sulla politica di potenza ma sia basato sull’ obiettivo della pace e del disarmo negoziato. Insomma il federalismo pacifista dovrebbe prendere il posto di un federalismo armato se davvero pensiamo ad un Europa fuori dalla logica dei blocchi politico-militari contrapposti, alleata su basi nuove e paritarie con vecchi e nuovi alleati senza alimentare l’ideologia del nemico, protagonista della faticosa e difficile costruzione di un nuovo ordine mondiale multipolare e/o policentrico.
Accanto a questo impegno sulla riforma istituzionale dell’Unione Europea che vedrà la forte opposizione di alcuni Stati nazionali, compreso il governo Meloni, che preferiscono la forma confederale a quella federalista, si impone la ripresa di una campagna per il disarmo convenzionale e nucleare che rilanci quella di “Italia Ripensaci” allargandola a tutte le opinioni pubbliche europee.
Il Trattato per la proibizione delle armi nucleari - TPNW- deve essere tra le priorità più urgenti dell’Unione Europea elaborando un percorso di avvicinamento a tappe a questo obiettivo, magari in relazione alla maturazione di una soluzione politica e non militare del conflitto in Ucraina: non ci dovrebbe infatti essere un prima e un dopo tra interruzione del conflitto con la Russia e scambio di reciproche garanzie di non fare ricorso all’arma nucleare né tattica né di corto o medio raggio. Si tratta di questioni che fanno parte dello stesso negoziato anche se su livelli diversi. Finchè il ricorso all’arma nucleare viene evocato da Putin per intimidire la Nato e viene previsto e addirittura programmato dalla Nato con la dottrina della “deterrenza nucleare estesa” è evidente che non c’è il minimo spazio per il TPNW e nemmeno per la logica e il percorso di un progressivo avvicinamento a questo traguardo.
Fondamentale negoziare il disarmo
In forza dell’articolo 11 della Costituzione e se c’è volontà politica, l’Italia può procedere tanto sulla strada di rimettere in discussione l’accordo di condivisione nucleare – nuclear sharing- con Stati Uniti e Nato che riguarda le Basi militari di Ghedi e di Aviano quanto sulla strada multilaterale nell’ambito di iniziative da assumere come Unione Europea: quella di procedere per gradi alla proposta di riduzione bilanciata e progressiva dei sistemi d’arma nucleari dislocati in tutta Europa, Russia compresa. Questo obiettivo comporta di aprire nuovi negoziati, dopo le rotture già avvenute ben prima dell’invasione dell’Ucraina, per ristabilire i Trattati INF e New START non solo tra Stati Uniti e Russia, ma anche con la partecipazione attiva degli Stati europei e delle Istituzioni europee perché questi accordi internazionali, soprattutto quelli sui missili a medio e corto raggio, sono chiaramente connessi con la maggior sicurezza da assicurare proprio sul territorio europeo a tutti gli attori in campo anche se avversari: Paesi dell’Unione Europea, Russia ma soprattutto Ucraina.
Il destino dell’Ucraina e la fine della guerra sono fortemente intrecciati con la sua collocazione di neutralità oppure dentro la Nato. Ma la sua neutralità non potrà mai essere il frutto avvelenato di una vittoria militare della Russia così come l’Ucraina dentro e pedina della Nato non avrà mai sicurezza nei confronti di una Russia umiliata ma sua eterna confinante. In entrambi i casi la soluzione di questo conflitto non può che scaturire in modo stabile da un accordo più complessivo che riguarda le reciproche garanzie di sicurezza nel medio-lungo periodo e dunque al fatto che si arrivi ad un accordo sulla questione del controllo e della riduzione delle armi nucleari.
Di questo dovrebbero preoccuparsi i movimenti pacifisti italiani ed europei e lavorare insieme per meglio definire questa prospettiva anche attraverso una loro Conferenza per la pace e il disarmo in Europa come contributo alla pace globale. Si tratta di mettere insieme le varie proposte contenute nel Documento “Uscire dal sistema di guerra, costruire insieme la pace” elaborate dal Tavolo pace e disarmo in vista dell’Arena 2024 con papa Francesco.
Di fronte alla globalizzazione della guerra, pensiamo al conflitto israelo-palestinese, allo Yemen, alle tensioni irrisolte nel Caucaso, ai colpi di Stato nel Sahel divenuto retrovia mondiale del terrorismo jihadista, ai milioni di morti in Congo, alla tregua mai diventata pace tra le due Coree, alle mire di Pechino su Taiwan e alla militarizzazione dell’indo-pacifico con la trasformazione della Nato in Nato globale, la pace e le condizioni per la pace diventano o dovrebbero diventare la priorità assoluta. E nel cuore della costruzione della pace globale ci stanno i negoziati per il disarmo convenzionale e nucleare e l’utilizzo di maggiori risorse ed energie nella lotta ai cambiamenti climatici e alle disuguaglianze.