La fabbrica dei sogni di Valentina Baronti (edizioni Alegre) è un libro prezioso. L’ho letto in pochi giorni, dopo averlo scambiato con lei con il mio libro Sud e ritorni, dalle miniere alle librerie tra Belgio e Sicilia, prima di ferragosto di quest’anno.

L’avevo già visto per la prima volta, il libro (e anche lei, ma c’era troppa gente quindi non ricordavo bene di averla incontrata), al Festival della letteratura a Firenze, davanti la fabbrica GKN, occupata da ormai tre anni dagli operai. Ed è questa la storia che racconta Valentina. Per questo motivo il suo è un libro prezioso. Racconta l’occupazione, ancora in corso, di una fabbrica come la GKN, con una trama sentimentale, con un accenno a un incontro tra la protagonista Agata e Lorenzo, un operaio e occupante. E' un libro di passione, che è anche condivisione, organizzazione, lotta comune. E' qualcosa di altri tempi ma al tempo stesso attuale, attuato, amore e lotta tra i “solidali” e gli operai della GKN. Ed è commovente e spiazzante questo amore per la resistenza degli operai della fabbrica, che Valentina spesso dichiara, amore anche come salvezza dall’individualismo, dal sentirsi inadeguata, fallita, frustrata, come succede ad Agata. E c’è questo uscire dal guscio, dal vittimismo e dal ritorno alla solitudine “sotto l’ulivo”, questo senso e significato da dare all’esistenza, grazie alla lotta, ai cortei, alle assemblee, ma c’è anche l’autocritica, il sentirsi quasi di peso nei confronti degli operai, come a dire, da parte di Agata: “Non voglio scaricare su di voi le mie frustrazioni”. D’altronde è una verità dimenticata, che era molto più diffusa e vitale fino a trenta o quarant’anni fa, ma basta andare in un presidio di operai in lotta per respirare un’aria di vitalità e di ripresa di coraggio rispetto all’esistenza, collettiva e individuale. Non per fare retorica o per mitizzare le lotte degli operai, ma quando ero andato nel 2012 ad assistere i ferrovieri arrampicati sulla torre del binario 21, ho sentito lo scarto tra il vuoto delle luci e lo scintillìo delle vie del centro di Milano, contrapposti alla vitalità e al calore umano di quel binario, dove decine di persone stavano vicine ai ferrovieri licenziati, attorno a un fusto con la legna ardente per riscaldare i giorni e le sere di gennaio. Agata usa diversi registri, quello di una lettera, in cui si confida anzi si confessa con gli operai occupanti e cita stralci di giornali locali e nazionali per fare il punto sull’andamento della vertenza tra gli operai senza paga per mesi, in cassa integrazione e i dirigenti lontani e senza scrupoli. Poi c’è la narrazione personale, anche con finestre sulle debolezze di Agata: in questo ricorda il tono di certe pagine del libro di Sara Vitale, Risorgerà il sole, con argomento diverso. Il tono di certi passaggi del libro di Valentina ricordano alcuni passaggi anche del penultimo romanzo di Mauro Mirci, C’erano sei re. Lì c’era la figura della madre al centro, mentre Agata rievoca spesso la nonna contadina, in una Toscana che diventa industriale e arriva fino a noi, con gli operai della GKN che ci invitano a fare quel gesto collettivo sempre più dimenticato e sempre più urgente e prezioso, riassunto in una parola che loro hanno scritto spesso nei loro striscioni e che diventa il titolo di un libro pubblicato dalla stessa casa editrice de La fabbrica dei sogni: Insorgiamo!


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