Amore, amicizia e fratellanza. Alcuni spunti del grande poeta rivolti agli studenti che hanno finito l'anno scolastico.

Ora che la scuola è finita (l’ultima fatica rimane l’esame di stato) anche per noi insegnanti comincia il tempo del riposo. Sono giorni che cerco un luogo simbolico da cui guardare l’animo dei ragazzi: i loro desideri, le loro paure, le loro fatiche, il loro bisogno di emancipazione dai codici etici della società degli adulti, che si porta addosso la responsabilità di quello che succede fuori dalle aule scolastiche: guerre, violenze, ingiustizie, inimicizie, deportazioni, pulizie etniche, repressioni del dissenso.

Il luogo alla fine l’ho trovato: la finestra di casa Leopardi. Ogni volta che passo per Recanati mi fermo. Se provo a chiudere gli occhi forse ci sono stato anche con Giacomo nell’estate del 1818. O almeno, così l’ho sognato. Mi sono seduto accanto allo scrittoio al mattino presto e ho sentito il canto di Silvia, il suon della sua voce, di quella giovane Teresa di cui abbiamo qualche cenno negli Appunti: «Canto mattutino di donna allo svegliarmi, canto delle figlie del cocchiere e in particolare di Teresa, mentre che io leggeva il Cantico delle Maddalene». Uno, per forza di suggestioni, la immagina bella mentre percorre la tela con gli occhi ridenti e fuggitivi. Come poteva Giacomo starsene chino dinanzi alle sudate carte, mentre la fanciulla muoveva la mano cantando? Come poteva non fingere col pensiero il desiderio effimero della felicità? Desiderio, ossia promessa da soddisfare senza rimandare mai il momento propizio, perché anche la gioia dell’attimo, come l’illusione, è pari a un vetro di cristallo: «L’erma terra contemplo, e di fanciulla / che all’opre di sua man la notte aggiunge…». A proposito di Silvia, Leopardi annota nello Zibaldone: «… veramente una giovane da sedici a diciotto anni ha nel suo viso, ne’ suoi moti, nelle sue voci, salti, un so che di divino, che niente può agguagliare…». Perché celeste è questa bellezza da cogliere come un fiore prima che appassisca. Divino è questo impulso alla vita, questo impeto di cose da fare, da realizzare. Giovinezza è l’età più dolce, è vita da vivere in ogni direzione prevista. Essa non torna. Brucia come legno sul fuoco: «Godi fanciullo mio; stato soave / stagion lieta è cotesta / Altro dirti non vo’; ma la tua festa / ch’anco tardi a venir, non ti sia grave…». Giacomo ha ripetuto questa promessa di bellezza infinite volte, anche quando cominciò ad allontanare da sé ogni finta consolazione: «Fratelli a un tempo stesso Amore e Morte / ingegnerò la sorte / Cose quassù si belle / altre il mondo non ha, non han le stelle /…». La vaga felicità nello sguardo d’amore si risolve con la ricerca di una presenza che inevitabilmente si farà assenza. Perché c’è una bellezza che supera lo spettacolo della luna, ossia l’aldilà della terra. L’amore, il più terreno degli amori, lascia una scia. Scrive negli Appunti: «Ed oggidì anche l’amore, il meno platonico e il più sensuale pur tiene nelle sue idee e nei suoi sentimenti assaissimo dello spirituale». Vita, amore, passione, canto, visione, spirito, arte, contemplazione, immaginazione: ecco le prime parole che mi vengono in mente, pensando ai ragazzi oramai lanciati verso l’ebbrezza della vacanza, affacciandomi simbolicamente alla finestra di Giacomo Leopardi.
Ma mentre l’amore può non essere corrisposto, l’amicizia deve essere per forza vissuta come reciprocità. Penso allo sguardo ansioso, preoccupato e felice di Giacomo quando vide arrivare, sotto la sua finestra, la carrozza di Pietro Giordani passato a fargli visita nella “reclusione” di Recanati. Forse il primo vero amico nato per lettera, lontano dal borgo natìo. Perché – diceva nello Zibaldone - «in un luogo piccolo vi sono partiti, amicizia non v’è, amicizia non può essere che in città grandi, o pur fra persone lontane». L’amicizia richiede comunanza di interessi, riconoscimento etico, fiducia, fedeltà, condivisione nella gioia e nel dolore. Leopardi trova in Giordani «un uomo di cuore, d’ingegno e di dottrina straordinario». Uno spirito che gli fa da balsamo in un periodo disperato e assai creativo. Ha bisogno di amici così. Ne trova alcuni (Viesseux, Colletta, Montani…) Antonio Ranieri è un uomo fuori dagli schemi. Lo accompagna, lo stimola, lo fa girare offrendogli un po’ di vitalità, di gioia: «… noi due siamo una cosa sola talmente, che io non so più immaginare il modo come potessi vivere senza di lui» scrive nel 1831. Si è discusso molto su quel sodalizio, purtuttavia Leopardi compone, in questo periodo, versi stupendi e riflessioni profondissime, che innalzano l’animo al di sopra di “progresso scorsoio” per dirla con Zanzotto, tipico della società mercantile, valori corrotti che portano inevitabilmente all’antagonismo, alla lotta, alla distruzione. L’egoismo, annota nello Zibaldone, «è ghiaccio dell’animo, disseccamento dell’amor proprio: una povertà, una scarsezza di vita». Avarizia, falsità e perfidia «tutte le qualità e le passioni depravatrici e le più indegne dell’uomo incivilito, sono in vigore…». Perché questo soltanto è vero, ossia la natura mortale dell’uomo e dunque il riconoscimento di questa caducità, di questa naturalezza dei piaceri, che affratella e non divide: «Contro queste «orribili e smisuratissime crudeltà» della civilizzazione, Leopardi si era battuto con forza: «O l’immaginazione tornerà in vigore e le illusioni riprenderanno corpo e sostanza in una vita mobile e energica e la vita tornerà ad esser cosa viva e non morta… o questo mondo diverrà un serraglio di disperati». (Frammento sul suicidio). La sua voce continua a farsi largo, più attuale che mai, oltre la cortina delle nostre contraddizioni, anelando l’infinito, l’abbandono, la nudità esistenziale: «… Così tra questa / immensità s’annega il pensier mio / e il naufragar m’è dolce in questo mare».

Pubblicato in Alto Adige, 18 giugno 2025


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