La mia riflessione, seppure sensibile al contesto internazionale della Chiesa cattolica, si colloca in quello latinoamericano, per certi versi meno implicato nella discussione sull’ordinazione delle donne. Come teologhe latinoamericane, non ci siamo mai molto battute per questo. Tuttavia, negli ultimi mesi, grazie anche alla creazione in Vaticano di una commissione di studio sul diaconato femminile, la riflessione ha guadagnato spazio.
C’è stata perfino una parrocchia di São Paulo (Brasile) che ha organizzato un dibattito. Sono stati pubblicati testi che raccontano storie di donne, che sono state ordinate illecitamente, secondo la Chiesa cattolica, e quindi scomunicate. Si stima che siano più di duecento, tra cui anche alcune vescove. Insomma, la discussione sull’ordinazione delle donne è uscita allo scoperto.
Un dilemma critico
Sono d’accordo con chi sostiene che l’ordinazione delle donne potrebbe segnare un progresso verso il superamento della disuguaglianza anche nella società. Tuttavia, è chiaro che per molti fautori e fautrici della causa si tratta di affermare soprattutto il “diritto” di ambo i sessi a rappresentare Gesù Cristo di fronte alla comunità. Insomma, in questione c’è più l’integrazione delle donne nel ministero ordinato che il modello di Chiesa. Un dilemma di non facile soluzione. A mio avviso, però, il problema fondamentale riguarda il concetto di diritto. Che cosa significa avere diritto all’ordinazione in un’istituzione la cui teologia (ideologia) continua a valorizzare il potere maschile a scapito di una visione più partecipativa e diversificata dei servizi, dei carismi e dei poteri? Che cosa significa il diritto all’ordinazione, quando domina una visione eminentemente maschile del sacerdozio, anacronistica, segnata da un plurisecolare simbolismo teologico maschile? L’ammissione delle donne all’ordinazione risolverebbe da sola queste spinose questioni?
L'attuale teologia sacerdotale
La teologia sacerdotale corrente riveste i presbiteri di poteri non solo simbolici, ma anche politici e sociali, che permettono di orientare vite e perfino di manipolarle. Spesso essi usano le Scritture a piacere e giustificano le proprie scelte come se fossero emanazioni evangeliche. Non mancano eccezioni, ma è più comune che i presbiteri concentrino l’autorità. Tale concentrazione impedisce la crescita di molteplici ministeri o servizi nelle comunità cristiane. Inoltre, il modello di presbitero in vigore è quello del sacerdozio “rigiudaizzato” di Gesù, distante dalle ispirazioni evangeliche. Piuttosto di rinunciare al potere che li esalta, alla stregua dei loro pari laici, i presbiteri lungo i secoli hanno rafforzato l’alleanza con il potere politico, economico e religioso, imponendo decisioni e agendo irrispettosamente soprattutto in riferimento alla sessualità femminile. Riconosco il ruolo sociale e culturale di sacerdoti, sciamani, mãe e pai-do-santo, imam ecc. nelle diverse religioni. Ma non si tratta di “guardiani” esclusivi della tradizione religiosa cui appartengono, bensì di leader che si fanno carico dei bisogni delle comunità. Di modo che la partecipazione dei membri di una comunità ai servizi e alla costruzione di senso dovrebbe essere una responsabilità condivisa. Cosa che richiede un dialogo costante e la condivisione delle conoscenze e dei poteri. In questo senso non auspico l’estinzione del ruolo di persone più preparate o di leader etici in relazione alle tradizioni religiose, ma che essi siano legittimati nella loro autorità nella misura in cui si fanno carico delle problematiche della comunità.
Riforma “politica” della Chiesa
In questa prospettiva le donne non devono rafforzare un modello di sacerdozio gerarchico maschile né accettare l’ordinazione sulla base di una teologia gerarchica, con un simbolismo fondamentalmente maschile. Prima sarebbe necessaria una riforma “politica” nella Chiesa cattolica, per non contrabbandare la sua attuale organizzazione come proveniente direttamente da Dio, secondo la volontà di Gesù, immutabile lungo i secoli nelle diverse culture. Parlare di riforma “politica” implica una riforma della teologia che finanzia tale politica di carattere maschile, patriarcale e centralizzatore. La presunta uniformità dei dogmi e la legalità delle disposizioni canoniche, nonostante la loro utilità, contraddicono il pluralismo di situazioni e tradizioni presenti nelle diverse culture e fasi della storia. La Chiesa gerarchica non le ha sempre rispettate, anzi spesso le ha combattute come negazioni della vera dottrina rivelata. È in questo contesto che si può parlare anche di teologie femministe e della loro critica al centralismo religioso e al taglio eminentemente maschile del simbolismo religioso. Esse hanno denunciato gli abusi del potere religioso, soprattutto in relazione all’indebita appropriazione della decisione sui nostri corpi. Hanno reinterpretato in forma ricca e contestualizzata la Bibbia e la teologie al fine di rispondere alle sfide attuali del mondo. Ma le teologie femministe sono quasi universalmente respinte o ignorate dai manutentori della tradizione maschile, poiché sfuggono al copione stabilito.
Teologia femminista
Ho il sospetto che gran parte del movimento in favore dell’ordinazione delle donne non si muova nella linea critica di molte teologie femministe. Persegue la parità di genere nei ministeri senza interpellare i fondamenti teologici e politici della Chiesa. Vede solo il diritto delle donne di esercitare ministeri in una Chiesa cattolica predefinita nella sua organizzazione gerarchica. È come se col solo rendersi presenti nei ranghi sacerdotali, le donne potessero cambiare qualcosa della sua rappresentazione finora unicamente maschile. Questo non basta a modificare le nostre convinzioni in merito alla struttura della Chiesa. Bisogna chiarire i comportamenti sociali, politici ed ecclesiali che devono accompagnare l’ordinazione delle donne. Quali nuove politiche la Chiesa deve assumere, quali orientamenti deve proporre perché i nuovi “soggetti” femminili entrino davvero a far parte dei suoi quadri di direzione e leadership a tutti i livelli? Sono esigenze che noi donne dovremmo porre per non accettare qualcosa come se fosse un favore degli uomini di Chiesa a noi povere donne. Dico questo perché conosco alcune pastore e candidate al sacerdozio femminile e la mia impressione, per quanto limitata e discutibile, è che non abbiamo ottenuto un mutamento qualitativo significativo nella struttura attuale della Chiesa cattolica. Molte chiedono il sacerdozio, ma non propongono né rivendicano le condizioni per il suo esercizio. Alcune donne-prete svolgono attività di primo piano con popolazioni emarginate. Altre sono provviste di dottorati in teologia presso Università di fama internazionale, tuttavia questa formazione non è riconosciuta dai prelati. Posso capire l’eccitazione e il desiderio di vedersi sull’altare, di presiedere una messa e avere un certo potere nella comunità. Comprendo anche l’emozione narrata da alcune di poter elevare l’ostia e dire “questo è il mio corpo (di Cristo)”, come un sogno d’infanzia realizzato. Non le condanno, ma penso che dovremmo esigere molto di più, in un dialogo tra eguali, non tra superiori e inferiori.
Affetti e poteri assoluti e domestici
In questa problematica c’è un altro dato importante: il cristianesimo nella sua forma cattolica è una religione organizzata a partire da forti emozioni culturali, in cui il circuito di affetti rivela una sorta di divisione sociale dei poteri che riproduce la società in cui viviamo. La figura maschile di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, riveste un potere socio-emotivo assoluto, mentre le figure femminili come Maria e molte sante rivestono un potere assoluto domestico, che assiste, accoglie, protegge e guarisce. La rappresentazione sacerdotale maschile appare emotivamente attaccata al potere politico assoluto maschile, anche se spesso il potere effettivo è femminile. Sappiamo che l’ordinazione maschile obbedisce a una dogmatica gerarchica maschile, che inizia con l’immagine di Dio Padre che dà potere al Figlio unico, il quale invia lo Spirito, perpetuato e simboleggiato dai sacerdoti maschi. Noi donne siamo disposte a mantenere questa anacronistica gerarchia maschile? Siamo disposte a mantenere la differenza tra sesso maschile e femminile come dislivello di capacità che si esprime anche nel divario retributivo nel servizio alle comunità? Siamo disposte a mantenere la divisione sociale degli affetti e dei poteri? Un piccolo esempio. Oggi, in molte diocesi c'è un divario salariale tra preti, suore e laici per servizi analoghi. Ciò riflette ancora la conservazione del privilegio di gerarchie maschili all’interno della Chiesa. La rivoluzione di senso in atto oggi non indica la necessità di ripensare il patrimonio cristiano per i nostri giorni, nella diversità delle comunità ecclesiali, delle organizzazioni pastorali e dei ministeri?
La naturalizzazione
Un altro aspetto importante è il rischio di naturalizzare i comportamenti maschili e femminili credendo che tutti gli appartenenti all’uno o all’altro genere, persino i transgender, si comportino allo stesso modo. “Naturalizzazione” significa rendere certi comportamenti predeterminati dalla natura o da Dio e affermare, per esempio, che la vocazione sacerdotale delle donne è la cura quotidiana e non riguarda le politiche pubbliche in favore del bene comune. Non possiamo più credere che ci siano compiti o lavori specificamente maschili e altri femminili, come se avessimo identità lavorative predefinite. In un certo senso questi atteggiamenti risalgono ancora a Jean Jacques Rousseau e Auguste Comte, che volevano educare le donne in funzione degli uomini e della famiglia, cercando di preservarle dalla politica e dai vizi della vita sociale a beneficio della società, dei mariti e dell’educazione dei figli. Oggi assistiamo a riflessioni e atteggiamenti simili, seppur con sfumature e giustificazioni diverse. Queste devono essere decostruite.
La storia
In questo contesto di “richiesta” di ordinazione delle donne, non possiamo dimenticare le persecuzioni della Chiesa cattolica nei confronti delle donne. Accusate in passato di essere streghe o usurpatrici del potere di pensare, che avrebbe dovuto essere solo maschile, molte donne sono state condannate a morte o perseguitate. Da Ipazia di Alessandria (condannata alla lapidazione) a Giovanna d’Arco (condannata al rogo) fino alle figure femminili massacrate per aver osato penetrare negli atri del sapere teologico. Non possiamo dimenticare queste storie. Inoltre, nel XX e XXI secolo le teologie femministe hanno ripensato gran parte della tradizione cristiana. È deplorevole che oggi ci siano ancora interrogatori, lettere di avvertimento, ammonizioni a congregazioni religiose femminili, a teologhe e filosofe che accolgono il dono di pensare la vita come parte del servizio al “movimento di Gesù”. Una rivendicazione, come quella dell’ordinazione delle donne, non è una richiesta isolata, ma si iscrive in questo complesso contesto di idee e credenze clericali che governano menti e cuori, conservando strutture organizzative anacronistiche.
Situazione ideale?
Prima di approvare il sacerdozio come diritto delle donne – cosa che non penso farà l’attuale governo della Chiesa cattolica –, dobbiamo riflettere sulle condizioni del diritto che invochiamo e sui limiti del modello attuale di sacerdozio. Sebbene tale modello presti ancora alcuni servizi alla comunità cristiana, la esenta però da molte responsabilità nei confronti della costruzione di senso e dell’organizzazione plurale della vita cristiana. Perciò sono contraria all’ordinazione delle donne come concessione, perché questo è limitativo e dannoso per gli uomini e le donne. Ho coscienza, anche se molto limitata, della storia delle donne nella Chiesa cattolica e dell’enorme percorso di lotte che abbiamo fatto nel cristianesimo. Dalla stretta e intima partecipazione al “movimento di Gesù” fino ad oggi abbiamo sostenuto e vissuto la fede, la speranza e la carità, sapendo dalle nostre viscere che la carità rimane la realtà maggiore. È in essa e a partire da essa che la riproduzione di modelli sacerdotali tradizionali nell’odierna configurazione del mondo rischia di mantenere e persino ampliare poteri autoritari che da molto tempo avrebbero dovuto essere rivisti e modificati alla luce del riconoscimento dell’altra/o come mio simile e diverso da me. Tutto quando detto è anzitutto un invito a ripensare il modello di Chiesa.